Appunti esaustivi che riassumono con precisione i due volumi di 'Corso di diritto commerciale' di Presti e Rescigno.
Dopo un'introduzione sulla storia e l'evoluzione della disciplina commerciale, si approfondiscono i principali argomenti attinenti alla materia.
Ecco in sintesi i punti toccati:
- l'imprenditore
- categorie di imprenditore e normative applicabili
- l'azienda, segni distintivi e la proprietà intellettuale
- la concorrenza fra imprese
- i contratti di impresa
- i contratti per lo scambio e la distribuzione dei beni
- i contratti per la prestazione d'opera e i servizi
- i contratti bancari
- i contratti del mercato mobiliare
- le società di persone (costituzione e rapporti patrimoniali, organizzazione e scioglimento)
- le società di capitali
- s.p.a. (costituzione, nullità conferimenti, le azioni, assemblea, organi amministrativi e di controllo, statuto e accomandita per azioni, costituzione e struttura finanziaria)
- s.r.l. (struttura e organizzazione)
- società cooperative e mutue assicurazioni
- società con azioni quotate
- società di capitali (libri sociali e bilancio, gruppi di società)
- trasformazione, fusione e scissione societaria
- società e diritto internazionale
Diritto commerciale
di Stefano Civitelli
Appunti esaustivi che riassumono con precisione i due volumi di 'Corso di diritto
commerciale' di Presti e Rescigno.
Dopo un'introduzione sulla storia e l'evoluzione della disciplina commerciale, si
approfondiscono i principali argomenti attinenti alla materia.
Ecco in sintesi i punti toccati:<br />
- l'imprenditore<br />
- categorie di imprenditore e normative applicabili<br />
- l'azienda, segni distintivi e la proprietà intellettuale<br />
- la concorrenza fra imprese<br />
- i contratti di impresa<br />
- i contratti per lo scambio e la distribuzione dei beni<br />
- i contratti per la prestazione d'opera e i servizi<br />
- i contratti bancari<br />
- i contratti del mercato mobiliare<br />
- le società di persone (costituzione e rapporti patrimoniali, organizzazione e
scioglimento)<br />
- le società di capitali<br />
- s.p.a. (costituzione, nullità conferimenti, le azioni, assemblea, organi
amministrativi e di controllo, statuto e accomandita per azioni, costituzione e
struttura finanziaria)<br />
- s.r.l. (struttura e organizzazione)<br />
- società cooperative e mutue assicurazioni<br />
- società con azioni quotate<br />
- società di capitali (libri sociali e bilancio, gruppi di società)<br />
- trasformazione, fusione e scissione societaria<br />
- società e diritto internazionale<br />
Università: Università degli Studi di FirenzeFacoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto commerciale, a.a. 2007/2008
Titolo del libro: Corso di diritto commerciale (vol. 1 e 2)
Autore del libro: Gaetano Presti e Matteo Rescigno1. Definizione di diritto commerciale
Il diritto commerciale è quel ramo dell’ordinamento che detta la disciplina degli imprenditori, dei loro atti e
della loro attività, e dell’ambiente in cui operano (il mercato).
Tutta la storia del diritto commerciale testimonia di una mai sopita dialettica tra gli interessi dei produttori e
dei mercanti, dei fornitori e dei fattori di produzione (lavoratori, finanziatori), degli utenti e dei consumatori.
La sintesi degli interessi, tramontato il mito dell’onnipotenza del legislatore statale, viene effettuata
principalmente a livello
- delle norme scritte di legge poste dall’autorità politica competente;
- delle norme, di crescente importanza, poste da istituzioni prive di legittimazione rappresentativa, ma voce
di organismi “tecnici” nazionali (Banca d’Italia, Consob, ecc…) e sovranazionali (UE, WTO, ecc…);
- delle applicazioni giurisprudenziali di tali norme.
Ciò non deve indurre a credere che il mercato sia semplicemente oggetto di regolazione; anzi, non si è
placata la pretesa del mercato di autoregolarsi da sé.
A questa aspirazione si contrappone chi rifiuta la riconduzione dell’uomo all’unica dimensione economica
del profitto e rivendica una valutazione dell’agire economico anche nella prospettiva dell’utilità sociale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 2. Nascita del diritto commerciale
Tradizionalmente le caratteristiche costanti nel tempo del diritto commerciale vengono identificate nella
specialità rispetto al diritto privato e nella vocazione universale (transnazionale).
In ogni tempo le comuni regole dei rapporti fra privati hanno manifestato la loro inidoneità alla disciplina
dell’attività economica.
La specialità tende ad svincolare il diritto commerciale dal diritto privato (tipicamente di carattere
nazionale) e ad affermare il bisogno di regole particolari; l’universalità tende a rivendicare una
legittimazione alternativa rispetto a quella statuale e a costruire regole che valgano a prescindere dalla
specifica localizzazione dei rapporti.
Lo sviluppo storico del diritto commerciale è sempre strettamente intrecciato, da un lato allo sviluppo
tecnologico e alle vicende economiche, dall’altro alla dialettica politica.
La nascita del diritto commerciale viene abitualmente collocata sul finire del XI secolo.
I fattori, che determinano non solo il riprendere degli scambi, ma anche una loro nuova connotazione,
svincolata dal soddisfacimento dei bisogni di consumo, sono: la crescita della popolazione, il diffondersi di
nuove tecnologie, una situazione politica meno caotica, il risorgere delle città, e soprattutto il sorgere di una
nuova classe di soggetti dediti professionalmente allo scambio.
Il quadro normativo non era però adatto all’attività del commerciante: il diritto comune era una miscela di
regole del classico diritto romano e del diritto canonico, l’uno basato sulla tutela della proprietà, l’altro su
regole come il divieto di usura che impedivano i finanziamenti; entrambi finalizzati alla protezione
conservativa della ricchezza e non alla sua accumulazione e circolazione, alla tutela del godimento dei beni
e non alla ricerca del profitto.
L’attività economica non può prescindere da una cornice normativa che garantisca la sicurezza dei traffici.
Si plasmano allora regole speciali; che nascono come norme private, all’interno delle corporazioni in cui i
mercanti sono inquadrati.
Le controversie tra mercanti sono decise dagli organi interni alla corporazione non sulla base del diritto
comune, ma degli usi normalmente seguiti dai mercanti.
Le decisioni vengono poi raccolte, sedimentate e raffinate, e sulla loro base viene a formarsi un corpo
organico di diritto speciale: la c.d. lex mercatoria.
Si sviluppano, in questo modo, istituti che consentono anche a chi non esercita la mercatura, ma è fornito di
un capitale in surplus (solitamente la nobiltà terriera), di “investirlo” contribuendo così allo sviluppo
economico.
Uno di questi istituti è il “possesso in buona fede vale titolo”, con cui si da maggiore tutela alla certezza
dello scambio effettuato in buona fede dal compratore, rispetto al diritto di proprietà del legittimo
proprietario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 3. Il diritto commerciale al formarsi degli Stati Nazionali
I grandi Stati nazionali affermatisi a partire dal XVI secolo ereditano dai comuni la funzione di centro di
propulsione del diritto commerciale.
Il potere statale irrobustendosi tende infatti a riprendere nel suo alveo la regolamentazione mercantile.
Tuttavia, non vi è scontro frontale tra potere regio e mercanti, ma collaborazione: i mercanti, sotto
l’ombrello del potere regio, conservano le loro regole speciali, benché la loro applicazione passi dalle
corporazioni a speciali tribunali di commercio di derivazione statale, ma da loro stessi formati.
Con le grandi scoperte geografiche nascono le antesignane delle attuali società di capitali e le prime borse:
per assicurare la possibilità di mettere insieme grandi capitali necessari allo sfruttamento delle nuove terre.
Espressione di questo periodo sono le grandi compagnie delle Indie.
La rivoluzione francese e la successiva codificazione napoleonica (code civil del 1804 e code du commerce
del 1807) intervengono quasi a suggello della fase precedente: il diritto commerciale non si applica più in
relazione allo status soggettivo delle parti, ma in dipendenza della natura dell’atto compiuto.
A ciò si accompagna, nel passaggio tra il XVIII e il XIX secolo, l’avvio della rivoluzione industriale: la
nascita delle fabbriche e la concentrazione di ingenti masse di lavoratori, la produzione di massa,
l’affermarsi del capitale finanziario necessario per i grandi investimenti, ecc…
Centro della disciplina resta il commerciante, ma anche l’industriale giuridicamente lo è: è anch’egli un
mercante che specula sulla differenza di prezzi tra quello della forza lavoro e delle materie prime e quello
dei prodotti finiti.
La vicenda italiana del XIX secolo è coerente col quadro descritto.
Perso il ruolo propulsivo delle origini, quando la lex mercatoria era stata in gran parte il frutto dei mercanti e
dei giuristi italiani, l’Italia, arrivata in ritardo all’unità politica e alla rivoluzione industriale, è al traino delle
nazioni più progredite.
Il primo codice di commercio unitario del 1865, infatti, è quasi una fotocopia di quello francese; e
l’impostazione non muta nel successivo codice di commercio del 1882, ove peraltro si avverte anche
l’influenza tedesca.
Nel 1888 vengono aboliti in Italia i tribunali di commercio, riconducendo l’applicazione delle norme
speciali del codice di commercio all’autorità giudiziaria ordinaria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 4. Rapporto tra Codice, Costituzione e Unione Europea in Italia
Già all’inizio del XX secolo cominciano in Italia i lavori per la riforma dei due codici (civile e di
commercio) e proseguono per anni rigorosamente divisi.
Solo nel 1941 la duplicità viene meno: nel 1942 viene promulgato un nuovo codice civile che assorbe in sé
la materia commerciale, la quale rappresenta il nucleo dei libri IV (delle obbligazioni) e V (del lavoro, ove
sono disciplinate impresa e società).
L’unificazione nel codice del 1942, pur compiendosi sotto il nome del diritto civile, è però di impronta
schiettamente commercialistica.
Le nuove norme generali del libro IV, che valgono per tutte le obbligazioni, sono quelle della tradizione dei
mercanti, non quelle di ius civile.
In altri termini, la classe imprenditoriale non rinunzia al suo diritto speciale, ma, prevalendo sugli altri ceti
detentori della ricchezza, ne ottiene la generalizzazione all’intera società.
Il nuovo codice sopravvive alla caduta del fascismo in quanto contiene una disciplina legata a interessi
economici che prescindono da una specifica forma di rappresentazione politica.
Più profondo è l’impatto del codice con la Costituzione repubblicana del 1948.
Di fatto, però, le norme costituzionali attinenti alla sfera economica sono frutto di un compromesso tra le
grandi forze emerse dalla Resistenza (cattolica, marxista e liberale), compatibile con le disposizioni vigenti.
La Costituzione più che delineare in positivo un modello di sistema economico esclude l’adozione di una
delle due forme estreme allora contrapposte: né economia pura di mercato, né economia socialista con
collettivizzazione della proprietà e dei mezzi di produzione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 5. La prima fase della vita repubblicana
La prima fase della vita repubblicana è caratterizzata da due aspetti:
- Il massiccio, ed economicamente decisivo, intervento pubblico sull’economia.
La produzione e la distribuzione dell’energia elettrica vengono nazionalizzate, allo Stato o a enti pubblici
appartengono la maggioranza del sistema bancario, buona parte di quello assicurativo e una cospicua
percentuale del mondo manifatturiero.
La mano pubblica ha consentito lo sviluppo di una realtà economica che ha raggiunto i primi posti nelle
classifiche mondiali.
Questi strumenti, però, hanno anche determinato la rigidità del sistema, ostacolando il libero gioco della
concorrenza.
- Sostanziale stasi dell’attività legislativa interna; non vi sono significative innovazioni delle norme di diritto
commerciale fino alla c.d. mini-riforma delle s.p.a. nel 1974.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 6. Trattato istitutivo della Comunità Europea e gli anni '90
Il 25 marzo 1957 viene sottoscritto a Roma il Trattato istitutivo della Comunità Europea.
In esso erano contenute le prime norme di tutela della concorrenza applicabili in Italia ed era altresì previsto
il potere del Consiglio Europeo di emanare direttive finalizzate a rendere equivalenti negli Stati membri le
garanzie richieste alle società.
Entrambe queste innovazioni sono state decisive per l’ammodernamento del nostro sistema.
Obblighi di adeguamento alla legislazione comunitaria, perdita di legittimazione sociale e politica
dell’intervento pubblico e minori risorse a disposizione dello Stato hanno comportato dall’inizio degli anni
’90 il contestuale emergere di tre fenomeni:
- l’avvio della privatizzazione di gran parte delle imprese pubbliche;
- la liberalizzazione di settori prima riservati al monopolio pubblico (telecomunicazioni, energia elettrica,
ecc…);
- l’ammodernamento della legislazione dell’attività economica.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 7. L'elaborazione del diritto: il commercio internazionale
Universalità e specialità continuano a segnare l’attività economica e le regole che essa crea e richiede; la
globalizzazione dei mercati ne esalta la pervasività.
Anche durante il secolo appena trascorso, nel quale la necessaria derivazione statale delle regole sembrava
avere raggiunto un punto di non ritorno, il commercio internazionale non ha smesso di perseguire l’obiettivo
di superare la territorialità del diritto: si sono promosse convenzioni internazionali e leggi uniformi, affidate
ad arbitri internazionali le soluzioni delle controversie in base ai suoi principi generali.
La globalizzazione si coglie ancor più sotto altro profilo: il progressivo e consapevole abbandono da parte
degli Stati nazionali della pretesa di regolare compiutamente l’economia in modo autonomo.
Le folli avventure dei nazionalismi sfociate nelle tragiche esperienze belliche del XX secolo hanno fatto
maturare la consapevolezza che condizione di una pace stabile e duratura è la realizzazione di una
integrazione fra le nazioni che anche la libertà di commercio internazionale è in grado di assicurare.
Dal punto di vista economico, lo sviluppo costante del sistema e dei profitti richiede che non vi siano
ostacoli territoriali al libero scambio e alla libera allocazione della produzione là ove vi siano le condizioni e
i costi più favorevoli per l’impresa.
E’ naturale quindi che oggi la “stanza di compensazione” degli interessi vada progressivamente
allontanandosi dagli ordinamenti nazionali.
Non sorprende, quindi, il progetto dell’apposito Alto Commissariato dell’ONU di sottoporre le iniziative
economiche delle multinazionali al controllo di compatibilità con la Carte dei diritti dell’Uomo: anche la
sintesi tra le ragioni dell’economia e quelle della comunità si avvia ad una collocazione internazionale.
In apparente contraddizione, ma in realtà in perfetta consonanza, con l’indicata evoluzione è l’altra
prospettiva del diritto commerciale legata al fenomeno della c.d. concorrenza fra ordinamenti.
Gli Stati, al fine di attirare investimenti, fanno a gara per offrire alle imprese, fra l’altro, un diritto
“appetibile”, in generale caratterizzato dalla rimozione di vincoli all’autonomia negoziale, dai minori costi,
ecc…
In ambito comunitario, la recente riforma del diritto societario giustifica l’apertura di maggiori spazi
all’autonomia negoziale proprio con l’esigenza di competere sul mercato degli ordinamenti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 8. L'elaborazione del diritto: i rapporti impresa-cliente e
l'evoluzione tecnologica
Tra i profili più specifici di evoluzione del diritto commerciale si segnala la costruzione per i rapporti fra
impresa e cliente, ancor più se consumatore, di un corpus normativo particolare legato allo stato soggettivo
di quest’ultimo.
L’intervento del legislatore si è fatto poi più attento e mirato in settori particolarmente sensibili come quello
del risparmio diffuso e dell’investimento mobiliare: si esalta, in questo come in altri campi in cui è
essenziale il bilanciamento degli interessi tra operatori economici e fruitori della loro attività, il ruolo delle
autorità indipendenti, alle quali è affidato il compito di vigilare sulla correttezza e trasparenza dei soggetti
abilitati a operare sul mercato e di assicurare la “parità delle armi”.
La fiducia degli investitori sulla correttezza e trasparenza dei mercati è essenziale al loro proficui sviluppo.
L’evoluzione del diritto commerciale, infine, continua a essere segnata dal rapporto con l’evoluzione
tecnologica.
Da un lato lo sfruttamento economico del progresso scientifico è sempre più il presupposto per il suo stesso
raggiungimento; dall’altro lato la scienza si inoltra in campi e annuncia risultati che suscitano grandi
speranze e profonde inquietudini.
Alle richieste del mercato di non porre limiti a ciò che è commerciabile si contrappongono la tutela del
diritto alla salute e i rispetto di confini etici di incerta individuazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 9. Definizione di impresa, imprenditore e azienda
L’impresa è l’attività il cui svolgimento fa assumere a un determinato soggetto la qualità di imprenditore; a
tale qualità è collegata l’applicazione di una particolare disciplina.
Per il giurista, pertanto, Telecom, in quanto soggetto giuridico che esercita l’attività di telecomunicazioni, è
un imprenditore (collettivo di tipo societario) mentre il suo amministratore delegato è solo un organo interno
del soggetto collettivo, incaricato di gestirne l’attività.
L’azienda è soltanto “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
Nella terminologia legale, quindi, “imprenditore, azienda e impresa” corrispondono, rispettivamente, alle
categorie “soggetto, oggetto, attività”.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 10. La valenza della nozione di imprenditore
Come ogni fattispecie normativa anche quella di imprenditore, dettata dall’art. 2082 c.c., indica una
fattispecie al fine di collegarvi una determinata disciplina: l’appartenenza al genere imprenditore, infatti, è
presupposto necessario per rientrare in una delle specie in cui tale genere si articola e in relazione alle quali
viene dettata la gran parte della disciplina.
Il c.d. statuto generale dell’imprenditore, cioè quello che si applica a qualunque imprenditore come definito
dall’art. 2082 c.c. indipendentemente dalla specie di appartenenza, consiste nelle norme relative all’azienda
e ai segni distintivi, alla concorrenza e ai consorzi.
Molto più ricco è invece l’insieme delle norme che si applicano alle singole specie in cui il genere
imprenditore si distingue.
La figura di imprenditore si suddivide:
1. sul piano dell’oggetto dell’attività esercitata:
- imprenditore commerciale
- imprenditore agricolo
2. sul piano delle dimensioni dell’attività:
- piccolo imprenditore
- imprenditore medio/grande
3. sul piano della natura del soggetto che esercita l’attività, da un lato:
- imprenditore individuale
- imprenditore collettivo
dall’altro:
- imprenditore privato
- imprenditore pubblico
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 11. La nozione di imprenditore secondo l'art. 2082 c.c.
L’art. 2082 c.c. definisce l’imprenditore colui che “esercita professionalmente un’attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Oggetto della definizione è, letteralmente, l’imprenditore, ma siccome la sua nozione è determinata in
relazione all’attività svolta è corretto affermare che, in realtà, la norma definisce quest’ultima, cioè
l’impresa.
Le varie specificazioni contenute nell’art. 2082 c.c. limitano l’applicazione di una determinata disciplina
soltanto ai soggetti la cui attività economica abbia particolari caratteristiche.
Devono, dunque, analizzarsi le singole componenti della nozione giuridica di impresa: in particolare per
ogni singolo elemento si deve identificare il minimo richiesto dalla legge per integrare la componente della
fattispecie e così l’applicazione della relativa disciplina.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 12. Impresa: "Un’attività di produzione o di scambio di beni o di
servizi…"
Primo elemento dell’impresa è lo svolgimento di una attività, non quindi di un singolo atto e neppure di più
atti non coordinati fra loro, ma di una serie di atti tra loro collegati da un fine unitario che è rappresentato
“dalla produzione o dallo scambio di beni o di servizi”.
L’art. 2082 c.c. non richiede espressamente che l’attività produttiva sia rivolta al mercato e, perciò, si
discute se possa essere considerato giuridicamente imprenditore chi svolge una determinata attività per
autoconsumo: la c.d. impresa per conto proprio.
La risposta negativa è prevalente e parrebbe quasi scontata.
Tuttavia, appare preferibile ritenere che per l’acquisto della qualità di imprenditore sia sufficiente
l’oggettiva riconoscibilità della possibile destinazione al mercato dei beni prodotti, indipendentemente dalle
intenzioni del soggetto e dell’effettiva sorte che i beni avranno.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 13. Impresa: un'attività "Economica…"
L’aggettivo “economico”, che deve connotare l’attività svolta, non riguarda il suo contenuto (in effetti,
qualsiasi attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o di servizi è economica in questo senso), ma
le sue modalità di attuazione.
Si sostiene che un’attività può essere qualificata come impresa solo se svolta con metodo economico, cioè
con modalità che, con giudizio preventivo e astratto, consentano (almeno) la copertura dei costi con i ricavi.
Si tratta di una precisazione che ha due importanti effetti:
- Per un verso chiarisce che, benché normalmente le imprese siano in fatto caratterizzate dallo scopo di
realizzare un avanzo di gestione (c.d. lucro oggettivo) e di ripartirlo in favore dei titolari dell’attività (c.d.
lucro soggettivo), nessuno di questi due presupposti è necessario per la nozione giuridica di impresa.
Ne consegue che possono essere imprenditori le associazioni (enti per i quali la legge comunque impedisce
la distribuzione dell’utile fra gli associati), le cooperative c.d. “pure”, ecc…
- Per un altro verso, invece, esclude dall’area giuridica dell’impresa tutte quelle attività svolte
istituzionalmente in perdita: per esempio la beneficenza.
Non vi sono quindi ragioni di principio per escludere dal terreno dell’impresa l’attività non-profit.
Niente, infatti, impedisce agli enti ONLUS, sia pure in via strumentale al raggiungimento dei loro scopi
ideali, di svolgere un’attività corrispondente a quella delineata nell’art. 2082, con modalità tendenti
all’equilibrio gestionale: quando ciò accade, il che si verifica oggi di frequente, l’ente non-profit diviene
imprenditore.
Il criterio esposto non ha nulla a che vedere con la verifica ex post dell’effettiva copertura dei costi con i
ricavi: in caso contrario si arriverebbe all’assurdo di non qualificare come impresa l’attività condotta per
trarne guadagno, ma portata al dissesto dall’imperizia dell’imprenditore.
Ciò che conta è la valutazione preventiva e astratta delle modalità con le quali una determinata attività è
oggettivamente programmata.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 14. Impresa: un'attività "Professionale…" e "Organizzata…"
"Professionale…"
Svolgere professionalmente un’attività significa esercitarla in modo abituale, non occasionale.
Deve trattarsi non di una qualunque serie coordinata di atti di carattere saltuario, ma di una attività
sistematica e ripetuta nel tempo, anche se eventualmente stagionale (per esempio, la gestione di uno
stabilimento balneare).
“Organizzata…”
Dall’art. 2555 c.c. di deduce che l’imprenditore organizza un complesso di beni per l’esercizio dell’impresa;
più in generale si dice che l’imprenditore coordina, in uno organismo gerarchico di cui egli rappresenta il
vertice, una serie di fattori della produzione (personale, impianti, materie prime, risorse finanziarie, ecc…).
Organizzazione significa appunto coordinamento dei fattori della produzione.
Per aversi il minimum richiesto dall’art. 2082 c.c., tuttavia, basta anche solo uno di questi elementi.
Problematica è l’ipotesi in cui il soggetto si limiti a organizzare il proprio lavoro personale, alcuni strumenti
neutri (telefono, computer, ecc…) e magari utensili strettamente necessari allo svolgimento del proprio
lavoro.
Sostenere la sufficienza della c.d. auto-organizzazione significa, infatti, ricondurre ogni attività produttiva o
di scambio svolta abitualmente e con metodo economico all’area dell’impresa.
E’ una tesi autorevolmente sostenuta e che incrementa la propria efficacia persuasiva.
Altrettanto autorevolmente, tuttavia, la sostanziale abrogazione del requisito dell’organizzazione viene
rifiutata notandosi che esso rappresenta l’unico elemento distintivo tra lavoratore autonomo e (piccolo)
imprenditore.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 15. La liceità dell'attività imprenditoriale
La qualificazione di una data attività come impresa prescinde dalla sua liceità.
E’ imprenditore, pertanto, chi esercita un’impresa anche se in violazione di un obbligo.
Le conseguenze dell’illiceità non si producono sul piano della qualificazione dell’attività: se così fosse,
venendo meno la qualità di imprenditore, sarebbe preclusa l’applicazione della relativa disciplina con
pregiudizio dei terzi che incolpevolmente siano con lui entrati in contatto.
Questioni controverse in dottrina e giurisprudenza sono se la stessa soluzione valga anche per il caso in cui
l’illiceità consista nello svolgimento di un’attività in mancanza dell’autorizzazione eventualmente richiesta
dalla legge (c.d. impresa illegale) e addirittura, ma qui i dubbi aumentano, ove si tratti di un’attività in
assoluto vietata o inserita nello svolgimento di una più vasta attività criminosa (c.d. impresa immorale).
Alla base di questo assunto vi è il principio generale che nessuno può avvantaggiarsi del proprio illecito:
deve ammettersi che l’imprenditore (illegale o immorale) non possa giovarsi dei diritti e dei poteri connessi
alla qualità di imprenditore, ma si limiti a doverne subire le connesse responsabilità e sanzioni.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 16. Le professioni intellettuali secondo l'art. 2238 c.c.
L’art. 2238 c.c. stabilisce che ai professionisti intellettuali (avvocati, ingegneri, architetti, medici, ecc…) si
applicano le disposizioni in tema di impresa quando l’attività professionale è inserita in una più complessa
per sé qualificabile come impresa (ad esempio, è imprenditore il chirurgo titolare di una clinica privata nella
quale egli stesso opera).
La libera professione non è impresa, al chirurgo appena menzionato si applica la disciplina dell’imprenditore
in quanto titolare della clinica, ma quella del libero professionista per quanto concerne l’attività medica.
Questa esenzione non è una mera applicazione dei criteri identificativi dell’impresa appena visti: in tali
attività normalmente non manca alcuno dei requisiti generali previsti dall’art. 2082 c.c.
Si tratta, quindi, di una norma complessivamente di favore per le libere professioni.
Tale esenzione può essere un anacronistico privilegio derivante dal tradizionale prestigio delle libere
professioni, oppure una forma di tutela della clientela, escludendo per i liberi professionisti la logica
spietatamente concorrenziale propria delle imprese.
Certo è che si tratta di una scelta di politica legislativa.
In ambito comunitario, particolarmente nel settore antitrust, si è affermata una nozione di impresa più lata
che comprende nel suo seno anche le libere professioni.
E’ comunque ormai pacifico che il privilegio cade e il professionista assume la qualità di imprenditore
qualora la sua attività si manifesti in larga prevalenza non attraverso contratti d’opera intellettuale, ma
mediante contratti in nulla diversi da quelli propri del settore commerciale (esempio classico è quello del
farmacista).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 17. Impresa e spendita del nome
Qualificata un’attività come impresa, si pone il problema dei criteri in base ai quali essa vada imputata a un
determinato soggetto, facendogli acquisire la qualità di imprenditore.
Il criterio generale del diritto privato è quello della spendita del nome, in base al quale un atto è imputato al
soggetto in nome del quale è stato compiuto.
Imprenditore è quindi colui che materialmente svolge l’attività qualora non lo faccia in nome d’altri; ma
quando il soggetto che materialmente svolge l’attività spende, lecitamente e conformemente ai poteri
ricevuti, il nome di un altro è quest’ultimo che assume tale qualità.
Ci si chiede, tuttavia, se nell’ambito dell’impresa, accanto a quello formale della spendita del nome, siano
riscontrabili ulteriori criteri (sostanziali) di imputazione dell’attività.
Nella pratica sono frequenti ipotesi ove il soggetto nel cui nome l’attività viene svolta non è l’effettivo
destinatario dei risultati dell’attività, ma solo un prestanome.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 18. Criterio di imputazione sostanziale aggiuntivo per l'impresa
Vari sono stati in passato i tentativi di configurare un criterio di imputazione sostanziale aggiuntivo rispetto
a quello di diritto comune; nessuno, però, coronato da un pieno successo:
necessario collegamento fra potere e responsabilità, a questa tesi si è giustamente obiettato che una serie di
norme smentisce l’esistenza di un siffatto principio nel nostro ordinamento;
la teoria del c.d. imprenditore occulto, basata sul secondo comma dell’art. 147 l. fall. il quale prevede che il
fallimento, in caso di società con soci illimitatamente responsabili, si estenda sia ai soci palesi che a quelli
occulti; e sulla applicazione analogica di tale norma al caso della c.d. società occulta; di qui si deduce che
fra l’ipotesi del fallimento dei soci occulti di società occulta e quella del fallimento dell’imprenditore che si
“nasconde” dietro un prestanome non può esservi differenza di disciplina, poiché in entrambi i casi si
intende colpire chi, come socio o come imprenditore occulto, sia il titolare dell’impresa.
A confutazione si è rilevato che sarebbe necessaria l’esistenza di una società e lo svolgimento dell’attività in
suo nome.
Nell’ipotesi dell’imprenditore occulto, invece, società non vi è e l’attività viene svolta in nome proprio dal
prestanome sicché non vi è identità giuridica tra le due fattispecie;
il tentativo di generalizzare l’art. 2208 c.c., in base al quale l’imprenditore risponde delle obbligazioni
assunte dall’institore per atti pertinenti all’esercizio dell’impresa anche se quest’ultimo omette di spenderne
il nome.
Si è replicato che si tratta di norma eccezionale non applicabile analogicamente e che riguarda l’imputazione
di specifici atti, non dell’attività nel suo complesso.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 19. Impresa fiancheggiatrice e società di comodo
La giurisprudenza si è sforzata di dare comunque una risposta al problema pratico, sviluppando una
particolare tecnica repressiva coerente con il principio dell’imputazione sulla base del criterio formale della
spendita del nome.
Spesso, infatti, i giudici reputano che l’attività svolta dietro le quinte dal dominus sia essa stessa
configurabile come impresa: si parla di impresa fiancheggiatrice la cui attività consiste nel finanziamento e
nella direzione dell’impresa “principale”.
Si tratta di una tecnica che pone minori problemi di coerenza sistematica, ma che quanto a effetti presenta
limiti operativi non indifferenti: per un verso non è affatto detto che all’insolvenza dell’impresa principale si
accompagni anche quella dell’impresa fiancheggiatrice; per altro verso, quand’anche ciò avvenga, la tecnica
in esame è efficace più in ottica sanzionatoria (il fallimento del dominus), che non in quella del
soddisfacimento dei creditori.
Il discorso è più complicato quando la veste di prestanome è assunta da una società (c.d. società di comodo).
Nelle società, infatti, è fisiologica la scissione tra soggetto nel cui nome l’attività è esercitata (la società
stessa) e i soggetti destinatari finali dei risultati (i soci che tale diritto hanno in quanto fornitori del capitale
di rischio tramite il quale l’attività è esercitata).
Benché la società abbia un unico socio, l’attività è imputata solo all’ente, solo la società fallisce in caso di
dissesto e l’unico socio non risponde personalmente con il proprio patrimonio dei debiti sociali.
Si tratta di ipotesi complesse che talvolta possono trovare soluzione sul piano dell’imputazione superando il
diaframma della distinta personalità giuridica della società di comodo; talaltra attraverso l’applicazione delle
regole di diritto societario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 20. La nozione di capacità per l’esercizio dell’impresa
La regola fondamentale sull’esercizio dell’impresa da parte di soggetti legalmente incapaci di agire
(minorenni e interdetti) oppure con capacità soggetta a limitazioni (inabilitati e minori emancipati), è quella
per cui, salvo il caso del minore emancipato, non può essere intrapresa una nuova attività, ma può solo
continuarsi un’impresa precedente (per esempio, iniziata dall’interdetto prima dell’interdizione o ereditata
dal minore) qualora il tribunale, sulla base dell’utilità per l’incapace, rilasci una specifica autorizzazione.
L’autorizzazione ha una valenza generale, nel senso che il genitore, il tutore o il soggetto inabilitato può
compiere gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa senza bisogno di richiedere volta a volta autorizzazioni
specifiche.
Nel caso dell’esercizio autorizzato dell’impresa è il minore che acquista la qualità di imprenditore
godendone i vantaggi e subendone le eventuali conseguenze negative sul piano patrimoniale, ivi compreso il
fallimento.
Si tende però a negare che il minore subisca anche gli effetti personali pregiudizievoli: sarà il suo
rappresentante legale, ad esempio, a essere passibile di imputazione per i reati fallimentari.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 21. L’inizio e la fine dell’impresa
E’, infine, rilevante individuare il momento in cui si acquista e si perde la qualità di imprenditore.
Possono, in astratto, darsi due risposte:
- in base al principio di effettività, si diventa imprenditori con l’effettivo inizio dell’attività e si smette di
esserlo con la sua effettiva cessazione;
- l’acquisto e la perdita della qualità di imprenditore si ricollega a dati formali quali l’iscrizione o la
cancellazione del soggetto nel registro delle imprese.
Per quanto concerne l’inizio dell’impresa l’applicazione del principio di effettività è pacifica solo con
riguardo alle persone fisiche.
Per le società, invece, è prevalente l’idea che esse siano imprenditori fin dal momento della costituzione.
Anche per quanto riguarda la cessazione dell’impresa vi è una distinzione da operare tra imprenditori
individuali e società.
Per i primi è pacifica l’opinione che la fine dell’impresa coincida con la dissoluzione dell’apparato
aziendale, che si individua in quel “punto di non ritorno” passato il quale potrà aversi una nuova attività, ma
non la resurrezione di quella originaria, da accertare caso per caso.
Per le società, invece, la situazione è in piena evoluzione.
La giurisprudenza ha a lungo affermato che le società non si estinguono con la cancellazione delle stesse dal
registro delle imprese, ma rimangono in vita fino a quando residua un qualsiasi rapporto giuridico facente
capo alla società.
Ma la riforma del diritto delle società di capitali fissa espressamente la coincidenza tra l’estinzione della
società e la sua cancellazione dal registro delle imprese.
La linea di tendenza dell’ordinamento è dunque nel senso di far coincidere estinzione della società e sua
cancellazione dal registro delle imprese.
E’ prevedibile, dunque, che anche la fine dell’impresa, analogamente a quella che si afferma per il suo
inizio, verrà, in sede interpretativa, fatta coincidere con l’estinzione della società e così con la predetta
cancellazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 22. Definizione di imprenditore agricolo e imprenditore
commerciale
La prima differenziazione all’interno della figura dell’imprenditore riguarda la natura dell’attività esercitata,
a seconda che sia commerciale o agricola.
Il valore della distinzione attiene come sempre alla disciplina applicabile.
All’imprenditore commerciale si applica uno statuto speciale dal quale è invece esentato l’imprenditore
agricolo.
La nozione di imprenditore agricolo assume allora un significato di tipo negativo, in quanto funzionale alla
non applicazione di una certa disciplina.
L’art. 2195 c.c., che definisce la figura dell’imprenditore commerciale, nulla aggiunge a quanto già previsto
dall’art. 2082 c.c.
Si dice che, mentre l’imprenditore agricolo è definito in positivo dall’art. 2135 c.c., quello commerciale è
enucleato dall’art. 2195 c.c. solo in negativo: sono imprenditori commerciali tutti quelli che non sono
agricoli.
In sintesi, quindi, la definizione di imprenditore agricolo è data in positivo ma ha valenza negativa; quella di
imprenditore commerciale è data in negativo ma ha valore positivo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 23. L’imprenditore agricolo secondo l'art. 2135 c.c.
L’art. 2135 c.c., che definisce l’imprenditore agricolo in base all’elencazione di una serie di attività, è stato
oggetto di una recente modifica da parte del d.lgs. 228/2001 che ha notevolmente allargato l’area della
categoria.
Ne risulta un opzione di politica legislativa che estende l’esenzione dallo statuto dell’imprenditore
commerciale a realtà economiche lontane dalle sue tradizionali giustificazioni.
Nell’ambito delle attività agricole, bisogna innanzi tutto distinguere tra quelle essenziali (senza esercitare
una delle quali non si può essere imprenditore agricolo) e quelle connesse (attività che, per quanto di per sé
non agricole, tuttavia, se ricorrono determinate condizioni, vengono assorbite e non fanno assumere la
qualità di imprenditore commerciale).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 24. Attività agricole essenziali secondo la giurisprudenza
Sono attività agricole essenziali la coltivazione del fondo, la selvicoltura e l’allevamento di animali.
La nuova formulazione della norma chiarisce che per tali “si intendono le attività dirette alla cura e allo
sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso”.
Viene legislativamente accolta la tesi più estensiva: l’impresa è agricola anche quando non abbia alcun
nesso operativo concreto con il fondo ma riguardi comunque il ciclo biologico di un animale o di un
vegetale.
Va aggiunto che, in base al d. lgs. 226/2001, all’imprenditore agricolo è parificato quello ittico, in altri
termini il pescatore.
L’esonero dallo statuto dell’imprenditore commerciale può essere visto o come forma di incentivazione
delle attività citate oppure come meccanismo di “compensazione” per attività che avendo a oggetto non
materia inerte, ma vitale, sono sottoposte a un surplus di rischio rispetto alle altre imprese.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 25. Attività agricole per connessione secondo la giurisprudenza
Si reputano connesse quelle attività che in sé agricole non sono (tanto che, se esercitate autonomamente,
fanno acquistare la qualità di imprenditore commerciale), ma che, se svolte da chi esercita un’attività
agricola essenziale, sono giuridicamente assorbite da questa (e perciò non fanno acquisire la qualità di
imprenditore commerciale).
Fanno eccezione al requisito soggettivo di connessione le cooperative di imprenditori agricoli e i loro
consorzi, che sono considerati imprenditori agricoli anche se svolgono solo attività connessa, qualora
utilizzino prevalentemente prodotti conferiti dai soci (per esempio la cantina sociale che lavora l’uva
conferita dai soci e produce e vende il vino) oppure forniscano beni o servizi attinenti alla cura o allo
sviluppo del ciclo biologico prevalentemente ai soci.
Il codice considera attività oggettivamente connesse quelle dirette:
- alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti
ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;
- alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente
impiegate nell’attività agricola esercitata (attività agrituristiche).
In entrambe le ipotesi si fa uso del concetto di prevalenza per delimitare il perimetro della connessione.
Nel primo caso deve trattarsi di prevalenza dell’attività agricola essenziale su quella connessa; nel secondo
deve trattarsi di prevalenza, nell’esercizio dell’attività connessa, delle attrezzature e delle risorse che
normalmente sono impiegate nell’attività agricola essenziale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 26. L’imprenditore commerciale secondo l'art. 2195 c.c.
Il discorso potrebbe chiudersi semplicemente ribadendo che sono commerciali tutti gli imprenditori non
agricoli.
E’ bene però rammentare l’elenco contenuto nell’art. 2195 c.c. per quanto esso abbia carattere non tassativo,
ma solo esemplificativo:
- prevede la “attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi”.;
- concerne la “attività intermediaria nella circolazione dei beni”, l’interpretazione corrente è nel senso di
considerare come intermediaria qualsiasi attività di scambio;
- menziona la “attività di trasporto per terra, per acqua e per aria”, in sé già comprese nel n°1;
- riguarda la “attività bancaria o assicurativa”, assorbita parte nel n°1 e parte nel n°2;
- prevede le “altre attività ausiliarie delle precedenti”, è un settore estremamente vasto ed eterogeneo nel
quale rientrano, per esempio, le attività di agenzia, di mediazione, di pubblicità e di informatica.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 27. Nozione e funzione del piccolo imprenditore
L’art. 2083 c.c. definisce piccoli imprenditori “i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli
commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”.
Per esclusione, tutti gli imprenditori che non rientrano in questa definizione sono qualificabili come
medio/grandi.
All’imprenditore qualificato come piccolo non si applicano, a prescindere dal tipo di attività svolta, lo
statuto dell’imprenditore commerciale.
Le tre figure espressamente indicate dall’art. 2083 c.c. (coltivatore diretto, artigiano e piccolo
commerciante) sono menzionate solo esemplificativamente e comunque rientrano nel concetto di piccolo
imprenditore se e solo se rispettano il requisito generale indicato nell’ultima parte della norma: la prevalenza
del lavoro proprio e dei propri familiari sugli altri fattori della produzioni utilizzati nello svolgimenti
dell’attività.
La figura dell’artigiano è storicamente destinatario di norme speciali.
Le definizioni di artigiano contenute in tali normative (legge quadro per l’artigianato 443/85) sono assai
distanti dalla definizione dell’art. 2083 c.c.
La circostanza che l’art. 2083 c.c. individui nominalmente l’artigiano come figura tipica di piccolo
imprenditore, ha condotto parte della dottrina e della giurisprudenza a ritenere che l’artigiano possa essere
tale qualora rientri nell’ambito della definizione data dalla legge speciale, anche se non rispetti il criterio
generale della prevalenza del lavoro proprio e della famiglia.
Questa tesi appare oggi minoritaria: si ritiene che la l. 443/85 non fornisca una definizione di artigiano “a
ogni fine di legge”, ma è funzionale solo all’erogazione delle provvidenze agevolative.
Non è detto, insomma, che chi è artigiano ex lege 443/85 lo sia anche ai sensi e per gli effetti del codice
civile.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 28. Il piccolo imprenditore e la società
La legge fallimentare prevedeva, nell’art. 12, una definizione ad hoc diversa da quella dell’art. 2083 c.c.
Progressivamente questa definizione è stata smantellata, sicché di tale comma è rimasta in vigore solo
l’ultima frase secondo cui “in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”.
A seguito di una complicata evoluzione interpretativa, adesso la più recente giurisprudenza ritiene che
neppure quest’ultima frase debba ritenersi più in vigore e che pertanto anche le società possano essere esenti
da fallimento quando rispettino i requisiti dell’art. 2083 c.c.; in altri termini, che non vi sia incompatibilità
tra forma societaria e possibile qualificazione come piccola impresa (nell’ipotesi in cui il lavoro personale
dei soci e dei loro familiari sia prevalente nel senso sopra visto rispetto agli altri fattori di produzione).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 29. Definizione di impresa familiare
L’impresa familiare è un’impresa individuale e non collettiva.
I familiari hanno alcuni diritti nei confronti del loro congiunto cui è imputata l’impresa, ma non ne
diventano per ciò stesso soci.
Ne consegue che, qualora il familiare-imprenditore violi i loro diritti, ciò resta senza conseguenze sulla
validità dell’atto compiuto, ma ha effetti soltanto sul piano del risarcimenti del danno.
Del resto, se si trattasse di un’impresa a base associativa, l’eventuale dissesto comporterebbe il fallimento
non solo del pater familiar ma anche dei familiari; il che sarebbe incongruo con le finalità di tutela
perseguite.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 30. Nozione di impresa pubblica
L’imprenditore può essere privato o pubblico.
E’ necessario distinguere tra l’impresa anche formalmente pubblica e quella che lo è solo sostanzialmente.
Nella seconda categoria rientrano tutti quei casi ove il soggetto giuridico è formalmente privato, ma è
riscontrabile una partecipazione prevalente dello Stato o di un altro ente pubblico.
Il caso dell’impresa formalmente pubblica invece può assumere due distinte fattispecie:
- la c.d. impresa-organo, quando l’impresa è esercitata direttamente dallo stato o da altro ente pubblico
internazionale tramite una specifica organizzazione dotata di semplice autonomia gestionale ma priva di
distinta personalità giuridica (a livello comunale le aziende municipalizzate quali quelle del gas, dell’acqua,
dell’energia elettrica, i trasporti, ove imprenditore è il Comune);
- il c.d. ente pubblico economico, quando l’impresa è svolta da un ente ad hoc munito di propria personalità
giuridica (a livello nazionale l’Istituti Poligrafico dello Stato).
Gli enti pubblici economici sono parificati in tutto alle imprese private con la sola differenza dell’esonero
dalle procedure concorsuali ordinarie.
Per i titolari di imprese-organo, invece, è sicuro che si applichino le norme generali in materia di impresa,
mentre è dubbio se, e in quale misura, si applichi lo statuto dell’imprenditore commerciale.
E’ importante puntualizzare che dall’inizio degli anni ’90, in Italia è stato avviato un imponente processo di
privatizzazione che ha mutato il volto dell’intervento pubblico nell’economia.
Enti pubblici economici sono stati formalmente privatizzati mediante la trasformazione in s.p.a.
Diverse imprese-organo sono state trasformate in enti pubblici economici; per altre addirittura il passaggio è
stato doppio: da impresa-organo, a ente pubblico economico, a s.p.a.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 31. Imprenditore collettivo: le società
I vari tipi di società rappresentano la più importante ipotesi di imprenditore collettivo.
Fondamentale è la distinzione tra società che possano svolgere solo attività non commerciali (la società
semplice) e società che possono svolgere ogni tipo di attività, commerciali o no (tutte la altre società).
Queste seconde prendono il nome di società commerciali con una denominazione che prescinde dal tipo di
attività effettivamente esercitata.
La rilevanza della categoria consiste nel fatto che alle società commerciali si applica, con la sola eccezione
della soggezione alle procedure concorsuali, lo statuto dell’imprenditore commerciale (che invece per le
persone fisiche dipende dal tipo di attività) sempre che non si tratti di piccola impresa: la forma tipicamente
commerciale dell’organizzazione societaria prevale sull’oggetto dell’impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 32. Le forme di esercizio collettivo dell’impresa diverse dalla società
Possono esservi casi di esercizio collettivo dell’impresa diversi dalla società.
Lo statuto loro applicabile è analogo a quello dell’imprenditore individuale: la discriminante sta nel tipo di
attività e nelle sue dimensioni.
Le più importanti forme di impresa collettiva non societaria sono:
- le associazioni, la presenza di uno scopo associativo di tipo ideale e il divieto di distribuire eventuali
avanzi di gestione tra i soci non impediscono la possibile qualificazione come impresa di un’attività
esercitata da questi enti, che abbia tutte le caratteristiche già viste;
- i consorzi con attività esterna, organizzazioni istituite da più imprenditori per la disciplina o lo svolgimento
in comune di determinate fasi delle rispettive imprese;
- i Gruppi Europei di Interesse Economico (GEIE), organismi di servizio introdotti da un regolamento
comunitario analogo al consorzio e dal quale si differenzia soprattutto per il fatto di non essere riservato ai
soli imprenditori, ma a qualsiasi operatore economico;
- l’impresa coniugale, istituti di diritto di famiglia che contraddistingue le aziende costituite dopo il
matrimonio e gestite da entrambi i coniugi che siano in regime di comunione legale.
Non è un ipotesi societaria perché a questo istituto si applicano le ben diverse norme previste per il regime
di comunione legale dei beni tra i coniugi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 33. La pubblicità legale
Il codice civile, già nel 1942, prevedeva l’istituzione del registro delle imprese: una forma di pubblicità
legale cui dovevano essere sottoposti determinati atti e fatti relativi alle imprese al fine di renderli
conoscibili e opponibili ai terzi.
La previsione del codice, però, è rimasta inattuata per oltre 50 anni.
Finalmente con la l. 580/93 e il successivo regolamento di attuazione d.p.r. 581/95, il registro delle imprese
è stato istituito.
Il regime che ne risulta è il seguente:
Soggetti obbligati
Devono iscriversi nel registro delle imprese tutti gli imprenditori indipendentemente dalla natura dell’attività
esercitata e dalle dimensioni, con l’eccezione delle imprese-organo che non esercitino in via esclusiva o
principale l’attività di impresa.
Atti e fatti da iscrivere
Sono dettagliatamente indicati dal codice e da leggi speciali in relazione ai diversi soggetti obbligati.
In linea generale sono soggetti a iscrizione tutti gli elementi identificativi dell’imprenditore e dell’impresa
necessari per garantire, sia all’imprenditore sia ai terzi che con lui in contatto, sicurezza nello svolgimento
degli affari.
Vale per l’iscrizione il principio di tassatività: possono e devono essere iscritti solo atti e fatti la cui
iscrizione è prevista dalla legge.
La violazione delle norme in tema di iscrizione è punita con sanzioni amministrative.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 34. Modalità di tenuta del registro
Il registro è tenuto su base provinciale dalle camere di commercio con modalità informatiche.
L’ufficio del registro delle imprese è retto da un conservatore e la sua attività è soggetta alla vigilanza di un
giudice delegato (giudice del registro) nominato dal presidente del tribunale.
Le sezioni del registro sono:
1. una sezione ordinaria, nella quale devono iscriversi i soggetti che vi erano tenuti secondo l’originaria
previsione del codice civile:
- gli imprenditori commerciali non piccoli;
- tutte le società commerciali;
- i consorzi con attività esterna;
- i gruppi europei di interesse economico;
- gli enti pubblici economici;
- le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale della loro
attività;
2. due sezioni speciali, nella prima devono iscriversi:
- i piccoli imprenditori commerciali;
- gli imprenditori agricoli;
- le società semplici;
- gli artigiani;
nella seconda:
-le società tra avvocati.
Prima di effettuare un’iscrizione, l’ufficio deve procedere a un controllo di regolarità formale, ossia
accertare che l’atto o fatto rientri tra quelli di cui la legge richiede l’iscrizione e che la documentazione sia
formalmente regolare.
Controverso è se, tra le funzioni di controllo dell’ufficio, rientri anche la verifica della validità dell’atto.
Avverso il provvedimento motivato con il quale viene rifiutata l’iscrizione è possibile reclamare entro 8
giorni davanti al giudice del registro.
Questi provvede con decreto a sua volta reclamabile in tribunale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 35. Effetti della pubblicità legale
Le iscrizioni nel registro delle imprese hanno efficacia dichiarativa.
L’atto o fatto iscritto è opponibile ai terzi anche se essi non ne sono venuti a conoscenza.
Di converso, se la pubblicità è omessa, chi doveva richiederla non può opporre il fatto o l’atto non iscritto ai
terzi, “a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza”.
Il principio base dell’efficacia dichiarativa subisce una serie di deroghe in relazione alle caratteristiche del
soggetto oppure dell’atto o fatto iscritto:
- per quanto riguarda i soggetti, per gli imprenditori tenuti a iscrizione nella sezione speciale, la pubblicità
non ha valore dichiarativo, ma solo di notizia (non rende, cioè, l’atto o il fatto di per sé opponibile ai terzi in
virtù della semplice iscrizione), tranne per l’imprenditore agricolo;
- per quanto riguarda gli atti, vi sono ipotesi in cui la legge assegna alla pubblicità valore diverso da quello
dichiarativo:
- per l’atto costitutivo di società di capitali l’iscrizione ha effetto costitutivo;
- in certi casi l’iscrizione è presupposto per l’applicazione di una determinata disciplina (per esempio, la
società in nome collettivo esiste a prescindere dall’iscrizione nel registro delle imprese che rileva solo sul
piano dell’applicazione di una disciplina differenziata);
- in altri casi l’iscrizione di un atto nel registro delle imprese non è opponibile al terzo di buona fede oppure
l’effetto dichiarativo si realizza solo se chi ha iscritto in buona fede.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 36. Le scritture contabili
La tenuta di un’ordinata contabilità e della documentazione relativa all’attività svolta è un presupposto
intrinseco di ogni attività economica.
Sembrerebbe quindi superfluo stabilire per legge un obbligo di tenere la contabilità.
L’esistenza di una ordinata contabilità serve, tuttavia, anche a proteggere interessi ulteriori rispetto a quelli
dell’imprenditore.
Il fondamento dell’obbligo consiste nell’esigenza, in caso di dissesto dell’impresa, di ricostruire a posteriori
cause della crisi ed eventuali beneficiari di atti di distrazione.
Tanto è vero che la mancata o la disordinata tenuta della contabilità assurge, in caso di fallimento, al rango
di fattispecie di rilevanza penale, severamente punita: la bancarotta, a seconda dei casi, semplice o
fraudolenta.
Soggetti obbligati
Nel sistema del diritto commerciale, le scritture contabili sono obbligatorie solo per i soggetti tenuti
all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese e per gli enti pubblici territoriali, in relazione
alle imprese-organo esercitate.
Scritture contabili assolutamente e relativamente obbligatorie
Obbligatoriamente qualsiasi imprenditore commerciale non piccolo e qualsiasi società commerciale devono
tenere:
- il libro giornale, è una scrittura assolutamente obbligatoria che indica in ordine cronologico tutte le
operazioni attive e passive relative all’impresa;
- il libro degli inventari, è una scrittura assolutamente obbligatoria ove si trovano, invece, a intervalli
regolari, le fotografie dello stato dell’impresa.
In questo libro, infatti, sono raccolti gli inventari che devono essere redatti all’inizio dell’impresa, nonché
alla chiusura di ogni esercizio annuale.
L’inventario consiste nell’indicazione e valutazione delle attività e delle passività dell’imprenditore.
Si chiude con il bilancio, e con il conto dei profitti e delle perdite, dal quale devono risultare con evidenza e
verità gli utili conseguiti e le perdite subite;
- le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa, sono scritture
relativamente obbligatorie, per esempio, a seconda dei casi, il libro mastro (ordinato per controparte), il libro
cassa, il libro delle scadenze cambiarie, i libri contabili richiesti da leggi tributarie (il libro magazzino) e
lavoristiche (il libro paga).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 37. Modalità di tenuta ed efficacia probatoria delle scritture
contabili
Modalità di tenuta
Benché le modalità di tenuta delle scritture contabili siano state progressivamente liberalizzate per
consentire l’uso di strumenti telematici, sono ancora rinvenibili norme tese ad assicurare la regolarità
documentale.
I libri contabili devono essere numerati progressivamente in ogni pagina; devono essere tenuti secondo le
norme di una ordinata contabilità; non si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione,
questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili.
Le scritture devono essere conservate per 10 anni dalla data dell’ultima registrazione.
Efficacia probatoria
Le scritture contabili possono essere usate in giudizio come mezzo di prova sia a favore che contro
l’imprenditore che le ha tenute.
Contro l’imprenditore fanno sempre prova, anche se non regolarmente tenute.
Peraltro, chi vuole utilizzarle in proprio favore non può scinderne il contenuto.
Per rispettare il diritto dell’imprenditore alla riservatezza della propria documentazione contabile, il giudice
può disporre solo l’esibizione di singole scritture contabili, solo per estrarne le registrazioni concernenti la
controversia.
Soltanto in tre ipotesi il giudice può ordinare la comunicazione di tutte le scritture contabili: nelle
controversie relative allo scioglimento delle società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di
morte.
A favore dell’imprenditore, invece, le sue scritture contabili possono fare prova soltanto quando ricorrono
tutti i seguenti presupposti:
- che le scritture siano regolarmente tenute;
- che la lite sia con un altro imprenditore;
- che la controversia concerna rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 38. Nozione di rappresentanza commerciale
La c.d. rappresentanza commerciale consiste in un insieme di regole che derogano al diritto comune e hanno
per scopo diretto di tutelare maggiormente chi compie affari con l’ausiliare di un imprenditore.
Le figure legali di ausiliari dell’imprenditore sono tre (institore, procuratore e commesso) e corrispondono a
diversi livelli gerarchici nell’organizzazione aziendale.
Sono tutte dotate ex lege di un potere di rappresentanza.
L’imprenditore può limitare questo potere con uno specifico atto in tal senso.
Sostanzialmente questo atto coincide con la procura che, tuttavia, assume un valore opposto a quello del
diritto comune: non serve per dotare il rappresentante dei poteri di agire in nome e per conto del
rappresentato, ma per limitare quelli che derivano direttamente dalla legge in virtù dell’inserimento
nell’organizzazione aziendale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 39. Definizione di institore
L’institore è colui che è preposto dal titolare all’esercizio di un’impresa commerciale oppure di una sede
secondaria o di un ramo particolare di essa.
E’, in altri termini, il soggetto in posizione di vertice che non ha altri superiori se non l’imprenditore stesso;
nel linguaggio comune viene chiamato direttore generale.
L’institore è dotato di un potere di rappresentanza generale, che si estende a tutti gli atti pertinenti
all’esercizio dell’impresa.
Il potere di rappresentanza si estende, inoltre, al profilo processuale, sicché l’institore può stare in giudizio
in nome del preponente.
Per la sua posizione di vertice, l’institore ha gli stessi obblighi dell’imprenditore.
Parimenti, è assoggettato alle medesime responsabilità penali in caso di fallimento.
Un’ulteriore deroga al diritto comune si ha in quanto l’institore è personalmente obbligato se omette di far
conoscere a terzo che egli tratta per il preponente; tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per
gli atti compiuti dall’institore che siano pertinenti all’esercizio dell’impresa cui è preposto.
In sostanza l’atto compiuto dall’institore è imputato al preponente anche in assenza della spendita del nome,
essendo sufficiente la pertinenza dell’atto all’esercizio dell’impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 40. Definizione di procuratore e commesso
Procuratore
Sono quei soggetti che, in base ad un rapporto continuativo, hanno il potere di compiere per l’imprenditore
gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa.
Si tratta di funzionari muniti di poteri decisionali autonomi in ambito limitato.
Non si applica al procuratore la norma che deroga all’esclusività del criterio della spendita del nome per
l’imputazione degli atti.
Commesso
Corrisponde sostanzialmente alla denominazione comune e indica i collaboratori meramente esecutivi
dell’imprenditore.
I loro poteri concernono il compimento degli atti che ordinariamente comporta la specie delle operazioni di
cui sono incaricati.
Salvo che non siano a ciò espressamente autorizzati, i commessi non possono:
esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna;
concedere dilazioni o sconti che non siano d’uso;
derogare alle condizioni generali di contratto dell’impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 41. La soggezione alle procedure concorsuali
Esistono diverse procedure concorsuali, la cui comune caratteristica è data dalla circostanza che la crisi
dell’impresa, per gli interessi che coinvolge, non può essere affrontata con gli strumenti di diritto comune,
ma necessita di meccanismi ad hoc che salvaguardino, per quanto possibile, la parità di trattamento fra i
creditori e minimizzino, per il sistema economico nel suo complesso, le conseguenze negative del dissesto.
I tipi di procedure concorsuali oggi esistenti sono 5, regolate in parte nella legge fallimentare e in parte nel
decreto legislativo 270/99.
Il fallimento è la classica procedura concorsuale di tipo liquidatorio finalizzata a realizzare il residuo attivo e
a ripartire il ricavato tra i creditori: ne sono esenti i piccoli imprenditori commerciali e gli imprenditori
agricoli.
In certi casi, quando per la natura pubblica del soggetto o per il settore economico di appartenenza del
soggetto in crisi (per esempio il settore bancario) assume particolare rilievo l’interesse generale, il fallimento
è sostituito dalla procedura di liquidazione coatta amministrativa.
Inoltre la procedura di fallimento è sostituita da quella di amministrazione straordinaria delle grandi (o delle
grandissime) imprese in stato di insolvenza qualora il dissesto riguardi un soggetto che superi determinate
dimensioni tali da suscitare per sé l’interesse pubblico quantomeno a tutela dei livelli occupazionali.
Alternative al fallimento sono le procedure di amministrazione controllata e di concordato preventivo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 42. La nozione di azienda secondo l'art. 2555 c.c.
L’azienda è definita nell’art. 2555 c.c. come il “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per
l’esercizio dell’impresa”.
Il tema della natura giuridica dell’azienda nell’ambito della teoria dei beni vede contrapposte la c.d. teoria
unitaria e la c.d. teoria atomistica.
La prima afferma la diversità del “bene” azienda rispetto alla semplice somma di quelli che lo compongono,
giungendo a equipararla all’universalità di beni e in particolare di beni mobili, con applicazione in via diretta
della relativa disciplina civilistica; la seconda, invece, risolve l’azienda nei singoli beni che la compongono.
E’ centrale l’identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie “azienda” giacché, quale che sia la
tesi preferita in ordine alla sua natura giuridica, la rilevanza normativa del concetto si risolve
nell’applicazione di un regime circolatorio speciale rispetto a quello di diritto comune:
l’art. 2555 c.c. valorizza come elemento qualificante dell’azienda la destinazione dei beni all’esercizio
dell’impresa.
Non ha influenza se l’imprenditore ne sia proprietario o ne disponga in forza di un altro diritto reale;
nell’ambito dell’art. 2555 c.c., la nozione di bene include non solo beni mobili, immobili e quelli c.d.
immateriali (per esempio, i brevetti di invenzione), ma anche più in generale i contratti che l’imprenditore
ha stipulato per l’esercizio dell’impresa e le situazioni soggettive che ne derivano (crediti e debiti).
Non, però, il c.d. avviamento, cioè il valore aggiunto dell’azienda rispetto a quello della somma dei singoli
beni aziendali che consiste nella capacità di attrarre la clientela e generale reddito ed è congruenza
dell’organizzazione dei fattori della produzione (avviamento oggettivo) e dell’efficienza dell’imprenditore
nella gestione dell’impresa (avviamento soggettivo);
non esiste un requisito dimensionale minimo o qualitativo dei beni che identificano un’azienda se non quello
che deriva dal significato che si intenda dare al requisito dell’”organizzazione” nella definizione di impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 43. La circolazione dell’azienda: principi generali e forma (art. 2556
c.c.)
Il nucleo centrale delle norme in tema di circolazione dell’azienda attiene alla sua vendita.
Preliminarmente va ricordato che fondamento della disciplina dell’azienda è lo scopo di non disperdere il
valore dell’organizzazione dei fattori della produzione in caso di circolazione.
Ciò consente anche di identificare la nozione di ramo d’azienda in quel complesso di beni che, pur facendo
parte di un insieme omogeneo più vasto, è idoneo a dar luogo a un’azienda oggettivamente autonoma sotto il
profilo operativo.
I contratti che abbiano per oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda sono
anzitutto soggetti a una regola di forma: l’art. 25562 c.c. prevede che tali contratti debbano essere stipulati in
forma pubblica o per scrittura privata autenticata e iscritti, a cura del notaio rogante o autenticante, nel
registro delle imprese.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 44. Il divieto di concorrenza a carico dell’alienante (art. 2557 c.c.)
L’art. 2557 c.c. vieta all’alienante di un’azienda, per un periodo di 5 anni dal trasferimento, l’inizio di una
nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta in ragione dell’oggetto,
dell’ubicazione o di altre circostanze.
Quando oggetto di trasferimento è un’azienda, infatti, valore decisivo ed essenziale nella valutazione
dell’acquirente è il c.d. avviamento, e cioè la capacità dell’impresa di attrarre clientela in virtù delle sue
caratteristiche oggettive e dell’efficienza della gestione.
La tutela dell’acquirente alla ragionevole conservazione del valore di avviamento da lui pagato in occasione
dell’acquisto di azienda va ovviamente contemperata con il principio, altrettanto generale, di evitare una
lesione eccessiva della libertà di iniziativa economica dell’alienante.
Tale obiettivo viene perseguito dall’art. 2557 c.c. che così modula l’autonomia negoziale:
- la norma è derogabile solo in senso più favorevole all’alienante.
Le parti possono dunque eliminare o rendere meno gravoso il divieto di concorrenza;
- al contrario il regime legale è solo parzialmente derogabile in senso più gravoso per l’alienante.
La durata del divieto non può mai eccedere i 5 anni e l’ampliamento dei limiti legali è ammesso solo ove ciò
non comporti l’impedimento di ogni attività professionale dell’alienante.
Tutt’altro che infrequenti sono i tentativi dell’alienante di sottrarsi all’obbligo di non concorrenza con mezzi
elusivi (imprese esercitate sotto nome altrui o a mezzo di società di comodo).
Condivisibile è dunque l’attuale tendenza, anche giurisprudenziale, ad applicare l’art. 2557 c.c. pure quando
oggetto del trasferimento non sia l’azienda, ma la totalità o il pacchetto di maggioranza delle quote o delle
azioni della società che ne è titolare.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 45. La successione nei contratti relativi all’azienda (art. 2558 c.c.)
L’azienda è normalmente caratterizzata da una rete di contratti tramite i quali beni e servizi vengono
acquisiti e forniti.
E’ intuitivo che la disciplina del trasferimento dell’azienda deve tener conto dell’esigenza di preservare la
continuità dei rapporti negoziali tramite i quali si esplica l’attività di impresa.
Tale esigenza viene perseguita dall’art. 2558 c.c. attraverso una disciplina di deroga a quella ordinarie della
cessione del contratto il cui perfezionamento richiede il consenso, oltre che del cedente e del cessionario,
anche del contraente ceduto.
Nel trasferimento, nell’usufrutto e nell’affitto di azienda, invece, il sistema normativo si articola nel
seguente modo:
salvo diversa pattuizione nel contratto di cessione, l’acquirente dell’azienda non subentra nei contratti
stipulati per l’esercizio della stessa che abbiano carattere personale.
Se il contratto ha natura personale il suo “passaggio” all’acquirente richiede, in applicazione delle regole
generali, sia l’espressa previsione nel contratto di trasferimento dell’azienda, sia il successivo consenso del
terzo contraente ceduto;
i contratti non personali, invece, “passano” all’acquirente senza bisogno di apposita pattuizione e senza
bisogno di assenza del terzo contraente.
La tutela di quest’ultimo è affidata alla possibilità di recedere, entro 3 mesi dalla notizia del trasferimento
dell’azienda, ove sussista giusta causa, cioè una valida ragione che incida sulla fiducia nell’esatto
adempimento da parte dell’acquirente;
alcuni contratti di particolare rilievo hanno poi una disciplina specifica, ispirata, per varie ragioni, alla tutela
della continuità del rapporto pur in presenza del trasferimenti di azienda (subingresso del cessionario nei
rapporti di lavoro subordinato facenti capo all’azienda ceduta; normale prosecuzione nel rapporto di
locazione degli immobili aziendali).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 46. La successione nei crediti (art. 2559 c.c.)
Salva diversa pattuizione contrattuale, l’acquirente subentra nei crediti come effetto del trasferimento
dell’azienda.
Il regime di opponibilità si discosta dalla regola generale, in base alla quale per rendere la notifica della
cessione di credito opponibile ai debitori ceduti e ai terzi è necessaria la notifica della cessione al debitore
oppure la sua accettazione, prevedendo che la cessione ha effetto nei confronti dei terzi dal momento in cui
il trasferimento d’azienda è iscritto nel registro delle imprese, anche in difetto di notifica o accettazione della
cessione al debitore.
L’art. 2559 c.c., peraltro, pone una rilevante deroga all’indicata efficacia dichiarativa dell’iscrizione del
trasferimento d’azienda, giacché il pagamento effettuato in buona fede dal debitore all’alienante è liberatorio
anche se compiuto dopo l’iscrizione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 47. La successione nei debiti (art. 2560 c.c.)
L’art. 2560 c.c. non si occupa affatto del problema del passaggio della posizione debitoria nei rapporti
interni fra alienante e acquirente: si tratta di un profilo liberamente disponibile fra le parti che, salvi
ovviamente i diritti che la legge assicura ai creditori, sono liberi di far “passare” o meno i debiti in capo
all’acquirente.
Nel caso in cui il contratto nulla preveda si ha l’applicazione del principio del passaggio automatico.
Il legislatore si occupa, invece, della responsabilità verso i creditori, al fine di evitare che la vicenda
circolatoria possa dar luogo a fenomeni elusivi.
La liberazione dell’alienante dai debiti aziendali presuppone l’espressa dichiarazione in tal senso da parte di
ogni singolo creditore.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 48. Usufrutto e affitto di azienda (artt. 2561 e 2562 c.c.)
Gli artt. 2561 e 2562 c.c. dettano alcune disposizioni aggiuntive per le due fattispecie di concessione in
godimento dell’azienda.
In considerazione della loro peculiare caratteristica di temporaneità, si prevede che:
- usufruttuario e affittuario devono esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue;
- la gestione dell’azienda deve essere svolta in modo tale da non modificarne la destinazione e preservarne
l’efficienza dell’organizzazione;
- al termine del rapporto la differenza fra le consistenze di inventario iniziali e quelle finali viene regolata in
denaro.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 49. La nozione di proprietà industriale
Con il d.lgs. 30/2005 è stato introdotto il codice della proprietà industriale, che raggruppa in un unico testo
normativo tutto il settore riguardante segni distintivi (ditta e insegna; marchio), i brevetti per invenzioni
industriali, i brevetti per modelli di utilità e i disegni e modelli registrati.
Il c.p.i. è strutturato in capi.
Il secondo capo contiene le norme specifiche sui singoli diritti di proprietà industriale, mentre gli altri capi
racchiudono disposizioni generali applicabili, in linea di principio, a ogni diritto compreso nella categoria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 50. Le disposizioni generali
L’espressione “proprietà industriale” comprende: i marchi e gli altri segni distintivi, le indicazioni
geografiche e le denominazioni di origine, i disegni e i modelli, le invenzioni, i modelli di utilità, le
topografie dei prodotti a semiconduttori, le informazioni aziendali riservate, le nuove varietà vegetali.
La protezione accordata a tali diritti ricalca, tenendo conto della peculiarità che si tratta di beni immateriali,
quella predisposta per il diritto di proprietà.
Fondamentale nell’ambito della proprietà industriale è la distinzione tra diritti titolati e diritti non titolati.
Diverso è il modo di acquisto di tali diritti: i primi si acquistano mediante brevettazione (invenzioni, modelli
di utilità e nuove varietà vegetali) o registrazione (marchi, disegni e modelli, topografie dei prodotti a
semiconduttori); i secondi ricorrendone i presupposti di legge volta a volta indicati (i segni distintivi diversi
dal marchio registrato, le informazioni aziendali riservate, le indicazioni geografiche e le denominazioni di
origine.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 51. La nozione di marchio
Il marchio appartiene alla famiglia dei segni distintivi che identificano l’imprenditore e la sua azienda e
servono così a distinguere i suoi prodotti e servizi da quelli dei concorrenti.
Non di rado al segno viene attribuito un valore specifico e indipendente dall’impresa o dal prodotto che
contraddistinguono, sì da farne possibile oggetto di negozi di trasferimento o di utilizzazione di significativo
valore economico.
Il marchio è certamente il segno distintivo dell’impresa di maggiore rilievo economico in quanto ne
contraddistingue i prodotti o i servizi.
Le fonti del diritto dei marchi sono composite: alle poche regole del codice civile si affiancano quelle, ben
più rilevanti, del c.p.i., del regolamento sul marchio comunitario e le disposizioni sul marchio
internazionale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 52. Caratteristiche e requisiti di validità del marchio
Il sistema di tutela del marchio si fonda sull’attribuzione di un diritto al suo uso esclusivo in favore del
soggetto che lo abbia registrato ovvero, in misura minore, che l’abbia utilizzato in via di fatto pur senza
registrarlo.
Il marchio può contraddistinguere sia un bene sia un servizio e non vi sono limiti, da parte di un
imprenditore, sull’attribuzione dello stesso marchio a più prodotti dell’impresa, ovvero a una
diversificazione di marchi generali e specifici per designare prodotti (“Piaggio” è marchio generale, “Vespa”
è marchio speciale) ovvero di marchi di fabbrica e di commercio.
Il marchio deve avere i seguenti requisiti:
liceità, non deve contenere segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, ovvero lesivi di
altrui diritti;
verità, non deve contenere segni idonei a ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica,
sulla natura o sulla qualità dei prodotti o dei servizi.
Ciò non significa che il marchio svolga funzione di indicatore della qualità del bene: tale finalità gli è
estranea.
La legge richiede la non decettività del marchio, cioè che lo stesso non evochi qualità del prodotto in realtà
assenti;
originalità, deve avere capacità distintiva del prodotto rispetto a quelli del medesimo genere.
Tale originalità manca qualora il marchio si risolva in una denominazione generica del prodotto, ovvero
meramente descrittiva delle sue caratteristiche o di uso comune.
In base all’originalità si distinguono i marchi c.d. forti, cioè significativamente distintivi, come un marchio
di pura invenzione, da i marchi c.d. deboli, in cui il nucleo del segno rimanda a parole ricollegabili al
prodotto nell’uso comune.
In questo caso, a differenza di quel che avviene nei marchi forti, la tutela del titolare sarà meno intensa in
quanto l’uso altrui di un marchio pur non troppo differente non potrà esser ritenuto con fusorio (così, ad
esempio, il marchio J-watch è stato ritenuto non confondibile con quello Swatch).
Un marchio che non ha capacità distintiva, oppure debole, può acquisire originalità grazie all’effetto della
sua valorizzazione sul mercato tramite la pubblicità del prodotto.
L’impresa, ove abbia adeguate capacità finanziarie, può dunque creare da sé le condizioni di tutela del segno
distintivo;
novità, non deve consistere esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli
usi costanti del commercio e, soprattutto, non deve essere confondibile con un marchio altrui
precedentemente registrato.
Un’importante distinzione deve farsi fra marchi c.d. ordinari e marchi c.d. celebri, o di rinomanza (Ferrari,
Armani, Chanel): per i primi la novità manca solo se sussiste il rischio di confusione per il fatto che il
marchio è identico o simile a segni già noti come marchi per prodotti o servizi identici o affini; per i secondi,
invece, senza alcun limite di affinità del prodotto o del servizio, è sufficiente che si tragga “indebitamente
vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore” o si rechi loro pregiudizio.
La mancanza di novità del marchio viene sanata dalla tolleranza del titolare del marchio anteriore protrattasi
per un periodo di 5 anni consecutivi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 53. Registrazione e uso del marchio: gli effetti
Il marchio che presenti gli indicati requisiti di validità può essere registrato presso l’UIBM: chi, senza essere
in mala fede, ottiene la registrazione acquisisce il diritto esclusivo all’uso del marchio su tutto il territorio
nazionale.
Sul presupposto dell’avvenuta registrazione del marchio in ambito nazionale può ottenersi la registrazione
internazionale presso l’organizzazione mondiale per la proprietà industriale con sede a Ginevra.
Indipendente dalla registrazione nazionale è, invece, quella comunitaria.
Il diritto all’uso esclusivo del marchio comporta, in linea generale, che il soggetto in cui favore è stata
effettuata la registrazione può impedire a chiunque altro di porre in commercio o pubblicizzare prodotti o
servizi identici che siano contraddistinti da un marchio identico o simile.
Tuttavia quando il marchio è celebre o goda di rinomanza, la possibilità di vietare ai terzi l’uso di un
marchio simile o identico si estende anche ai prodotti non affini.
L’effetto di tale protezione è soprattutto di tutelare l’investimento che l’impresa abbia operato per costruire
la celebrità di un marchio.
Il diritto di uso esclusivo derivante dalla registrazione dura 10 anni dalla data di deposito della relativa
domanda ed è rinnovabile per la stessa durata alla scadenza per un numero illimitato di volte.
Sia pur in forma più attenuata la protezione accordata al titolare del marchio registrato (diritto titolato) spetta
anche a chi, pur non avendolo registrato, ne abbia fatto uso (diritto non titolato): il c.d. marchio di fatto.
Tale diritto compete anche nei confronti di chi abbia registrato il marchio sia pure nei limiti del preuso.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 54. La perdita della tutela del marchio
La tutela assicurata al titolare del marchio registrato può venire meno per una serie di ragioni.
In particolare:
- la dichiarazione di nullità per difetto iniziale dei requisiti essenziali;
- la volgarizzazione, che si ha quando il marchio sia divenuto tanto diffuso da indicare nel linguaggio
comune il prodotto designato (l’esempio classico è “biro”).
Tuttavia oggi la volgarizzazione provoca decadenza solo se derivante dall’attività o dall’inerzia del titolare.
E’ perciò possibile conservare l’uso esclusivo di un marchio oggettivamente volgarizzato qualora esso venga
difeso, con le opportune azioni, nei confronti degli utilizzatori;
sopravvenuta ingannevolezza del marchio;
mancato uso del marchio nei 5 anni dalla registrazione ovvero per 5 anni, salvo legittimo motivo.
Questa regola è oggetto di deroga per il c.d. marchi protettivi, cioè i marchi simili a quello registrato ed
effettivamente usato che vengono registrati al solo fine di precostituire un vincolo al loro uso da parte di altri
imprenditori: tali marchi non decadono per non uso, basta pagare la tassa di registrazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 55. La circolazione del marchio
Il marchio è liberamente trasferibile a terzi.
Può essere oggetto di vera e propria cessione e anche della c.d. licenza di marchio che attribuisce al
licenziatario il diritto di utilizzarlo, in genere per un certo periodo di tempo.
E’ stato rimosso il tradizionale vincolo fra cessione dell’azienda e cessione del marchio: oggi il marchio può
essere ceduto separatamente dall’azienda o dal suo ramo ove il prodotto era realizzato.
Recenti riforme hanno poi ampliato la flessibilità di utilizzazione della licenza di marchio: oggi essa forma il
nucleo centrale di taluni contratti come il franchising e il merchandising.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 56. La nozione di ditta e insegna
I segni distintivi diversi dal marchio registrato sono privi di regole specifiche nel c.p.i. che si limita, da un
lato, a enunciare che essi “sono protetti, ricorrendone i presupposti di legge”; dall’altro, a considerarli nella
disciplina del marchio registrato sulla base del principio dell’unilateralità dei segni distintivi.
Ditta e insegna, tuttavia, sono oggetto di alcune norme specifiche nel codice civile.
Ciascun imprenditore può scegliere un nome con il quale indicare la propria attività: la ditta.
Essa si distingue in ditta originaria, che è quella prescelta dall’imprenditore per il suo diretto utilizzo, e ditta
derivata, che è quella che passa all’imprenditore in occasione di un trasferimento di azienda.
In ossequio al c.d. principio di verità della ditta, si richiede che il quella originaria sia presente almeno il
cognome o la sigla dell’imprenditore.
Tale principio però viene superato per la ditta derivata, alla quale l’imprenditore acquirente non è tenuto ad
aggiungere il proprio cognome né la propria sigla: le ragioni della tutela dell’avviamento prevalgono sul
principio di verità.
La ditta deve obbedire comunque al principio di novità: infatti, “quando la ditta è uguale o simile a quella
usata da altro imprenditore e può creare confusione, deve essere integrata o modificata con indicazioni
idonee a differenziarla”.
Il diritto del primo utilizzatore della ditta, che non viene perso neppure in caso di tolleranza prolungata
dell’altrui uso, prevale anche sul ricordato principio di verità, vietando al secondo utilizzatore l’uso del
proprio cognome come segno distintivo.
Il criterio cronologico in base al quale si risolvono i conflitti fra più utilizzatori della stessa ditta è il preuso
ovvero, in caso di imprese soggette a registrazione, l’iscrizione della ditta nel registro delle imprese; ma in
ogni caso non può avvalersi della priorità dell’iscrizione chi fosse a conoscenza dell’altrui preuso.
La ditta è trasferibile solo insieme all’azienda ovvero a un suo ramo.
L’insegna è il segno distintivo nei locali ove si svolge l’attività d’impresa.
Essa è presa in considerazione dal legislatore solo per estendervi la disciplina della ditta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 57. Le nozione di indicazioni geografiche e le denominazioni di
origine
Identificano un luogo quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario o le cui qualità,
reputazione o caratteristiche, sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico di
origine, comprensivo dei fattori naturali, umani e di tradizione.
La protezione consiste nel divieto dell’uso di tali indicazioni e denominazioni qualora possa essere idoneo a
ingannare il pubblico sulla provenienza dei prodotti ovvero sulle loro qualità.
Particolare è la tutela dell’espressione “made in Italy”, che prevede l’applicazione a carico dei contraffattori
delle medesime sanzioni penali stabilite a carico di chi viola i segni distintivi altrui.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 58. I disegni e i modelli
I disegni e i modelli sono “l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle
caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei
materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento”.
Possono essere registrati i disegni e i modelli che siano nuovi e abbiano carattere individuale, cioè:
non devono essere identici ad altri modelli o disegni già divulgati;
devono suscitare nell’utilizzatore informato un’impressione generale differente da quella ispirata da
qualsiasi disegno o modello precedentemente diffuso.
Si tratta del c.d. design industriale.
Il diritto all’uso esclusivo dura 5 anni dalla data di presentazione della domanda di registrazione ed è
rinnovabile di 5 anni in 5 anni fino ad una massimo di 25 anni.
Quando i disegni o modelli “presentino di per sé carattere creativo e valore artistico” sono tutelati anche
dalla possibilità del riconoscimento del diritto d’autore per una durata corrispondente alla vita dell’autore e
sino al compimento del venticinquesimo anno solare dopo la sua morte.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 59. La nozione di invenzioni
Il brevetto per invenzioni consiste nella concessione di un diritto di monopolio temporaneo (20 anni) in
favore di chi abbia inventato un prodotto.
Il brevetto si giustifica come un incentivo per le imprese a sostenere gli aleatori e onerosi investimenti per
ricerca e sviluppo.
La protezione è comunque limitata nel tempo e subordinata alla pubblicità del prodotto o procedimento
oggetto dell’invenzione sì che, all’esaurimento del brevetto, ogni interessato sia teoricamente in condizione
di poterlo replicare.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 60. Le fonti della disciplina del brevetto
La disciplina del brevetto, oltre che nel c.p.i., è contenuta negli artt. 2584-2591 c.c.
A fianco della normativa interna esistono una serie di trattati e convenzioni volti ad agevolare il
riconoscimenti internazionale dei brevetti rilasciati nei singoli paesi (Convenzione di Monaco sul brevetto
europeo; accordo sui Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights: TRIPs, elaborato nell’ambito
della WTO).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 61. Oggetto del brevetto e requisiti di brevettabilità
L’art. 45 c.p.i. definisce quale oggetto del brevetto “le invenzioni nuove che implicano un’attività inventiva
e sono atte ad avere un’applicazione industriale”.
Questa definizione fa coincidere l’invenzione brevettabile con la soluzione originale di un problema tecnico.
L’art. 45 c.p.i. opera anzitutto un’elencazione di ciò che non è brevettabile: le scoperte, le teorie scientifiche,
i giochi matematici, i principi o metodi per attività intellettuali o commerciali, le presentazioni di
informazioni e, esclusione rilevante e a lungo discussa, i programmi per elaboratori (c.d. software, tutelabile
mediante la disciplina del diritto d’autore).
Questi casi confermano la tradizionale esclusione dall’area dell’invenzione della mera scoperta insuscettibile
di applicazione pratica diretta nella produzione diretta di beni o servizi.
Ma il grande campo, sostanzialmente privo di disciplina nel nostro paese e dunque affidato alle regole
generali, nel quale attualmente sorgono le dispute economicamente e socialmente più rilevanti sulla
brevettabilità è quello delle biotecnologie.
I requisiti di legge per la brevettabilità di un’invenzione, che può riguardare tanto un prodotto quanto un
procedimento, sono:
- industrialità, che indica l’attitudine dell’invenzione ad avere un’applicazione industriale;
- novità, che si ha quando l’invenzione “non è compresa nello stato della tecnica”;
- originalità, che, in aggiunta al requisito della novità, indica che l’invenzione deve rappresentare un
significativo progresso tecnico;
- liceità, di invenzione illecita si parla, ad esempio, oltre che nei casi di divieto legislativo di brevettabilità di
cui si è detto, per i farmaci nocivi della salute.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 62. Il brevetto e i suoi effetti
Il diritto di chiedere il brevetto appartiene all’inventore o, come più frequentemente accade, al suo datore di
lavoro.
A quest’ultimo, infatti, spettano i diritti economici dell’invenzione realizzata nell’esecuzione di un contratto
di lavoro a ciò diretto.
All’inventore, in tal caso, oltre al diritto morale di esserne riconosciuto l’autore, compete il diritto a un equo
premio qualora il contratto non preveda una specifica retribuzione dell’attività inventiva e il datore di lavoro
ottenga il brevetto.
La domanda di brevetto può concernere una sola invenzione per volta, deve essere specifica, contenere una
sua accurata descrizione e deve concludersi con una o più rivendicazioni in cui sia indicato,
specificatamente, ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto.
L’esame della domanda da parte dell’UIBM concerne solo i requisiti di liceità e industrialità e non si estende
alla novità e originalità, il cui sindacato, a meno che la loro assenza risulti assolutamente evidente, è rimesso
ex post all’autorità giudiziaria su iniziativa di eventuali interessati.
Effetto del brevetto è la concessione al suo titolare del diritto di utilizzare economicamente l’invenzione in
esclusiva per la durata di 20 anni, non rinnovabili, dalla data di deposito della domanda.
Come il marchio, anche il brevetto è trasferibile, con o senza l’azienda, anche mortis causa e di frequente è
oggetto di c.d. licenza di brevetto, con la quale si conferisce a un terzo, con o senza esclusiva, il diritto di
utilizzarla.
In certe ipotesi, la licenza d’uso senza esclusiva è prevista come obbligatoria dalla legge:
- in caso di mancata o insufficiente attuazione dell’invenzione per un triennio;
- nel caso del brevetto dipendente, quando la licenza è necessaria per una nuova invenzione che rappresenti
un’importante progresso tecnico di considerevole rilevanza economica.
I proventi delle licenze concesse in paesi in via di sviluppo sono tra le più rilevanti poste attive di bilancio di
molte multinazionali.
Il brevetto si estingue per dichiarata nullità ovvero per decadenza in caso di mancata o insufficiente
attuazione per un biennio oltre la concessione della licenza obbligatoria sopra citata, o di mancato
pagamento dei diritti ovvero per rinunzia del titolare.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 63. Le informazioni segrete (il know how)
Richiedere il brevetto è una facoltà, non un obbligo.
Non raramente accade che l’imprenditore scelga di non presentare la relativa domanda, alla quale è connessa
la caduta dell’invenzione in pubblico dominio decorsi i 20 anni di tutela brevettuale, qualora reputi di poter
sfruttare anche per un tempo maggiore l’invenzione mantenendo il segreto (il caso della ricetta della Coca
Cola è sufficientemente noto).
In sostanza, si rinunzia ad una tutela di diritto, circoscritta nel tempo, per affidarsi a una tutela
potenzialmente perpetua, ma limitata alle norme generali in tema di protezione della concorrenza sleale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 64. I modelli di utilità e le topografie dei prodotti a semiconduttori
I modelli di utilità sono definiti come quelli “atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione
o di impiego a macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere, quali i nuovi modelli
consistenti in particolari conformazioni, disposizioni, configurazioni o combinazioni di parti”.
Tali modelli, ove abbiano il requisito della novità e originalità, possono essere brevettati con gli stessi effetti
del brevetto delle invenzioni industriali, ma con durata limitata a 10 anni.
La distinzione fra invenzioni e modelli consiste nella circostanza che le prime comportano la soluzione
originale di un problema tecnico, mentre le seconde riguardano solo gli aspetti formali attinenti alla
comodità d’uso di un prodotto noto.
Le topografie dei prodotti a semiconduttori (cioè la serie di disegni fra loro correlati che rappresentano lo
schema tridimensionale dei chips dei computers, telefoni, elettrodomestici, ecc…) sono creazioni
intellettuali a contenuto tecnologico protette.
La durata del diritto esclusivo di riproduzione e sfruttamento commerciale è di 10 anni, decorrenti dalla fine
dell’anno civile in cui è stata richiesta la registrazione ovvero, se anteriore, di quello in cui la topografia è
stata per la prima volta sfruttata commercialmente.
Tipica di questo diritto è l’attuazione del requisito della novità per ottenere la registrazione: possono essere
registrate anche topografie già oggetto di sfruttamento commerciale, purché da non più di 2 anni.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 65. Le nuove varietà vegetali
Possono costituire oggetto di brevettazione in favore del c.d. costitutore, cioè colui che ha creato una nuova
varietà, le varietà vegetali che siano: nuove, distinte, omogenee e stabili.
I suddetti requisiti possono sussistere quando:
- nuove,alla data del deposito della domanda, il materiale di riproduzione o di moltiplicazione vegetativa o
un prodotto di raccolta della varietà non è stato venduto a terzi in Italia da oltre 1 anno o nel resto del mondo
da oltre 4 anni;
- distinte, la varietà si contraddistingue nettamente da ogni altra, la cui esistenza sia notoriamente
conosciuta;
- omogenee, la varietà è sufficientemente uniforme nei suoi caratteri pertinenti e rilevanti;
- stabili, detti caratteri rimangono invariati in seguito alle successive riproduzioni o moltiplicazioni ovvero
alla fine di ogni ciclo.
La protezione consiste nella necessità dell’autorizzazione del costitutore per una serie di atti relativi al
materiale di riproduzione o di moltiplicazione della varietà vegetale: produzione, vendita, esportazione o
importazione, ecc…
Il diritto morale di paternità è incedibile, mentre quelli di sfruttamento economico sono alienabili.
La durata della protezione è di 20 anni dalla data in cui la domanda di brevetto è resa accessibile al pubblico.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 66. Il diritto d’autore
La protezione legale per le “opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla
musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia” mira ad assicurare all’autore non
solo il diritto morale alla paternità dell’opera, ma anche il diritto esclusivo al suo sfruttamento economico.
Tale protezione è disciplinata nel codice civile (artt. 2575-2583 c.c.) e dalla l. 633/1941 e successive
modifiche (l. aut.).
Le condizioni per l’accesso alla tutela del diritto d’autore si riassumono nel “carattere creativo” dell’opera
dell’ingegno e derivano dalla mera creazione della stessa, senza che la registrazione presso la SIAE abbia
valore costitutivo.
L’autore ha, sotto il profilo patrimoniale, “il diritto esclusivo di utilizzare l’opera in ogni forma e modo,
originale e derivato”.
Lo sfruttamento economico dell’opera implica la facoltà di disporre del relativo diritto nei modi che sono
lasciati all’autonomia negoziale (unico limite è la necessità della forma scritta ad probationem).
Per taluni tipi di opere dell’ingegno il legislatore regola particolari forme contrattuali: fra questi va ricordato
il contratto di edizione, della durata massima di 20 anni, con il quale l’autore concede a un editore il diritto
di pubblicare a stampa l’opera dell’ingegno dietro corrispettivo.
Accanto al diritto di sfruttamento economico l’autore ha una serie di diritti morali, irrinunciabili e
inalienabili, svincolati dalla cessione a terzi dei diritti patrimoniali, che consistono:
- nel diritto di rivendicare la paternità dell’opera;
- nel diritto di opporsi a ogni modificazione e a ogni altro atto a danno dell’opera che possa essere di
pregiudizio al suo onore o reputazione.
Il diritto d’autore ha, per i profili economici, una durata di 70 anni dopo la morte dell’autore.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 67. La tutela della libertà di concorrenza
Il principio della libera iniziativa economica privata raramente ha vissuto momenti di così totale e acritica
adesione come nell’epoca attuale.
Solo il conflitto con interessi primari è l’occasione di vincoli parziali o limitazioni all’accesso o alle
modalità di svolgimento dell’attività economica (si pensi alla legislazione ambientale o alla tutela del
risparmio).
Nell’attuale scenario economico-sociale il peggior nemico della libertà di iniziativa economica privata nasce
dal suo interno ed è rappresentato dalla limitazione alla libera concorrenza derivante dalla concentrazione
del potere economico in capo a pochi soggetti.
Il sogno dell’economia liberale è l’assenza di barriere all’ingresso sul mercato in un sistema che consenta la
selezione degli operatori economici sulla base della loro capacità ed efficienza.
Le regole a tutela della libera concorrenza sono dunque volte a proteggere la libertà di iniziativa economica
da se stessa; a evitare che i vantaggi da essa derivanti alla collettività e, in particolare, ai consumatori
vengano posti nel nulla dalla naturale tendenza al monopolio.
Tali regole percorrono la strada della ricerca di quella che gli economisti chiamano workable competition
(concorrenza “sostenibile”): ciò perché è tutt’altro che certo che il modello della perfetta concorrenza sia in
ogni condizione il più efficiente nell’interesse dei consumatori.
Si tratta, dunque, di una normativa di “compromesso” tendente a sanzionare i comportamenti
anticoncorrenziali sulla base di una valutazione ponderata dei loro effetti non assunti come necessariamente
negativi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 68. Le fonti della normativa antitrust
Il Trattato CE è stato a lungo l’unica vera legislazione antitrust applicabile in Italia: solo con la l. 287/90 è
stata infatti introdotta una normativa nazionale organica a tutela della concorrenza.
L’ambito di applicazione di tale legge è residuale, limitato alla regolamentazione dei fenomeni
anticoncorrenziali (intese, abuso di posizione dominante, operazioni di concentrazione) rilevanti sul solo
mercato italiano.
Per alcuni settori, si pensi al sistema radiotelevisivo ed editoriale, vi sono poi ovunque legislazioni speciali
che integrano o derogano quelle generali poiché in essi assumono particolare rilievo interessi di tipo non
strettamente economico (per esempio, il pluralismo delle fonti di informazione) che non hanno spazio nella
regolamentazione antitrust generale.
In Italia la materia è regolata dalla l. 112/2004.
Esiste infine nel codice civile un nucleo tradizionale di disposizioni sui monopoli legali o di fatto e sui patti
di non concorrenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 69. Il controllo sui componenti lesivi della concorrenza
Nella l. 287/90 e nel Trattato CE vengono anzitutto delineate tre categorie generali di fattispecie
anticoncorrenziali: le intese restrittive della libertà di concorrenza; l’abuso di posizione dominante; le
operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza, di cui si afferma, nei termini e alle
condizioni che subito di esporranno, l’invalidità.
All’indagine, al controllo e alla repressione dei comportamenti anticoncorrenziali in Italia è preposta una
c.d. autorità indipendente: l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM); in ambito
comunitario tali competenze sono attribuite alla Commissione e alle singole Autorità nazionali.
A tali enti sono concessi poteri di indagine e istruttori assai ampi, attivabili d’ufficio ovvero su istanza dei
soggetti interessati; nonché la facoltà di emettere, al termine dell’istruttoria, la propria valutazione sulla
liceità delle operazioni esaminate e di irrogare gli specifici divieti e le sanzioni previste dalla legge.
I provvedimenti dell’AGCM sono ricorribili innanzi al TAR.
Di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria sono, invece, le azioni volte a far dichiarare la nullità degli
atti anticoncorrenziali, a conseguire il risarcimento dei danni e a ottenere i relativi provvedimenti d’urgenza.
Il sistema ora delineato è derogato, a livello italiano, per alcune tipologie di imprese.
Così le competenze antitrust nel settore bancario spettano alla Banca d’Italia, la quale adotta i suoi
provvedimenti sentita l’AGCM; in ambito assicurativo, invece, la competenza è dell’AGCM che però prima
dell’adozione di provvedimenti che coinvolgano imprese in quel settore, deve sentire l’ISVAP; nel sistema
dell’editoria e radiotelevisivo, infine, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni vigila sull’osservanza
delle norme speciali del settore, restando ferma la competenza dell’AGCM in ambito della l. 287/90.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 70. Le intese restrittive della concorrenza
L’art. 2 l. 287/90 definisce “intese, gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese” vietando quelle “che
abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della
concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante”; del tutto analoga è la
formulazione dell’art. 81 Trattato CE, con l’unica variazione del riferimento geografico al possibile
pregiudizio per “il commercio fra Stati membri”.
Particolare rilievo hanno le c.d. pratiche concordate, che si riferiscono al c.d. parallelismo consapevole delle
imprese che uniformano i loro comportamenti sul mercato; si tende, però, a precisare che tale condotta, per
poter integrare un’intesa, deve accompagnata da elementi di fatto che la “qualificano” come il frutto di una
scelta consapevole delle imprese (per esempio, la prova di scambi di informazioni).
Sia la norma italiana, sia quella comunitaria contengono un elenco di carattere esemplificativo, e non
tassativo, di intese considerate anticoncorrenziali.
La “lista nera” comprende sia intese orizzontali, cioè fra imprese che operano allo stesso livello economico,
sia intese verticali, per esempio quelle tra produttore e rivenditore.
Le ipotesi tipiche riguardano:
- intese sui prezzi di acquisto, di vendita o sulle condizioni contrattuali;
- intese che limitano l’accesso al mercato;
- intese di ripartizione dei mercati;
- intese che ledono la parità di trattamento;
- intese che impongono prestazioni supplementari non collegate con l’oggetto del contratto.
Le intese non sono vietate in generale, ma solo quando impediscano, restringano o falsino in maniera
consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale (o comunitario) o di una sua “parte
rilevante”.
Appare così il concetto di mercato rilevante, che assume la veste di parametro generale alla luce del quale
valutare l’esistenza di un’effettiva lesione della concorrenza.
Il mercato rilevante si individua essenzialmente in base a parametri merceologici e geografici: è evidente
che più è ampio il concetto di mercato rilevante che si accoglie, più è difficile ravvisare una lesione della
concorrenza nei comportamenti degli imprenditori.
Sia la legge italiana, sia il Trattato CE conferiscono rispettivamente all’AGCM e alla Commissione la
possibilità delle c.d. autorizzazioni in deroga (sia per singole intese, sia per categorie).
Presupposto per tale deroga è, secondo la normativa interna, che “le intese diano luogo a miglioramenti nelle
condizioni di offerta sul mercato” con l’effetto di “comportare un sostanziale beneficio per i consumatori”.
Ove l’AGCM accerti la violazione del divieto di intese può adottare i provvedimenti necessari per
rimuoverne gli effetti anticoncorrenziali ed emettere sanzioni pecuniarie nonché disporre, in caso di reiterata
inottemperanza, la sospensione dell’attività d’impresa fino a 30 giorni.
Indipendentemente da ogni provvedimento dell’AGCM chiunque può adire la corte d’appello per far
dichiarare la nullità dell’intesa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 71. L’abuso di posizione dominante
L’art. 3 l. 287/90 vieta “l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del
mercato nazionale o in una sua parte rilevante”; di tenore simile è l’art. 82 Trattato CE che inibisce, “nella
misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio fra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte
di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o di una parte sostanziale di questo”.
Illecito, quindi, non è il raggiungimenti di una posizione dominante sul mercato, ma solo il suo abuso.
Il concetto di posizione dominante presuppone l’identificazione del mercato rilevante, da effettuare secondo
i criteri già visti.
Una volta identificatolo, si ritiene che la valutazione della posizione dominante vada effettuata confrontando
la quota di mercato dell’impresa, calcolata in base al suo fatturato, con quella complessiva del settore (è
dominante una quota del 70%).
Il legislatore nazionale e quello comunitario indicano, esemplificativamente, alcuni comportamenti che
costituiscono abuso.
Si tratta di fattispecie analoghe a quelle previste per le intese e che, anche qui, possono riguardare
comportamenti incidenti sia in senso orizzontale che in senso verticale sul mercato.
La legge non prevede la possibilità di deroghe da parte dell’AGCM al divieto dell’abuso di posizione
dominante.
Le sanzioni irrogabili dall’AGCM sono eguali a quelle già viste per le intese.
La formulazione della norma che allude a “l’abuso da parte di una o più imprese” porta necessariamente a
configurare la possibilità della c.d. posizione dominante collettiva, della quale peraltro sono assai incerti i
confini rispetto alla figura limitrofa dell’intesa anticoncorrenziale, soprattutto nel già citato caso delle
condotte parallele (e ciò è di notevole rilevanza in tema di possibilità di deroghe).
L’AGCM può anche sanzionare l’”abuso di dipendenza economica che abbia rilevanza per la tutela della
concorrenza e del mercato”.
Si tratta di un’ipotesi diversa dall’abuso di posizione dominante: infatti prescinde dalla posizione dominante
sul mercato e si riferisce unicamente ai rapporti intercorrenti fra imprese, identificandosi con la “situazione
in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo
squilibrio di diritti e obblighi”.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 72. Le concentrazioni
L’art. 6 l. 287/90 subordina all’osservanza delle prescrizioni dell’AGCM, le operazioni di concentrazione
che “comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in
modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”.
A differenza delle intese e dell’abuso di posizione dominante in cui l’attività di controllo e repressione dei
comportamenti anticoncorrenziali avviene normalmente ex post, il sistema di controllo delle concentrazioni
prevede un obbligo di comunicazione, la cui violazione comporta sanzioni amministrative pecuniarie, delle
operazioni di concentrazione che superino le soglie quantitative indicate.
A seguito della comunicazione, l’autorità, sulla base di una prima deliberazione, decide se avviare o no
l’istruttoria.
La decisione negativa segna il semaforo verde per l’operazione; quella positiva comporta l’avvio di una fase
più approfondita di valutazione sul potenziale contrasto dell’operazione con i precetti normativi, cioè se essa
implichi la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato.
Al fine della valutazione di tali presupposti si deve tenere conto di alcuni elementi che consentono di
effettuale una determinazione comparativa fra i vantaggi che l’operazione comporta e il suo costo sotto il
profilo concorrenziale.
In Italia si prevede che il Consiglio dei Ministri determini in linea generali i criteri in base ai quali l’AGCM
può eccezionalmente autorizzare, per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale nell’ambito
dell’integrazione europea, operazioni di concentrazione altrimenti vietate.
La deroga comunque non può avere l’effetto di eliminare o restringere la concorrenza al di là di quanto
strettamente necessario per i predetti interessi e, in ogni caso, si devono ristabilire entro un termine
prefissato le condizioni di piena concorrenza.
Al termine del procedimento l’operazione può essere:
- autorizzata;
- autorizzata con condizioni idonee a impedire la costituzione o il rafforzamento di posizione dominante;
vietata.
L’inosservanza dei provvedimenti dell’AGCM comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie
calcolate sul fatturato delle imprese coinvolte.
L’art. 5 l. 287/90 chiarisce l’espressione operazioni di concentrazione facendo un elenco non tassativo di
fattispecie:
- la fusione tra imprese;
- l’acquisizione, da parte di una o più imprese, del controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese.
Si ha controllo in presenza di ogni contratto, diritto o altro rapporto che conferisca la possibilità di esercitare
un’influenza determinante sulle attività di un’impresa;
la costituzione di un’impresa comune.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 73. Il monopolio legale e di fatto
Sia pur in misura sempre minore, è possibile che per esigenze di carattere generale la legge conceda a
determinate imprese il monopolio per la prestazione o la produzione di certi beni o servizi.
Ovviamente le norme della l. 287/90 non si applicano al monopolista legale.
In questi casi la legge si premura di porre alcuni principi vincolanti per lo svolgimento dell’attività del
monopolista, volti soprattutto a evitare che egli adotti comportamenti discriminatori e lesivi dei diritti dei
clienti.
E’ pertanto previsto che il monopolista legale abbia l’obbligo di contrarre con chi intenda fruire delle sue
prestazioni.
Il monopolista legale deve, inoltre, rispettare il principio della parità di trattamento sia con riferimento
all’adempimento nei confronti dei clienti in caso di impossibilità di eseguire per intero nei confronti di tutti
le prestazioni promesse, sia con riferimento alle condizioni economiche e normative praticate alla clientela.
Si ritiene, infine, sia pure non concordemente, che le regole sul monopolista legale non si applichino al
monopolista di fatto: a quest’ultimo però si applicheranno integralmente la l. 287/90 e le regole comunitarie.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 74. Il patto di non concorrenza
E’ possibile che la libera concorrenza subisca limitazioni per effetto dell’esercizio dell’autonomia negoziale.
L’art. 2596 c.c. stabilisce i confini entro i quali è possibile porre limiti contrattuali alla libertà di
concorrenza.
Tali principi non sono ispirati, come la regolamentazione antitrust, allo scopo di proteggere gli interessi dei
consumatori, ma a quello di evitare eccessive limitazioni alla libertà di iniziativa economica individuale.
Tali requisiti sono:
- necessità, a fini probatori, della forma scritta del patto di non concorrenza;
- limitazione del patto di non concorrenza a una determinata zona o a una determinata attività;
- durata non superiore ai 5 anni.
A tali principi si pongono numerose eccezioni:
nei patti di esclusiva e di preferenza nel contratto di somministrazione, la durata di tali patti, con i quali il
somministrante o il somministrato si vincolano a non effettuare o ricevere forniture di determinati beni da
altri soggetti, può essere pari a quella del contratto di somministrazione;
nei patti di non concorrenza del dipendente o dell’agente per il periodo successivo alla cessazione del
rapporto, il patto deve essere adottato per iscritto a pena di nullità, deve prevedere uno specifico
corrispettivo e non può eccedere la durata di 3 anni (il patto di non concorrenza dell’agente non può
superare i 2 anni e deve essere limitato allo stesso ambito territoriale e di attività del contratto di agenzia);
inoltre, dottrina e giurisprudenza tendono a non applicare l’art. 2596 c.c. ai c.d. patti di non concorrenza
accessori a un contratto, cioè che siano una clausola di un più ampio regolamento negoziale, e obbediscano
alla sua stessa funzione: in tal caso si ritiene che possano avere la medesima durata del contratto.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 75. La nozione di concorrenza sleale
Libertà di concorrenza non significa che ogni condotta concorrenziale sia lecita.
L’imprenditore deve comunque improntare i suoi comportamenti nei confronti degli altri imprenditori ai
principi generali di lealtà e di correttezza.
Gli artt. 2598 ss. c.c. sono espressamente dedicati alla repressione degli atti di concorrenza sleale,
identificandone le fattispecie tipiche e dettando regole speciali in ordine ai presupposti e agli strumenti della
tutela accordata al soggetto leso.
Si è discusso a lungo e ancora si discute sull’identificazione degli interessi da tale disciplina tutelati.
Se sia cioè una normativa che mira a garantire il rispetto delle regole di lealtà e correttezza nei soli rapporti
fra imprenditori oppure se si debba ritenere che l’accesso a tale tutela vada esteso a soggetti diversi dagli
imprenditori lesi dall’atto di concorrenza sleale (in particolare i consumatori).
Gli atti di concorrenza sleale
L’art. 2598 c.c. contiene un elenco delle fattispecie di concorrenza sleale.
Di queste, le prime due sono tipiche; l’ultima è una clausola generale che sanziona ogni “mezzo non
conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 76. La confusione come concorrenza sleale
In forza dell’art. 2598 n°1 c.c. compie atti di concorrenza sleale chiunque “usa nomi o segni distintivi idonei
a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i
prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti
e con l’attività di un concorrente”.
La norma tutela l’interesse dell’imprenditore (sussista o no in suo favore la protezione particolare riservata
ai segni distintivi) a impedire che i suoi concorrenti pongano in essere atti che inducano la clientela in errore
sul soggetto con il quale entrano in contatto.
L’unico limite è che i segni o i nomi siano dall’imprenditore legittimamente usati come distintivi della sua
attività o dei suoi prodotti: ad esempio, i marchi devono rispondere ai requisiti di legge.
Altra ipotesi di concorrenza sleale per confusione è l’imitazione servile del prodotto.
La tutela dell’imitazione servile non può essere invocata quando si tratti di c.d. forme funzionali di un
prodotto, cioè quelle necessarie per l’utilizzazione dello stesso, ovvero quando tale forma non abbia
un’effettiva capacità caratterizzante del prodotto.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 77. La denigrazione e appropriazione di pregi altrui
L’art. 2598 n°2 c.c. considera atto di concorrenza sleale la diffusione di “notizie e apprezzamenti sui
prodotti o sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito” ovvero l’appropriazione “dei
pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente”.
Non rientra in questa categoria la c.d. pubblicità comparativa, cioè quella che pone a confronto, al fine di
evidenziarne la superiorità, il prodotto dell’imprenditore con quello dei suoi concorrenti.
Tale forma di pubblicità è lecita solo ove condotta in modo non ingannevole e utilizzando dati
effettivamente comparabili e veritieri.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 78. La contrarietà alla correttezza professionale
La clausola generale contenuta nell’art. 2598 n°3 c.c. sanziona, come si diceva, tutti gli atti “non conformi ai
principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda” e pone il problema della sua
“concretizzazione” con criteri di maggior specificità.
E’ illusorio cercare di raggiungere parametri di specificazione della categoria, tenendo conto del resto che
ciò tradirebbe la sua principale funzione di consentire all’interprete di valutare i comportamenti
dell’imprenditore alla luce dell’evoluzione dei rapporti economici e degli affari.
Conviene, piuttosto, rammentare sinteticamente alcuni dei principali atti di concorrenza sleale che la
giurisprudenza ha sanzionato utilizzando il canone della correttezza professionale:
- lo storno dei dipendenti e dei collaboratori di un’impresa da parte di un concorrente, quando ciò avvenga
con mezzi scorretti e per ledere deliberatamente un altro imprenditore;
- il dumping, consistente nel praticare prezzi di vendita sotto costo al fine di espellere il concorrente dal
mercato;
- il boicottaggio, consistente nel rifiuto di contrattare con altri imprenditori anche qui al fine di espellerli dal
mercato;
- la pubblicità ingannevole o menzognera;
- la violazione di altrui legittime esclusive contrattuali, ove avvenga con modalità scorrette;
- la c.d. concorrenza parassitaria che consiste nello sfruttare a proprio vantaggio gli investimenti che altra
impresa ha compiuto nella programmazione e nelle scelte di mercato, seguendone appunto parassitariamente
le mosse.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 79. Le azioni repressive della concorrenza sleale
Solo gli imprenditori, ovvero le loro associazioni professionali, sono legittimati a far valere le speciali forme
di tutela previste per reprimere la concorrenza sleale.
Specularmente solo gli imprenditori possono essere soggetti passivi di tali azioni.
Quando l’atto di concorrenza sleale sia commesso da un non imprenditore o leda un non imprenditore, si
applicheranno le regole generali dell’illecito civile.
Gli strumenti di tutela previsti dal legislatore sono i seguenti:
- l’azione inibitoria e di rimozione degli effetti dell’atto di concorrenza sleale.
- L’azione richiede solo la prova della ricorrenza degli estremi dell’atto di concorrenza sleale, ma non quella
del dolo o della colpa dell’autore, né quella di un effettivo danno patrimoniale, essendo sufficiente il mero
danno potenziale;
- l’azione di risarcimenti del danno, che richiede invece la prova de dolo o della colpa dell’autore (colpa che
peraltro si presume una volta accertato l’atto di concorrenza sleale) e del danno patrimoniale.
Nell’ambito di tale azione, il giudice può disporre la sanzione della pubblicazione della sentenza sulla
stampa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 80. L'impresa come intreccio di contratti
Tra le molte raffigurazioni dell’impresa elaborate da giuristi ed economisti, particolarmente incisiva è quella
che la risolve in un intreccio di contratti; e in effetti, sia l’organizzazione dell’impresa sia lo svolgimento
dell’attività sul mercato, si traducono principalmente nella conclusione di contratti.
Contrattuale è la collocazione di beni e servizi sul mercato; contrattuale è l’acquisizione della disponibilità
dei fattori della produzione; contrattuali sono i rapporti con i clienti, i dipendenti e gli altri collaboratori.
Questa realtà in passato, e in taluni ordinamenti ancora oggi, si è spesso riflessa nella separazione delle
regole dei contratti c.d. commerciali da quelle dei contratti c.d. civili e talvolta anche nella previsione di
giudici speciali per le controversie in materia di contratti commerciali.
Nel nostro ordinamento, il codice civile del ’42 ha superato tale partizione designando una disciplina dei
contratti comune e, almeno formalmente, indifferente al fatto che un determinato contratto sia stipulato o no
nell’ambito dell’impresa.
Tuttavia è importante notare che la disciplina generale dei contratti e, ancor più, quella dei contratti speciali,
sono caratterizzate da regole particolari che si applicano solo quando la vicenda contrattuale sia inserita
nell’ambito dell’impresa.
L’attività di impresa è da tempo divenuta il centro della produzione e della diffusione della ricchezza.
All’impresa è affidato il soddisfacimento di quasi tutti i bisogni collettivi, ivi compresi quelli fondamentali.
Ne deriva che la specialità della disciplina della contrattazione d’impresa non è più limitata, come in
passato, ad alcune regole funzionali all’esigenze degli imprenditori nell’ambito dei loro rapporti.
Hanno, invece, assunto rilievo preminente norme che tengono conto dello status delle parti, specie con
finalità protettive di quelle deboli (per esempio, la normativa sui contratti fra imprenditore e consumatore
oggi contenuta in via pressoché esaustiva nel codice del consumo).
La rilevanza dell’attività di impresa giunge addirittura, nei casi più estremi, a travalicare i confini negoziali:
ne è esempio la normativa sulla responsabilità del produttore, nella quale, per i danni da difetto del prodotto,
viene affermata, con regole di particolare tutela per il danneggiato, una responsabilità risarcitoria del
produttore indipendente dalle vicende negoziali della circolazione del prodotto.
Coerente con questa linea evolutiva è il fenomeno della crescente internazionalizzazione dell’economia.
Le regole del commercio internazionale rivendicano sempre più l’autonomia dal diritto statale anche a
riguardo ai soggetti chiamati a risolvere le eventuali controversie.
Il rapporto tra il contratto e l’impresa continua poi ad essere caratterizzato dal dato tradizionale per cui la
seconda si pone come il principale “laboratorio” creativo dei contratti, proprio perché il costante
adeguamento degli schemi negoziali è richiesto dalle sempre mutevoli esigenze dell’attività di impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 81. La categoria dei contratti di impresa
Le precedenti considerazioni costituiscono la base delle opinioni che da tempo, e recentemente con maggior
vigore, sostengono l’esistenza di una vera e propria categoria dei contratti di impresa.
Si vuole in tal modo sottolineare la possibilità di costruire sistematicamente un vero e proprio diritto
speciale caratterizzato dall’inerenza del contratto all’attività di impresa.
Si osserva in proposito, che sotto il profilo strutturale esistono contratti la cui disciplina presuppone che
almeno una delle parti sia un imprenditore (ad esempio i contratti bancari, di assicurazione, il leasing e il
factoring) e le figure contrattuali in cui normalmente una o entrambe le parti sono imprenditori (ad esempio
il contratto di trasporto e di somministrazione).
La giustificazione della categoria trova poi conferma nella circostanza che diverse regole del codice civile
hanno quale presupposto di applicazione che l’atto o il contratto sia posto in essere nell’esercizio
dell’impresa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 82. Le fonti del diritto dei contratti di impresa
La prima particolarità dei contratti di impresa rispetto agli altri risiede nel sistema assai complesso e
articolato delle fonti della loro disciplina.
Il diritto comune dei contratti ha, in larga parte, le sue fonti nella legge (e in particolare nel codice civile) e
nell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti.
Riguardo alle fonti del diritto dei contratti di impresa, va rilevato che:
- molti tipi di contratti di impresa sono regolati in leggi speciali;
- molti contratti di impresa sono dotati di tipicità economica ma non normativa: per essi non è, cioè, prevista
un’apposita disciplina legislativa.
Ciò rende assai complessa l’opera di integrazione delle eventuali lacune dell’atto;
- la fissazione di regole di estremo rilievo è demandata alla normativa secondaria di tipo regolamentare delle
Autorità di Vigilanza (Banca d’Italia, Consob);
- la disciplina dei contratti di impresa assegna agli usi un ruolo non trascurabile ai fini integrativi della
disciplina legale.
A riguardo va subito precisato che l’oggettivo rilievo degli usi come vera fonte di disciplina di taluni
contratti di impresa, di recente è entrato più volte in rotta di collisione con la normativa di tutela del
contraente debole;
- fonte assai rilevante del diritto dei contratti di impresa è costituita dalle condizioni generali di contratto che
ciascun imprenditore elabora.
Anche qui la libertà di determinazione del contenuto del contratto tramite clausole unilateralmente
predisposte soffre, nei rapporti con il contraente debole, severe limitazioni nelle recenti normative;
- l’autonomia negoziale svolge un ruolo centrale come fonte delle regole dei contratti di impresa.
La regolamentazione negoziale assume un ruolo del tutto particolare specie nell’ambito dei contratti a
contenuto maggiormente complesso, di lunga durata e comportanti l’investimento di ingenti risorse per la
loro esecuzione.
In questi casi, le parti propendono a costruire testi contrattuali tendenzialmente autosufficienti e addirittura
capaci, attraverso meccanismi negoziali, di superare eventuali situazioni di difficoltà senza ricorrere ai
tradizionali meccanismi normativi (risoluzione, risarcimento) che, in quelle ipotesi, si rivelano de tutto
inadeguati alla tutela degli investimenti effettuati;
- la globalizzazione dei mercati fa sì che oggi la contrattazione di impresa sia caratterizzata dalla
internazionalità delle parti o della sua esecuzione.
Vengono in rilievo, a livello normativo, le direttive comunitarie e le convenzioni di diritto materiale
uniforme;
- il profilo di maggior rilievo dell’internazionalizzazione dei contratti di impresa, con riguardo al sistema
delle fonti, consiste nella sempre più spiccata tendenza alla delocalizzazione del diritto applicabile, tramite il
riferimento alla c.d. lex mercatoria: espressione riassuntiva di un sistema di regole basato essenzialmente
sulla progressiva costruzione di principi generali del diritto commerciale internazionale.
In essa confluiscono fonti di vario tipo:
- gli usi generali e settoriali del commercio internazionale;
- i principi generali contenuti nelle principali convenzioni uniformi;
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale - le pratiche del commercio internazionale concretizzate nelle clausole contrattuali di più frequente
utilizzazione;
- i principi elaborati da organizzazioni internazionali;
- le regole della giurisprudenza arbitrale internazionale.
Questa tendenza trova, per un verso, riscontro normativo nelle norme nazionali sull’arbitrato internazionale
e, per altro verso conferma negoziale nelle frequenti clausole contrattuali in cui le parti espressamente
indicano nei principi del commercio internazionale il diritto che regola il contratto e che gli arbitri devono
usare per risolvere le controversie.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 83. Contratti di impresa e norme di tutela della parte debole: i
contratti del consumatore
La principale linea evolutiva delle regole sui contratti di impresa è certamente quella che mira a riportare su
un piano di equilibrio la relazione contrattuale tra l’imprenditore e la sua controparte debole.
Si tratta di regole che non si identificano e non si esauriscono con la pur rilevante normativa in ordine ai
contratti con il consumatore.
All’interno della normativa di settore, la protezione del contraente con l’imprenditore si rafforza ove questi
sia un consumatore ovvero si disapplica quando sia un “professionista”.
Rinviando, per i profili specifici, alla trattazione dei singoli contratti, va innanzi tutto evidenziata la
disciplina generale dei contratti con i consumatori.
La tematica forma ora oggetto del codice del consumo.
La nozione di consumatore viene ritagliata, più che sulle qualità soggettive del contraente, sugli scopi che
egli intende soddisfare con il contratto: l’art. 31 lett. a cod. cons. definisce, infatti, il consumatore come la
“persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente
svolta”.
A tale nozione viene contrapposta quella del professionista, e cioè della “persona fisica o giuridica che
agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario”.
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Diritto commerciale 84. Sul piano della determinazione del contenuto del contratto
Gli artt. 33 ss. cod. cons. riproducono la normativa sulle clausole c.d. vessatorie introdotta nel codice civile
con la l. 52/96 e prevedono la nullità delle clausole “che, malgrado la buona fede, determinano a carico del
consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.
Si sottraggono a tale nullità le clausole:
- che riproducono disposizioni di legge;
- che attengono all’oggetto del contratto o all’adeguatezza del corrispettivo economico dei beni o dei servizi,
purché chiare e comprensibili;
- che sono state oggetto di trattativa individuale.
L’art. 33 cod. cons. elenca una lunga serie di clausole che, sino a prova contraria, si presumono vessatorie.
Si tratta comunque di un elenco non tassativo.
La normativa rappresenta un significativo ampliamento della tutela contro le clausole vessatorie contenute
nei c.d. contratti standard che, nel disegno originario del codice civile, era affidata al solo precetto formale
della specifica approvazione per iscritto.
La tutela del consumatore in materia trova poi ulteriore presidio nell’introduzione della c.d. azione inibitoria
in favore delle associazioni rappresentative dei consumatori al fine di ottenere dal giudice una pronuncia
che, in via generale, inibisca al professionista l’uso di condizioni generali di contratto vessatorie.
E’ uno strumento di azione collettiva a tutela di interessi diffusi che è stato usato, e con successo, in
numerose occasioni.
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Diritto commerciale 85. Sul piano della formazione della volontà
Riguardo alla delicata fase pre-negoziale in cui, mediante al propaganda pubblicitaria, le imprese forniscono
“consigli per gli acquisti”, il codice del consumo tutela anche i consumatori prevedendo che questi, nonché
le loro associazioni e organizzazioni, possano chiedere all’AGCM “che siano inibiti gli atti di pubblicità
ingannevole o di pubblicità comparativa illecita”.
Viene ritenuta ingannevole “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione,
induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche e giuridiche alle quali è rivolta”.
La formazione del consenso del consumatore è presa in considerazione anche nelle norme sui contratti
negoziati al di fuori dei localo commerciali e sui contratti c.d. a distanza.
Il riferimento più immediato è certamente alle c.d. televendite e all’e-commerce: la legge, peraltro, fa
riferimento a qualunque mezzo “che, senza la presenza fisica e simultanea del fornitore e del consumatore,
possa impiegarsi per la conclusione del contratto tra le dette parti”.
La nozione di contratto negoziato al di fuori dei locali commerciali ha oggetto solo parzialmente coincidente
con quella di contratto a distanza in quanto fa riferimento alle tecniche di contrattazione c.d. aggressive,
caratterizzate dal fatto che l’operatore commerciale contatti a domicilio il consumatore oppure organizzi
eventi al fine di proporgli la stipulazione di contratti, oppure proponga la conclusione di contratti in area
pubblica o aperta al pubblico ovvero ancora per corrispondenza.
In tutti questi casi il legislatore avverte l’esigenza di tutelare il consumatore in quanto la formazione del suo
consenso può essere influenzata dalla particolare suggestività del mezzo usato oppure dalla straordinaria
intrusività oppure ancora caratterizzata dall’impossibilità di verificare concretamente l’oggetto del contratto.
Le tecniche di tutela nei contratti a distanza prevedono, anzitutto la protezione dell’interesse del
consumatore a un’adeguata e completa informazione sulle caratteristiche soggettive (identità del fornitore),
oggettive (caratteristiche del bene) e normative (recesso, durata, garanzie) del contratto.
Viene poi tutelato in modo specifico l’interesse alla corretta esecuzione del contratto, fissando termini
essenziali di consegna (30 giorni, salvo diverso accordo) e l’obbligo del fornitore, in caso di inadempimento,
di rimborsare il prezzo pagato, senza possibilità di consegnare un bene diverso.
E’ anche vietata la fornitura a pagamento di beni o servizi non richiesti, essendo previsto che in nessun caso
il silenzio del consumatore può valere come assenso.
Altra caratteristica forma di tutela del consumatore, espressamente prevista sia per i contratti a distanza sia
per quelli stipulati fuori dai locali commerciali, è il riconoscimento del c.d. diritto di recesso.
Questo diritto consiste nella possibilità per il consumatore di recedere dal contratto entro il termine di 10
giorni.
Assume particolare rilevanza l’informativa su tale diritto ai fini della decorrenza del termine per il diritto di
recesso: va aggiunto che la mancata osservanza di tali regole comporta l’estensione temporale del diritto di
recesso a 60 giorni per i contratti negoziati al di fuori dei locali commerciali e 90 giorni per i contratti a
distanza.
L’esercizio del diritto di recesso non può comportare per il consumatore alcun onere aggiuntivo rispetto alla
restituzione del bene e alle relative spese e dà diritto al rimborso, entro il termine massimo di 30 giorni, di
quanto pagato dal consumatore.
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Diritto commerciale 86. Sul piano della corretta esecuzione del contratto
La disciplina sulla vendita dei beni di consumo tocca tutti i possibili schemi negoziali da cui discenda una
fornitura di beni di consumo a un consumatore.
In primo luogo, viene ridefinito il concetto di conformità del bene a quello pattuito nel contratto,
accentuando il criterio della conformità alle descrizioni del venditore sia con riguardo a campioni o modelli,
sia con riguardo alle caratteristiche descritte nella pubblicità e dell’etichetta.
In secondo luogo, viene specificata e ampliata la gamma dei diritti del consumatore a fronte
dell’inadempimento del fornitore, prevedendosi, oltre ai tradizionali rimedi della diminuzione del prezzo e
della risoluzione del contratto, anche quello della riparazione o sostituzione senza spese del bene.
Infine, molto più ampi sono i termini di decadenza e prescrizione: il difetto di conformità va denunciato
entro 2 mesi dalla sua scoperta, ma la denuncia non è neppure necessaria se il vizio è riconosciuto o
occultato.
Il fornitore resta comunque responsabile di ogni vizio che si manifesti nei 2 anni successivi alla consegna,
con la presunzione relativa che i vizi manifestatisi nei 6 mesi dalla consegna fossero già esistenti.
La prescrizione delle azioni per difetti non occultati è fissata in 26 mesi dalla consegna del bene.
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Diritto commerciale 87. I contratti fra imprese. Abuso di dipendenza economica e
subfornitura
Il disequilibrio dei rapporti di forze fra le parti nei contratti di impresa non si manifesta soltanto nella
relazione imprenditore-consumatore.
In misura altrettanto rilevante esso ricorre anche nei rapporti fra imprenditori e le fattispecie della c.d.
subfornitura e dell’abuso di dipendenza economica.
L’impresa debole è esposta, così come il consumatore, all’imposizione del contenuto del contratto, alla
volontà unilaterale dell’imprenditore forte, all’insicurezza sul rispetto dei propri diritti, anche in relazione al
fatto che la sopravvivenza stessa dell’impresa può dipendere dal mantenimento dei rapporti con quella forte.
L’art. 9 l. 192/98 vieta, allora, “l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica
nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, un’impresa cliente o fornitrice”.
La dipendenza economica viene ravvisata nella “situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare,
nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi”, tenuto anche
conto della possibilità per l’impresa vittima “di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”.
La sanzione dell’abuso è duplice: la nullità del patto tramite il quale si realizza e il risarcimento del danno
derivante dal comportamento abusivo.
La legge, inoltre, accorda alla parte che subisce l’abuso l’azione inibitoria.
Il contratto di subfornitura è definito come il contratto con il quale “un imprenditore si impegna ad effettuare
per conto di un’impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla
committente medesima, o si impegna a fornire all’azienda prodotti o servizi destinati a essere incorporati o
comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un
bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi
forniti dall’impresa committente”.
Si riferisce a quelle sempre più diffuse forme di decentramento produttivo.
Il subfornitore è privo di alcun potere contrattuale significativo nei confronti del committente (di cui non
raramente prima era dipendente) ed è dunque il soggetto nei cui confronti, tipicamente, può ricorrere la
figura della dipendenza economica.
Di qui, la specifica normativa di tutela che:
- mira a garantire maggior rigore in ordine alla forma e al contenuto del contratto al fine di sottrarre il
subfornitore a possibili arbitri o modifiche unilaterali dello stesso da parte del committente;
- tende ad assicurare il più possibile il subfornitore sull’adempimento del committente e sulla ragionevole
prevedibilità del contenuto delle sue prestazioni, che spesso nel contratto vengono modulate in base alle
mutevoli esigenze della controparte.
Fra le varie norme di tutela del subfornitore si segnalano:
- la previsione della forma scritta, a pena di nullità, del contratto di subfornitura;
- la necessità che il contenuto del contratto sia determinato in modo chiaro e preciso;
- la disciplina sui termini di pagamento, che devono essere fissati con chiarezza nel contratto per quanto
concerne la loro decorrenza che, comunque, non può eccedere i 90 giorni dalla consegna del bene o
dall’esecuzione della prestazione.
Il pagamento è, inoltre, assistito dalla predeterminazione legislativa dell’interesse da corrispondere in caso
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Diritto commerciale di ritardato pagamento, senza bisogno di messa in mora;
- la nullità di una serie di clausole e patti contrattuali, espressione tipica dello squilibrio dei rapporti;
- la limitazione della responsabilità del subfornitore solo al funzionamento e alla qualità della parte o
dell’assemblaggio da lui prodotti o del servizio da lui fornito.
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Diritto commerciale 88. Il commercio elettronico
Le tecniche della contrattazione di impresa sono naturalmente portate a sperimentare metodi di negoziazione
rapidi e che consentano di ottenere velocemente il maggior numero di contatti.
Il mezzo utilizzato è divenuto così importante da designare un settore dell’attività commerciale: l’e-
commerce o commercio elettronico.
L’adozione di questa tecnica comporta l’applicazione delle regole di tutela dei consumatori previste in
generale per tutti i contratti a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali.
Il legislatore ha affrontato di recente sotto diversi profili la regolamentazione del commercio elettronico,
introducendo la firma digitale e disciplinando in generale il c.d. documento informatico e, aspetto di non
poco rilievo, anche i pagamenti informatici.
L’attenzione, oltre ai dati che devono essere comunicati in forza delle regole sui contratti a distanza, è posta
sulle informazioni concernenti le modalità tecniche della contrattazione che devono essere fornite in modo
“chiaro, comprensibile e inequivocabile prima dell’inoltro dell’ordine da parte del destinatario del servizio”.
Al riguardo va osservato che l’e-commerce, nella pratica, tende a costruire un sistema elettronico di
risoluzione delle controversie mediante clausole di tipo arbitrale che indicano organismi operanti anch’essi
per via telematica: di ciò prende atto lo stesso legislatore che configura una “rete europea di composizione
extragiudiziale delle controversie”.
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Diritto commerciale 89. Contratti di impresa e vicende dell’imprenditore
Una “classica” particolarità della disciplina codicistica dei contratti di impresa riguarda una serie di norme
che, in deroga al diritto comune, ne assicurano l’insensibilità alle vicende personali dell’imprenditore.
Sono espressione di questo principio:
- le regole sul mantenimento dell’efficacia della proposta o dell’accettazione del contratto anche in caso di
morte o incapacità dell’imprenditore;
- la regola in tema di non estinzione del mandato in caso di morte o incapacità del mandante o del
mandatario;
- le già commentate norme sulla successione automatica dei contratti in casi di trasferimenti di azienda.
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Diritto commerciale 90. L’esatto adempimento delle obbligazioni pecuniarie nei contratti
d’impresa
Una significativa manifestazione ulteriore della specificità della disciplina dei contratti di impresa è
costituita dal d. lgs. 231/2002 che attua la direttiva CE relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, che riguarda l’esatto adempimento delle obbligazioni pecuniarie per “i contratti, comunque
denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni”.
In base a essa:
- gli interessi moratori decorrono dal giorno successivo al termine pattuito per il pagamento in via
automatica;
- la misura degli interessi moratori è fissata in un tasso estremamente più gravoso di quello legale;
- a tutela delle imprese deboli sono poste significative limitazioni all’autonomia negoziale delle parti.
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Diritto commerciale 91. Alcune regole speciali dei contratti di impresa internazionali
Si è visto quale incidenza abbia nel sistema delle fonti dei contratti di impresa la crescente
internazionalizzazione dei mercati.
Si è anche detto che le regole ambiscono a formare un corpus organico di principi dei contratti commerciali
internazionali.
Talune di queste regole, in particolare quelle che più sembrano discostarsi dalla normativa interna, meritano
di essere evidenziate come significativi esempi di tale diritto speciale.
Con riguardo alla formazione del contratto viene così in rilievo la spiccata tendenza ad attenuare il principio
della conformità fra proposta e accettazione quale regola base per la conclusione del contratto, al fine di
evitare che l’affidamento ragionevole nella stipulazione di un affare venga frustrato, magari con eccezioni di
tipo formale sollevate ex post.
Ad esempio l’inserimento nell’accettazione di clausole aggiunte o difformi rispetto alla proposta non
impedisce la conclusione del contratto se esse non alterano sostanzialmente i termini della proposta e se il
proponente, senza ritardo, non si opponga a tali modifiche.
Pure di estremo interesse la valorizzazione del principio di conservazione del contratto e, pertanto, della
realizzazione dei suoi effetti economici anche in presenza di situazioni patologiche, come l’inadempimento
o il sopravvenuto mutamento dell’equilibrio economico delle prestazioni contrattuali.
Così emerge la chiara tendenza a considerare il rimedio risolutorio come risposta residuale all’altrui
inadempimento.
Si richiede, dunque, l’essenzialità dell’inadempimento e si subordina la possibilità di avvalersi della
risoluzione a una manifestazione preventiva di volontà in tal senso.
Di ancora maggiore interesse sono i principi che si vanno affermando in materia di c.d. hardship, fattispecie
corrispondente, anche se non perfettamente, con l’eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto del codice
civile.
I principi al fine di evitare la risoluzione del contratto dettano regole rivolte a ristabilire l’originario
equilibrio delle prestazioni contrattuali.
Così, confermato che la semplice maggiore onerosità dell’adempimento non libera la parte dalle proprie
obbligazioni, si è previsto che l’alterazione sostanziale dell’equilibrio del contratto, per eventi verificatesi
dopo la sua conclusione e che ragionevolmente non potevano essere presi in considerazione o controllati
dalla parte svantaggiata, fa sorgere il diritto a chiedere, senza ritardo e motivatamente, la rinegoziazione (e
non la risoluzione) del contratto.
Il mancato raggiungimento dell’accordo fra le parti consentirebbe al giudice, in alternativa alla risoluzione,
di modificare il contratto al fine di ripristinare l’originario bilanciamento delle prestazioni.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 92. Lo scambio dei beni attraverso la vendita
La vendita è il modello generale dei contratti svolti a realizzare la circolazione dei beni.
Da questo ceppo comune si dipartono poi alcune regole particolari dedicate a specifiche forme o sottotipi
della vendita in ragione del loro oggetto, ovvero delle modalità di esecuzione.
Va, peraltro, ricordato che oggi la disciplina del codice civile è solo una tessera di un complesso mosaico
normativo.
Alle leggi speciali, e in particolare al codice del consumo, sono affidati punti qualificanti della
regolamentazione delle vendite a distanza, di quelle negoziate fuori dei locali commerciali, di quelle
effettuate tramite strumenti informatici.
Nel nostro ordinamenti, con le regole del codice civile, coesistono quelle della Convenzione di Vienna sulla
vendita internazionale di beni mobili.
Sono disciplinati dalla Convenzione:
- tutti i contratti di vendita di beni mobili stipulati fra un venditore italiano e un imprenditore di uno Stato
che ha ratificato la Convenzione di Vienna;
- tutti i contratti di vendita di beni mobili tra un venditore italiano e un compratore straniero, giacché, in
applicazione delle regole del diritto internazionale privato italiano, il diritto del paese del venditore è quello
che normalmente regola il contratto di vendita internazionale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 93. Trasferimento della proprietà, consegna del bene e passaggio dei
rischi
La definizione della vendita è contenuta nell’art. 1470 c.c.: “la vendita è il contratto che ha per oggetto il
trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un
prezzo”.
Questa impostazione è coerente con il principio consensualistico che nel nostro ordinamento regge i
contratti a effetti reali, come la vendita: il consenso legittimamente manifestato dalle parti realizza l’effetto
traslativo della proprietà.
Vengono così regolati specificamente i casi di c.d. vendita obbligatoria (o con effetti reali differiti) e cioè dei
contratti di vendita alla cui conclusione non corrisponde il trasferimento della proprietà.
Si tratta della:
- vendita di cose di genere, in cui l’effetto traslativo si realizza quando il bene viene individuato;
- vendita di cosa futura, in cui il trasferimento della proprietà ha luogo quando la cosa viene ad esistenza;
- vendita di cose altrui, nella quale il trasferimento della proprietà al compratore si verifica nel momento in
cui il venditore ne acquisti la proprietà dal precedente titolare.
Una scissione fra conclusione del contratto di vendita e trasferimento della proprietà si ha anche nella
vendita con riserva di proprietà, nella quale l’effetto traslativo dipende dal pagamento per intero delle rate
del prezzo da parte del compratore.
Questa impostazione è estranea alle regole della vendita internazionale e più in generale degli usi e delle
pratiche del commercio internazionale.
Il rilievo pratico di questa differente impostazione sta soprattutto, per quel che concerne i rapporti fra le
parti, nell’individuazione del momento in cui passa dal venditore al compratore il rischio della perdita o del
danneggiamento incolpevole del bene.
Nel sistema del codice civile si esprime il principio secondo cui il momento del passaggio del rischio
coincide con quello del passaggio della proprietà del bene venduto.
Per converso la Convenzione di Vienna incentra il sistema del passaggio del rischio sul duplice presupposto:
- della chiara identificazione del bene ai fini del contratto;
- della sua consegna, configurata in modo variabile a seconda delle caratteristiche della vendita:
- nella vendita di beni da trasportare il rischio passa al compratore con la consegna al primo vettore nel
luogo indicato dalle parti;
- nella vendita di beni in viaggio il rischio passa al momento della conclusione del contratto, ovvero dalla
consegna al vettore che ha rilasciato i documenti di trasporto;
- negli altri casi dalla presa in consegna del compratore o, in ipotesi di ritardo, nel momento in cui i beni
sono messi a sua disposizione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale 94. Gli obblighi del venditore e i rimedi contro l’inadempimento
Il codice civile sintetizza gli obblighi del venditore:
- nella consegna della cosa al compratore;
- nel far acquistare al compratore la proprietà nei casi di vendita obbligatoria;
- nel garantire il compratore dall’evizione e dai vizi della cosa.
Quanto alla consegna dei beni mobili, il codice civile stabilisce che, salvo patto o uso contrario, essa deve
avvenire nel luogo ove la cosa si trovava al momento del contratto, ovvero, nella vendita di beni da
trasportare, con la consegna al vettore o allo spedizioniere, e nella vendita su documenti tramite la consegna
dei titoli rappresentativi della merce.
La mancata consegna del bene espone il venditore all’azione di adempimento, ovvero a quella di risoluzione
secondo i principi generali: nella vendita di cose mobili è peraltro previsto il rimedio tipico della c.d.
compera in danno, per cui se la vendita ha per oggetto cose fungibili che hanno un prezzo risultante da
listini, l’acquirente può farle acquistare a spese del venditore, con diritto di ottenere la differenza fra il
prezzo pattuito e quello effettivamente pagato, oltre al risarcimento del danno.
Il compratore può subire, per effetto dell’azione di un terzo che rivendichi la proprietà o altro diritto reale o
personale sulla cosa, la perdita o la limitazione del diritto di proprietà sul bene acquistato: può subire cioè
quella che viene definita l’evizione del bene.
La legge prevede che, nel caso di vendita di cosa interamente altrui, il compratore, se ignaro dell’altrui
diritto e qualora il venditore non gliene abbia comunque fatto acquistare la proprietà, possa chiedere subito
la risoluzione del contratto, la restituzione del prezzo e il rimborso delle spese.
In caso di vendita di cosa parzialmente altrui o di evizione parziale, il diritto alla risoluzione del contratto
spetta solo se il compratore non avrebbe acquistato la cosa senza la parte di cui non è divenuto proprietario:
diversamente ha diritto alla riduzione del prezzo e al risarcimento del danno.
Inoltre, in caso di pericolo di rivendita, il compratore, salvo idonea garanzia del venditore, può sospendere il
pagamento.
Il compratore perde la garanzia se non chiama il venditore nel giudizio promosso dal terzo che vanti diritti
sulla cosa, ove il venditore dimostri che vi erano ragioni sufficienti per respingere la pretesa.
Le parti possono derogare alle regole di tutela del compratore ora descritte; possono anche eliminarle del
tutto, con la sola eccezione del caso di evizione dovuta al fatto del venditore.
Nel caso di esclusione totale della garanzia, il compratore, ove subisca l’evizione, può ottenere solo la
restituzione del prezzo o il rimborso delle spese.
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Diritto commerciale 95. Garanzia per i vizi della cosa nel contratto di vendita
Di maggior rilievo pratico è la garanzia per i vizi della cosa.
Il venditore “è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso cui
è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”.
Ampiezza e contenuto della garanzia sono liberamente derogabili dalle parti con l’eccezione della garanzia
per i vizi taciuti in malafede dal venditore; la garanzia è peraltro esclusa per i vizi noti o facilmente
riconoscibili dal compratore.
I rimedi a disposizione de compratore sono:
- la risoluzione del contratto, con la conseguenza che il venditore deve restituire al compratore il prezzo e
rimborsare le spese e i pagamenti effettuati per la vendita; e il compratore deve restituire il bene, ove non
perito a causa dei vizi;
-in alternativa alla risoluzione, la riduzione del prezzo;
- in ogni caso, il risarcimento del danno ove il venditore non provi di aver ignorato senza colpa i vizi della
cosa.
La garanzia per i vizi è soggetta a termini assai ristretti di decadenza e prescrizione: il compratore, a pena di
decadenza, deve denunziarli entro 8 giorni dalla loro scoperta.
L’azione si prescrive comunque entro 1 anno dalla consegna del bene.
Le stesse regole su prescrizione e decadenza si applicano con riferimento all’azione di risoluzione che il
compratore ha diritto di svolgere qualora il bene non abbia le qualità promesse ovvero quelle essenziali per
l’uso cui è destinato.
In caso di consegna di una merce assolutamente non riconducibile a quella pattuita (c.d. consegna aliud pro
alio) l’azione di risoluzione viene affrancata dai termini di decadenza e prescrizione e ricondotta ai principi
generali (nessun termine di decadenza e prescrizione decennale).
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Diritto commerciale 96. Inadempimento del compratore e vendite con riserva di
gradimento, a prova e a campione
Inadempimento del compratore
Nella Convenzione di Vienna la disciplina dell’inadempimento del compratore si mostra, per un verso, più
flessibile di quella nazionale nella fissazione dei termini per far valere le azioni contro l’inadempimento del
venditore, ma per altro verso, più attenta a che le fisiologiche contestazioni sul difetto di conformità dei beni
non si traducano nella ricerca di ragioni pretestuose per vanificare il contratto:
- nella vendita internazionale non v’è spazio per la distinzione elaborata nella giurisprudenza italiana fra
difetto di qualità e aliud pro alio;
- la risoluzione del contratto è vista come l’extrema ratio; viene invece privilegiata l’adozione di rimedi
alternativi alla risoluzione quali l’azione di esatto adempimento (con la riparazione o sostituzione del bene),
la riduzione del prezzo e l’azione risarcitoria;
- il compratore deve procedere alla verifica del bene e alla denunzia del vizio, in modo specifico “entro un
tempo ragionevole”, il che consente alla giurisprudenza di modularlo a seconda della tipologia dei beni.
La prescrizione dell’azione è biennale, a partire dalla consegna del bene;
- viene comunque dato rilievo importante allo stato soggettivo di buonafede del venditore, privandolo di
ogni tutela legata al regime delle decadenze nell’ipotesi di vizi che gli erano noti o conoscibili.
Vendite con riserva di gradimento, a prova e a campione
Va infine segnalato che il codice civile regola in maniera specifica tre forme di vendita che si caratterizzano
per rafforzare la posizione del compratore in relazione all’obbligo del venditore di consegnare beni conformi
a quelli pattuiti.
Si tratta delle vendite con riserva di gradimento, a prova e a campione: nella prima la vendita non si
perfeziona fin quando il compratore non abbia manifestato il suo gradimento; nella seconda la vendita è
sottoposta alla condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso cui è destinata,
da accertarsi, appunto, con la prova; nella terza qualsiasi difformità dei beni consegnati al compratore
rispetto al campione autorizza la risoluzione del contratto.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Diritto commerciale