Si parte quindi con l'introdurre la definizione di imposte ed entrate, la specificazione della natura tributaria dei contributi. Si passa poi ad una carrellata dei punti principali definiti dalla normativa tributaria, che tocca le tipologie di imposizione fiscale, il ruolo della dichiarazione dei tributi e le modalità con la quale la riscossione delle imposte viene effettuata, sia dal punto di vista procedurale, sia per quanto attiene l'accertamento e la violazione dei pagamenti.
Una seconda tranche di appunti è invece dedicata all'Imposta di Valore Aggiunto, l'IVA. Se ne traccia qui i profili di nascita, gli ambiti di applicazione o si esenzione, le procedure di riscossione e rimborso, terminando con una riflessioni sulla natura giuridica di questa imposta sui consumi.
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA
di Stefano Civitelli
Questi appunti schematizzano i temi principali di due manuali fondamentali
nello studio del diritto tributario: il "Manuale di diritto tributario" di Russo e
"L'imposta sul valore aggiunto" di Padovani.<br />
Si parte quindi con l'introdurre la definizione di imposte ed entrate, la
specificazione della natura tributaria dei contributi. Si passa poi ad una
carrellata dei punti principali definiti dalla normativa tributaria, che tocca le
tipologie di imposizione fiscale, il ruolo della dichiarazione dei tributi e le
modalità con la quale la riscossione delle imposte viene effettuata, sia dal
punto di vista procedurale, sia per quanto attiene l'accertamento e la violazione
dei pagamenti.<br />
Una seconda tranche di appunti è invece dedicata all'Imposta di Valore
Aggiunto, l'IVA. Se ne traccia qui i profili di nascita, gli ambiti di applicazione o
si esenzione, le procedure di riscossione e rimborso, terminando con una
riflessioni sulla natura giuridica di questa imposta sui consumi.
Università: Università degli Studi di Firenze
Facoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto Tributario, a.a. 2008/2009
Titolo del libro: "Manuale di diritto tributario" di P. Russo e
"L'imposta sul valore aggiunto" di F. Padovani
Autore del libro:1. Definizione di diritto tributario
Il diritto tributario, che attiene ad un settore dell’attività finanziaria dello Stato, rappresentava in origine una
parte indifferenziata del diritto amministrativo; e poi, via via, ha acquisito sempre maggiore autonomia a
causa della crescente rilevanza che hanno assunto, nell’ambito delle entrate di cui lo Stato dispone per poter
svolgere la propria attività, quelle che possiamo genericamente definire tributarie.
Volendo individuare con precisione l’oggetto del diritto tributario, lo si può identificare nel complesso di
norme che regolano l’imposizione e la riscossione dei tributi, e quindi recanti la disciplina del rapporto che
si instaura tra il soggetto attivo (l’ente impositore) ed il soggetto passivo (il contribuente) della relativa
prestazione obbligatoria, dalla nascita alla sua concreta attuazione, nonché la disciplina dei rapporti e delle
situazioni connessi o derivati.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 2. I rapporti del diritto tributario con la scienza delle finanze
Occorre ancora precisare i caratteri distintivi del diritto tributario rispetto alla scienza delle finanze: le due
materie hanno in effetti una parziale comunanza di oggetto (per la precisione, la scienza delle finanze non si
occupa solo delle entrate tributarie, ma di tutte le entrate nonché delle spese pubbliche) ma lo studiano da un
punto di vista diverso.
La scienza delle finanze è infatti una disciplina non giuridica, avendo riguardo agli aspetti economici
dell’attività finanziaria dello Stato nel suo complesso.
Il diritto tributario ha invece ad oggetto fondamantale il rapporto giuridico obbligatorio che intercorre tra
l’ente impositore e il contribuente.
Nell’ottica del tradizionale Stato liberale questo era portato a contenere il suo intervento nella vita della
società al minimo indispensabile; di conseguenza era circoscritto anche il bisogno dei mezzi finanziari.
La nostra Costituzione dà la misura dell’ampiezza dei compiti propri dello Stato che è chiamato ad agire ed
operare al fine di eliminare le diseguaglianze, fornire numerosi servizi pubblici ed indirizzare l’attività
privata verso l’interesse della collettività.
Questa intensa attività dello Stato moderno comporta per il medesimo la necessità di acquisire una sempre
maggiore quantità di risorse finanziarie.
Fino a quando l’entità dei mezzi finanziari dei quali disporre era contenuta, lo Stato di poteva far fronte con
i frutti del proprio patrimonio.
Successivamente, e soprattutto con l’avvento dello Stato sociale, è sorta la necessità di incrementare gli altri
tipi entrate.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 3. Definizione di entrate pubbliche ed entrate tributarie
Lo Stato dispone di varie fonti di entrate con le quali far fronte alle spese necessarie per lo svolgimento delle
proprie attività.
Si suole comunemente distinguere tra entrate derivanti:
a. dall’utilizzazione (sfruttamento e vendita) dei beni patrimoniali;
b. dallo svolgimento di attività economiche;
c. dalla partecipazione al capitale di determinati organismi;
d. dalla acquisizione delle somme spettanti a titolo sanzionatorio;
e. dalla riscossione dei tributi.
Inoltre, per finanziare il proprio deficit, lo Stato ricorre al debito pubblico: ma in questa ipotesi, poiché non
si verifica una acquisizione a titolo definitivo delle somme ricevute in prestito e quindi da restituire, non è
possibile parlare di entrate.
La dottrina ha elaborato una pluralità di classificazioni delle pubbliche entrate:
1. una prima classificazione contrappone le entrate di diritto privato alle entrate di diritto pubblico, a
seconda che la disciplina del rapporto dal quale deriva l’entrata abbia natura privatistica o pubblicistica;
2. una seconda classificazione perviene a distinguere le entrate a titolo originario e le entrate a titolo
derivativo;
3. infine, una terza classificazione, enuclea una duplice categoria di entrate, definite rispettivamente entrate
commutative ed entrate contributive, in funzione dell’esistenza o meno di un rapporto di scambio di utilità
economiche tra lo Stato e il soggetto gravato dalla prestazione.
Soprattutto la terza classificazione riveste una particolare rilevanza: nei rapporti fra privati opera il principio
della corrispettività alla stregua del quale nessuno può subire un decremento patrimoniale e quindi essere
tenuto ad una prestazione senza che vi si accompagni una controprestazione in grado di ristabilire, almeno
tendenzialmente, l’equilibrio economico; in termini diversi si presenta la situazione fra lo Stato e i singoli
consociati, dove il suddetto principio di corrispettività può non operare in presenza di almeno due
fondamentali esigenze dello Stato medesimo, l’una identificabile nella repressione di comportamenti
antigiuridici e l’altra nel procacciamento delle entrate occorrenti per l’espletamento delle attività necessarie
al soddisfacimento degli interessi pubblici.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 4. Definizione di imposte
Con i termini “tributi” ed “entrate tributarie” si suole identificare una categoria unitaria, comprensiva di
quattro istituti: l’imposta, il monopolio fiscale, la tassa e il contributo.
All’onere derivante dall’erogazione dei servizi divisibili si può far fronte facendo pagare a ciascuno dei
singoli utenti una parte del relativo costo e quindi, alla stregua delle qualificazioni invalse, una tassa, mentre
ciò non è possibile per i servizi indivisibili, destinati indifferenziatamente come tali alla collettività: con
riferimento a questi ultimi, pertanto, il mezzo di finanziamento non può che essere costituito dalle imposte,
quali prestazioni a carattere genericamente contributivo ed in quanto tali sganciate da qualsiasi rapporto di
scambio di utilità.
Merita peraltro aggiungere che l’assunto per cui l’imposta serve a fronteggiare solo servizi indivisibili ha
perso nel tempo la sua assolutezza.
In specie, si è teso a diffondere la fruizione di servizi pubblici divisibili considerati fondamentali per la
promozione e lo sviluppo della collettività e a tal fine si è pervenuti ad erogare questi servizi a prezzi
minimali.
Conseguentemente, divenuti insufficienti i proventi dei servizi divisibili per coprirne il costo, si è dovuto
con sempre maggiore frequenza far ricorso ad altre entrate, fra le quali essenzialmente le imposte.
Proprio nel tentativo di enucleare una definizione schiettamente giuridica dell’imposta, la dottrina più
avvertita ha, per un verso, posto in evidenza il collegamento tra le prestazioni rientranti in detta categoria e
la sovranità dello Stato; per l’altro, non ha mancato di dar rilievo allo scopo dell’imposta, che quello di
procurare un’entrata allo Stato, così consentendo di differenziare l’imposta dalle sanzioni, irrogate per la
repressione degli illeciti.
Inoltre, sembra a noi indispensabile dare il giusto risalto alla caratterizzazione che l’istituto in esame viene
ad assumere nell’ambito del sistema costituzionale vigente.
In particolare dall’articolo 53 cost. emerge molto inequivocabile il necessario collegamento fra imposta e
capacità contributiva.
Di conseguenza, le imposte costituiscono il nucleo fondamentale delle entrate definite contributive,
caratterizzandosi sul piano del diritto positivo, oltre che per la fonte di legittimazione, la sovranità, e per la
causa legis, funzione oggettiva di procacciare un’entrata, anche in ragione del titolo giustificativo del
prelievo, rappresentato dalla capacità contributiva.
In conclusione, l’imposta è quindi definibile come la prestazione che lo Stato ed altri enti pubblici sono in
grado di imporre al fine di procurarsi una entrata ed in forza della loro sovranità, rispettivamente originaria o
derivata, al di fuori di un nesso di corrispettività e giustificata in via esclusiva, sotto il profilo costituzionale,
dalla titolarità da parte del soggetto passivo di situazioni espressive della sua attitudine alla contribuzione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 5. Definizione di monopoli fiscali
Una situazione di monopolio può verificarsi anche per effetto di una norma di legge che vieti ai privati di
svolgere un’attività economica la quale, nel contempo, viene riservata in via esclusiva allo Stato o ad altro
ente pubblico.
All’interno di quest’ultima ipotesi suole distinguere tra monopoli di diritto e monopoli fiscali in funzione
delle diverse ragioni che inducono il legislatore a sottrarre una certa attività al libero gioco delle forze di
mercato: il monopolio di diritto è introdotto per fini di utilità generale concernenti beni e soprattutto servizi
che il legislatore reputa di particolare interesse pubblico; i monopoli fiscali rispondono all’esigenza di
procurare un’entrata tributaria.
Sotto il profilo della causa legis e del titolo giustificativo della prestazione, siamo in presenza di una vera e
propria imposta (di consumo), che si aggiunge al normale corrispettivo quale sarebbe stato ricavabile in
regime di libera concorrenza.
Si deve ricordare che l’articolo 43 cost. in sede di disciplina dei limiti apponibili all’iniziativa economica
privata, ammette l’istituzione di riserve monopolistiche a favore dello Stato o di altri enti pubblici soltanto
per fini di utilità generale e comunque in ipotesi tassative.
Vale a dire che la Costituzione repubblicana legittima unicamente i monopoli di diritto.
La soluzione corretta del problema è nel senso per cui il monopolio fiscale deve ritenersi legittimo solo
quando sia previsto nel contesto di una delle ipotesi di monopolio di diritto consentite dall’articolo 43 cost. ;
il che può avvenire quando quest’ultimo sia giustificato dall’esigenza di una precisa regolamentazione
dell’attività a salvaguardia di particolari interessi pubblici, talché non risulti illogico e contraddittorio che
nell’occasione sia stabilita a carico degli utenti una prestazione impositiva.
Inoltre, l’istituto in esame sembrerebbe in linea di principio in contrasto con le numerose disposizioni volte a
tutelare la libera concorrenza all’interno della Comunità Europea.
Orbene, alla luce dell’interpretazione data a tali disposizioni della Corte di Giustizia, l’esistenza o
l’istituzione di monopolio fiscale non sono di per sé in contrasto con l’ordinamento comunitario, purché, per
un verso, esse non comportino una discriminazione tra cittadini degli Stati membri, favorendo ad esempio i
prodotti nazionali rispetto a quelli importati; e, per l’altro, le deroghe alle regole della concorrenza siano
limitate a quelle indispensabili per procacciare una entrata fiscale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 6. La distinzione giuridica tra tasse e imposte
Il primo problema attiene all’identificazione dei tratti caratteristici della tassa che valgono a differenziarla
dall’imposta.
Nell’ambito della scienza delle finanze la distinzione fra l’imposta e la tassa viene operata in funzione della
diversa tipologia dei servizi, indivisibili o divisibili, che l’una e l’altra entrata sono rispettivamente destinate
a finanziare.
Come è accaduto per l’imposta, anche con riferimento alla tassa la dottrina tributaristica ha giustamente
cercato di enucleare gli elementi sui quali possa fondarsi tanto una definizione dell’istituto in esame in
termini giuridici, quanto in particolare la sua sede rispetto all’imposta.
Qualche autore ha ritenuto di poter assimilare la tassa all’onere; senonché, è dato obiettare che l’onere si
caratterizza, distinguendosi dall’obbligo, per il fatto che esso è previsto nell’interesse del medesimo soggetto
sul quale grava e, inoltre, risulta per sua natura incoercibile.
Più attenta considerazione merita la tesi la quale la ravvisa nella tassa una obbligazione ex lege, che lo Stato
può imporre in virtù della sua sovranità e che tuttavia si differenzia dall’imposta in quanto, mentre
quest’ultima si collega a fatti/indici di capacità contributiva, la tassa viene percepita dallo Stato in occasione
dell’espletamento di una attività concernente in modo specifico il soggetto obbligato al suo pagamento.
Vi è dunque, alla base di tale definizione, l’idea che la tassa si sostanzi in un’obbligazione pubblica
assimilabile all’imposta.
Storicamente, e sul piano giuridico, le ragioni dell’accostamento dei due istituti vanno a parer nostro
identificate nell’intenzione di estendere alle tasse la disciplina recata da norme riferitisi in modo generico
alle imposte dirette o indirette.
Tali ragioni sono, in larga parte, venute meno, vuoi perché alcune delle disposizioni sono state eliminate o
sono divenute anacronistiche; vuoi perché, ed il pensiero corre alla riserva di legge, si manifesta nell’attuale
assetto costituzionale una propensione sempre più decisa ad estendere l’ambito di operatività di tale riserva
in tema di prestazioni coattive, fino ad abbracciare non solo imposte e tasse ma addirittura anche alcuni
corrispettivi di diritto privato, e quindi prescindendo del tutto dalla natura tributaria dell’obbligazione che
grava sul singolo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 7. Le tasse collegate all’esercizio di pubbliche funzioni
Vengono in primo luogo in rilievo le prestazioni che si sogliono definire tasse e che sono percepite dall’ente
pubblico in occasione dell’espletamento di attività le quali si risolvono nell’esercizio di un potere e mettono
capo all’emanazione di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali.
In tutte queste ipotesi non v’è, né potrebbe esservi, reciproca interdipendenza genetica è funzionale tra
l’attività esplicativa del potere autoritativo e il pagamento della tassa; ma altrettanto indubbio che siffatta
attività è inoltre intrinsecamente insuscettibile di formare oggetto di un obbligo inserendosi in un rapporto a
prestazioni bilaterali.
Conseguenza e conferma di ciò è il fatto che la prestazione pecuniaria del privato trova la sua fonte non già
in un atto contrattuale bensì nella legge che la collega all’atto in cui si trasfonde l’esercizio del potere.
Ferme queste caratteristiche, risulta tuttavia innegabile la natura commutativa della tassa; natura la quale
non può stare a significare altro che la giustificazione della tassa va ravvisata nell’essere il soggetto sulla
quale essa grava lo specifico e singolo destinatario dell’attività espletata dall’ente pubblico nell’esercizio del
potere messo in moto da una richiesta o da un comportamento del soggetto medesimo.
In conclusione, la tassa è definibile come la prestazione che lo Stato o altri enti pubblici possono imporre al
fine di procurarsi un’entrata in stretta correlazione all’espletamento di funzioni pubbliche che riguardano
specificamente l’obbligato e nell’ambito di un rapporto (o se si preferisce, ad evitare equivoci, di una
situazione) di scambio di utilità.
L’imposta è una prestazione contributiva e non corrispettiva, chi ha il suo fondamento nella sovranità
originaria o derivata dell’ente pubblico e, sotto il profilo costituzionale, ritrae la sua legittimità al essere
collegata a fatti indici di capacità contributiva; mentre la tassa è una prestazione che si ispira al principio di
corrispettività, in ordine alla quale non rilevano né la sovranità, se non indirettamente essendone
emanazione la potestà pubblica in concreto esercitata, né la capacità contributiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 8. Le tasse dovute per l’erogazione di servizi pubblici
Un altro settore con riferimento al quale si rinvengono prestazioni qualificate come tasse è quello di alcuni
servizi erogati dallo Stato o da altri enti pubblici talvolta con carattere di esclusività.
Non può sfuggire la netta eterogeneità di siffatte prestazioni rispetto alle tasse che abbiamo analizzato nel
paragrafo precedente.
Qui, l’attività dell’ente pubblico non si compendia nell’esercizio di un potere autoritativo e discrezionale.
A maggior ragione in tali casi la prestazione definita tassa si differenzia dall’imposta; anche se nulla
impedisce al legislatore di tenere conto della capacità contributiva ma al solo fine di una diversa
quantificazione dell’entità della prestazione.
È innegabile che lo scenario cui ci si trova davanti è diverso.
In primo luogo, diventa non agevole ravvisare la fonte di detta prestazione nella legge anziché in un
rapporto contrattuale.
In secondo luogo, e in via di stretta interdipendenza, non si vede come in siffatte ipotesi possa escludersi che
le due prestazioni diano vita a un rapporto obbligatorio bilaterale, con tutti gli inevitabili corollari che ne
discendono.
Sembra che si possa utilmente richiamare quel che si è detto a proposito delle ragioni le quali hanno
comportato la propensione ad assimilare la tassa all’imposta.
Non resta dunque che prendere atto della realtà per cui, sotto il peso di una tradizione non più suffragata
dalle motivazioni che l’hanno ingenerata, alcune prestazioni del privato continuano ad essere denominate
tasse sebbene le medesime a rigore non siano sussumibili nell’ambito di siffatto istituto così come lo
abbiamo ricostruito alla stregua dei connotati caratterizzanti le prestazioni dovute all’ente pubblico in
occasione dell’esercizio da parte di esso di poteri autoritativi.
Tutt’al più, in un estremo sforzo di cogliere qualche elemento unificante, questo può essere indicato nel
complessivo e preminente rilievo pubblicistico del fenomeno in entrambi i casi, sia dal punto di vista della
disciplina giuridica che da quello della quantificazione dell’obbligazione.
Si deve peraltro notare che qualche segnale di mutamento proviene da alcune innovazioni legislative.
In particolare, l’articolo 49 d.lgs. 22/97, il quale ha stabilito la soppressione della tassa per lo smaltimento
dei rifiuti solidi urbani e ha previsto che i costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti suddetti siano
coperti dai Comuni mediante l’istituzione di una “tariffa”.
La diversa qualificazione delle prestazioni in esame sembra legittimare l’idea di una “privatizzazione” di
essa: nel senso che si è in concreto realizzato uno slittamento concettuale della prestazione medesima verso
una configurazione per l’appunto privatistico/commutativa, nella quale cioè l’obbligazione viene ad essere
collegata alla fruizione di un servizio reso dal Comune secondo uno schema sostanzialmente sinallagmatico.
Un ultimo chiarimento va dedicato alle prestazioni dovute dai privati a favore dell’ente pubblico in relazione
al godimento di beni di proprietà del medesimo ad essi attribuito; prestazioni normalmente definite canoni
per il loro carattere periodico.
Tali prestazioni vanno ricondotte ad una fonte di stampo contrattuale e sebbene a monte di esse vi sia
normalmente un atto autoritativo (il più delle volte una concessione) il cui piano resta peraltro distinto da
quello negoziale.
Va ricordato che anche con riferimento alle prestazioni in oggetto si è manifestata la tendenza legislativa che
abbiamo appena finito di segnalare.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 9. Contributi di natura tributaria: contributo integrativo di utenza
stradale
La distinzione sulla quale fare luce è quella fra contributi aventi natura tributaria e contributi che tale natura
non hanno.
Con riferimento ai contributi di natura tributaria, occorre inoltre darsi carico di verificare se essi si
differenziano o meno, e, in caso affermativo, sotto quale profilo, dalle altre categorie di entrate tributarie
costituite dalle imposte e dalle tasse.
È opportuno muovere dalle ipotesi classiche di contributi, per poi passare all’esame di alcune figure di
contributi di più recente istituzione:
il contributo integrativo di utenza stradale risultava previsto a carico dei soggetti che, in dipendenza
dell’esercizio di un’industria o di un commercio, cagionavano, col transito dei veicoli, un eccezionale
logorio nelle strade.
Alla stregua dei correnti criteri di classificazione, in questo caso ci si trovava senz’altro di fronte ad una
tassa, stante la presenza di un rapporto di scambio (commutativo) tra l’entrata e il godimento da parte del
singolo di un determinato servizio (uso aggravato delle strade comunali); e più precisamente di una
prestazione ascrivibile alla seconda categoria di tasse innanzi enucleate.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 10. Contributi di natura tributaria: contributo di miglioria specifica
e generica
Veniamo al contributo di miglioria specifica ed a quello di miglioria generica.
Il primo prevedeva a carico dei titolari di beni contigui ad un’opera di pubblica utilità in grado di
determinarne un aumento di valore, l’obbligo di contribuire all’esecuzione della stessa.
Il secondo risulta accolto a coprire l’incremento di valore delle aree fabbricabili da attribuirsi all’espansione
dell’abitato e al complesso delle opere pubbliche eseguite dal Comune.
Sembra a noi che, per fare maggiore chiarezza con riferimento all’entrata in oggetto, sia di notevole ausilio
la rilevanza attribuita alla causa legale e di riflesso al titolo giustificativo in relazione alla classificazione
delle entrate pubbliche in generale, ed in specie in punto di distinzione fra imposta e tassa.
Il discrimine, costituito sotto il profilo in questione dalla natura puramente contributiva della prestazione e
dal suo aggancio alla capacità contributiva (imposta), oppure dalla natura commutativa della prestazione
medesima fondata sulla sussistenza di un rapporto di scambio di utilità fra l’ente pubblico e il singolo quale
specifico ancorché non esclusivo destinatario dell’attività svolta dal primo (tassa), induce a ritenere che nei
casi qui considerati si fosse in presenza di una vera e propria imposta.
Infatti, con riguardo ad entrambi i contributi di cui trattasi, da un lato non era sicuramente configurabile un
rapporto di scambio proprio perché l’attività dell’ente pubblico era e restava indiscriminatamente indirizzata
alla generalità indifferenziata dei consociati; dall’altro, il presupposto di tali contributi era costituito in realtà
dall’aumento di valore del bene, vale a dire consisteva in un fatto espressivo di forza economica idonea a
fornire i mezzi con i quali far fronte alla prestazione medesima.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 11. Contributi di natura tributaria: contributo per il Servizio
Sanitario Nazionale
Il soppresso contributo dovuto per il servizio sanitario nazionale, comunemente definito tassa sulla salute,
che colpiva il reddito delle persone prescindendo totalmente, sia nell’an che nel quantum, dalla effettiva
fruizione ed anche dalla astratta fruibilità dei servizi sanitari: contributo che, dunque, presentava allo stato
una accentuata configurazione in termini di imposta o di sovraimposta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 12. Contributi di natura tributaria: contributo di urbanizzazione
Il contributo di urbanizzazione introdotto dalla legge Bucalossi 10/77, dovuto nel momento dell’edificazione
e commisurato in parte alle spese di urbanizzazione sostenute dall’ente pubblico e in parte al costo di
costruzione.
Al riguardo, si sono manifestate le opinioni più disparate, tese talvolta a dare alla prestazione una
qualificazione unitaria, nonostante la duplicità dei parametri assunti per la sua determinazione quantitativa,
ed altre volte invece ad addivenire ad una qualificazione separata delle due componenti.
In conclusione, l’analisi dell’esperienza legislativa, condotta con riguardo ad un periodo di tempo
sufficientemente lungo, rivela indiscutibilmente che le prestazioni per un verso definite contributi, in
considerazione della peculiarità di uno o più degli elementi delle loro fattispecie costitutive, e per l’altro
ritenute riconducibili al novero delle prestazioni tributarie non danno vita ad un’autonoma categoria di
entrate, esse risolvendosi in un’imposta oppure in una tassa; e ciò ove si adotti in particolare il criterio
distintivo e classificatorio del titolo della prestazione stessa e quindi della natura contributiva o corrispettiva
di quest’ultima.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 13. Contributi non aventi natura tributaria: il fenomeno della
parafiscalità
Maggiore diffusione ed attualità presentano i contributi non aventi natura tributaria; contributi che sono tutti
quelli non riconducibili alle categorie delle imposte e delle tasse alla stregua del criterio classificatorio da
noi accolto.
Cade qui opportuno un rapido cenno al fenomeno cosiddetto della parafiscalità: essa serve a denotare
quell’area delle prestazioni obbligatorie che si correla con finalità proprie di alcune categorie di soggetti; più
precisamente, l’area allo stato identificabile con la parafiscalità può individuarsi nei contributi previdenziali
o assistenziali che i privati sono tenuti, in forza di norme di legge, a versare ad enti pubblici non territoriali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 14. Valore della categoria delle entrate tributarie
Dopo avere esaminato le varie molteplici prestazioni che sogliono ricondursi all’unitaria categoria delle
entrate tributarie, merita valutare l’opportunità o meno di mantenere in vita quest’ultima.
Ricordato che alla fine, la contrapposizione che rileva sotto il profilo qui specificamente considerato si
riduce nella sostanza a quella tra imposta e tassa, non dovrebbe meravigliare più di tanto il nostro fermo
convincimento è che la categoria in questione non si giustifica ed è anzi suscettibile di risultare fuorviante.
Invero, una volta ha posto l’accento non solo sulla causa ma anche e soprattutto sul titolo giustificativo delle
prestazioni che danno vita alle varie tipologie di entrate, la distinzione tra imposta e tassa si appalesa netta,
sicché viene a mancare qualsiasi possibilità di un accostamento dei due istituti.
In conclusione, conviene abbandonare la omnicomprensiva e tradizionale categoria delle entrate tributarie di
cui ci stiamo occupando e provvedere invece ad appropriate aggregazioni intorno alle due figure
dell’imposta e della tassa; per poi verificare la possibilità di far confluire entrambe, eventualmente insieme
ad altre prestazioni variamente denominate, nella più ampia categoria delle prestazioni coattive enucleata
dall’articolo 23 cost.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 15. Precetti costituzionali in materia tributaria: l'articolo 23 cost.
Cominciano ad occuparsi dei precetti costituzionali concernenti la materia tributaria, viene in primo luogo in
considerazione l’articolo 23 cost. in base al quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere
imposta se non in base alla legge”.
Al riguardo, giova preliminarmente soffermare l’attenzione sulla ratio della riserva di legge in questione,
avendo cura di cogliere il processo che ne ha accompagnato la nascita e lo svolgimento storico.
Invero, nel periodo dello Stato assoluto il sovrano poteva imporre qualsivoglia tributo, né era tenuto a dar
conto del modo in cui riteneva di impiegare le entrate derivanti da siffatte prestazioni.
È proprio per circoscrivere tale duplice e indiscriminato potere che sorsero i primi parlamenti, composti dai
rappresentanti delle classi sociali sulle quali venivano a gravare prestazioni tributarie.
In tale contesto, dunque, la riserva di legge in tema di prestazioni coattive fu concepita come strumento atto
a riequilibrare l’assetto dei poteri politici è finalizzato in specie alla garanzia dell’integrità patrimoniale dei
singoli nei confronti dell’arbitrio del sovrano.
Se ora si prova esaminare l’istituto della riserva di legge nell’ambito di un ordinamento come il nostro, è
agevole percepire la mutata fisionomia e latitudine assunta dalla funzione garantista svolta dalla medesima
riserva.
Venuta meno la contrapposizione tra sovrano e sudditi, la garanzia non investe più soltanto la tutela
dell’interesse individuale del singolo ma altresì quella di interessi generali e pubblici: ciò sia perché la legge
è frutto di un articolato procedimento e quindi di una maggiore ponderazione delle contrapposte esigenze,
sia perché alla formazione della stessa legge partecipano anche i rappresentanti delle minoranze
parlamentari, che viceversa non sono presenti nel governo, sia ancora perché controllo di legittimità
costituzionale e delle leggi è effettuato da un organo quale la Corte Costituzionale.
In conclusione, la riserva di legge operante nel nostro campo oggi vista non più come diritto
all’autoimposizione bensì quale rafforzamento del principio di legalità.
Va chiarito che, quando si parla di legge, ci si riferisce non soltanto alla legge ordinaria ma anche agli atti
che hanno il medesimo rango, ossia al decreto legge e al decreto legislativo, ancorché l’uno e l’altro
promanino dal governo.
Tale giustificazione è stata criticata dagli autori che interpretano l’articolo 23 cost. come norma di
ripartizione delle competenze fra organi costituzionali.
È in questa logica che si inserisce la disposizione dello Statuto dei diritti del contribuente il quale pone il
divieto di utilizzo del decreto legge per l’istituzione di nuovi tributi e l’estensione di tributi a nuovi soggetti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 16. Definizione di prestazioni patrimoniali imposte
Quanto all’identificazione dell’ambito oggettivo, ricordiamo che l’articolo 23 cost. fa riferimento alle
“prestazioni” (patrimoniali) che siano da ritenere “imposte” e quindi aventi carattere coattivo.
Con riferimento al primo di questi elementi si è sostenuto che le prestazioni sarebbero soltanto quelle che si
risolvono in una decurtazione o diminuzione patrimoniale, senza che il relativo sacrificio economico trovi
ristoro nell’attribuzione di corrispondenti utilità o vantaggi.
La tesi non merita di essere accolta: essa è innanzitutto smentita sul piano letterale, dal momento che
l’articolo 23 cost. parla semplicemente di “prestazione”, che nel linguaggio giuridico corrente sta a denotare
l’oggetto di una qualsiasi obbligazione.
Occorre delimitare il novero delle prestazioni rientranti nella previsione dell’articolo 23 cost.; si tratta in
particolare:
a. delle sanzioni penali a contenuto pecuniario;
b. delle prestazioni a contenuto negativo, che si traducono in altrettante limitazioni all’iniziativa economica
privata;
c. delle espropriazioni per pubblica utilità.
E veniamo alla coattività.
Non v’è dubbio che questa sussista tutte le volte che la fonte e la disciplina della prestazione risalgano ad un
atto autoritativo, sia esso una legge o un atto soggettivamente di provenienza dell’amministrazione, alla cui
formazione resti comunque per definizione estraneo il concorso della volontà del soggetto sul quale grava la
prestazione stessa.
Ciò, peraltro, non significa affatto che non possano essere mai considerate coattive le prestazioni che trovino
una fonte genetica in un atto negoziale: infatti, secondo la Corte Costituzionale, la coattività ricorre pur
quando si sia in presenza di una fonte negoziale, e tuttavia ad essa si accompagni la disciplina autoritativa
della prestazione quanto meno sotto il profilo della sua determinazione quantitativa.
In conclusione, è dato affermare che l’articolo 23 cost. abbraccia tutte le prestazioni tributarie nel significato
lato che la dottrina suole ad esse attribuire, e cioè comprensivo non solo delle imposte ma anche delle tasse.
Dalla indagine compiuta emerge inoltre che la categoria delle prestazioni imposte cui si estende la riserva di
legge è più ampia di quella delle suddette prestazioni tributarie, per quanto le medesime costituiscano
certamente il nucleo principale.
Nessuna identificazione è possibile dunque fra le une e le altre: posto che nell’ambito delle prime rientrano
anche le prestazioni le quali sicuramente tributarie non sono, ed in specie anche veri e propri corrispettivi di
diritto privato, ogni qual volta nei loro confronti sia ravvisabile il carattere della coattività.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 17. La sfera di operatività della riserva di legge per l'articolo 23
cost.
Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la previsione dell’articolo 23 cost. non è applicabile
alle norme comunitarie, che sono emanazione di una autonoma fonte di produzione, propria di un
ordinamento distinto da quello interno; inoltre, la riserva di cui all’articolo in questione non può essere
intesa come riferibile alla sola legge/fonte statale ma anche alla legge/fonte regionale, in quanto altrimenti si
escluderebbe la potestà regionale in materia tributaria che altre norme costituzionali attribuiscono.
Esprimiamo peraltro l’avviso che la corretta impostazione del problema in esame non possa non valorizzare
in modo decisivo il dato per cui fra le attribuzioni devolute agli ordinamenti collegati o derivati rientra anche
la disciplina della materia coperta dalla riserva di legge; e ciò è tanto più vero se si allarga l’orizzonte fino a
valutare il fenomeno con riguardo agli enti locali minori (comuni e province), nel cui ordinamento non è
dato rinvenire una fonte denominata legge.
Infatti, in tali casi la riserva cessa necessariamente di operare ad essa subentrando, per l’appunto, il principio
di competenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 18. La natura relativa della riserva di legge posta dall’articolo 23
cost
Il secondo problema da affrontare concerne la natura della riserva di legge posta dall’articolo 23 cost.
I tasselli del quadro complessivo sono i seguenti:
1. la riserva sancita dall’articolo 23 cost. non è assoluta bensì relativa: ciò viene comunemente desunto sia
dalla genesi ed evoluzione storica dell’istituto che dalla formulazione della norma, la quale richiede che la
prestazione sia imposta “in base alla legge”, e, quindi, non direttamente ed esclusivamente ad opera della
legge;
2. da tale caratteristica discende che la legge deve provvedere alla disciplina diretta soltanto degli elementi
essenziali della fattispecie che concorrono a identificare la prestazione, potendo viceversa rimettere a fondi
diverse e subordinate, promananti dall’esecutivo o da organi di enti locali, la regolamentazione degli
elementi non essenziali o secondari di quest’ultima, salvo a fissare criteri e principi direttivi atti a orientare,
delimitare e controllare in modo adeguato le determinazioni discrezionali adottabili in sede di
completamento della disciplina;
3. concentrando l’attenzione sulla prestazione impositiva, gli elementi essenziali di essa sono costituiti dal
soggetto passivo, dal presupposto e dalla individuazione e delimitazione della base di commisurazione del
tributo (base imponibile); mentre si ritiene che siano suscettibili di integrazione mediante fonte diversa dalla
legge tanto la disciplina della aliquota o tasso quanto quella delle procedure di accertamento o riscossione.
Senza alcuna pretesa di rimettere in discussione questi dati, che si impongono all’interprete come diritto
vivente, non del tutto convincente si appalesa la distinzione tra elementi essenziali e quelli che tali non
sarebbero poiché attinenti, tra l’altro ed in specie, alla mera determinazione quantitativa della prestazione:
invero, l’esigenza di tutela insita nella garanzia apprestata dall’articolo 23 cost. si pone, oltre che con
riferimento al profilo genetico (all’esistenza) della prestazione medesima a carico di determinati soggetti,
altresì con riguardo alla sua entità.
Non solo, ma anche la stessa distinzione ora considerata non in trova fedele riscontro nella realtà normativa.
Siffatti rilievi rendono quindi opportuna qualche puntualizzazione: orbene, se si accetta la premessa della
funzione garantista dell’articolo 23 cost. va chiarito innanzitutto che alla riserva di legge in tema di
prestazioni patrimoniali coattive soggiacciono soltanto le norme impositive in senso stretto, e cioè quelle che
regolano l’an e il quantum della prestazione, mentre ne restano sicuramente escluse:
a. le norme che ridondano a vantaggio del contribuente, in quanto riconoscono ad organi del potere
esecutivo la facoltà di accordare benefici, esenzioni, agevolazioni e simili;
b. le norme in tema di accertamento e di riscossione, le quali investono la fase di attuazione della
prestazione.
Inoltre, la Corte Costituzionale, con riguardo alla determinazione della aliquota ritenuta elemento non
essenziale della fattispecie impositiva e suscettibile pertanto di integrazione ad opera di atti diversi dalla
legge o equiparati, ha individuato una pluralità di strumenti idonei a circoscrivere il potere discrezionale
(l’arbitrio) dell’esecutivo e ad assicurare pertanto il rispetto della norma costituzionale in esame.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 19. Il principio di capacità contributiva (articolo 531 cost.)
Notevole importanza riveste, nella nostra materia, anche il più volte richiamato articolo 53 cost., il quale
stabilisce testualmente al primo comma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva”; e, al secondo comma, che “il sistema tributario è informato a criteri di
progressività”.
La disposizione ha destato notevoli dubbi e contrasti interpretativi.
Ne è conferma la sua iniziale catalogazione fra le norme programmatiche anziché immediatamente
precettive, sulla scorta di una distinzione elaborata dalla dottrina anche a motivo delle difficoltà applicative
presentate da alcuni precetti costituzionali nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento.
Come è noto, detta distinzione è stata via via sempre più abbandonata, nella consapevolezza che tutte le
disposizioni costituzionali posseggono in realtà l’attitudine a creare effetti giuridici diretti.
Peraltro, il riconoscimento dell’efficacia precettiva come propria anche della disposizione contenuta nel
primo comma dell’articolo 53 cost. non ha eliminato il persistere delle divergenze e incertezze in ordine al
concreto significato da assegnare al concetto di capacità contributiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 20. Le principali tesi sul principio di capacità contributiva
Le principali tesi sul principio di capacità contributiva
Sussiste il proliferare di tesi diverse:
1. un primo indirizzo ha attribuito alla nozione in esame un contenuto assai riduttivo, in essa ravvisando la
mera proiezione e specificazione sul piano impositivo del principio di ragionevolezza immanente all’articolo
3 cost.; talché l’articolo 53 cost. non determinerebbe per il legislatore alcun vincolo se non sotto il profilo
del divieto della arbitrarietà in punto di scelte.
A tale indirizzo si è uniformata la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale;
2. un’altra corrente di pensiero, influenzata da concezioni vicine alla scienza delle finanze, ha identificato la
capacità contributiva nel godimento dei servizi indivisibili, salvo a riconoscere che gli unici strumenti di
rilevazione e di misurazione di quest’ultimo sono rappresentati dalle molteplici manifestazioni di ricchezza
del contribuente;
3. ulteriore e più proficuo contributo alla puntualizzazione del concetto di capacità contributiva è venuto da
quella parte della dottrina che ha in essa individuato il fondamento costituzionale (e quindi il legittimo titolo
giustificativo) del potere di imposizione, ossia l’indefettibile presupposto al quale deve risultare collegato il
prelievo, e, conseguentemente, il limite oltre che il passaggio necessario del medesimo.
In via di maggior approfondimento del concetto in questione, tale dottrina, nel mentre ha posto l’accento sul
dato per cui il substrato materiale della capacità contributiva è immancabilmente costituito da una forza
economica, ha tuttavia espresso l’avviso che la prima non si identifichi integralmente con la seconda ma si
caratterizzi per la presenza di specifici connotati desunti dal contesto del nostro sistema costituzionale, e
idonei ad attribuire alla capacità o forza economica un profilo di particolare qualificazione.
Vi è chi ha ritenuto che siffatta qualificazione derivi dal necessario coordinamento dell’articolo 53 cost. con
il principio concretantesi nella tutela accordata all’iniziativa economica privata in punto di limiti al potere
pubblico di espropriazione dei beni privati.
Più precisamente si è sostenuto che il prelievo tributario deve essere disciplinato in modo tale da non
incidere sulle fonti di produzione di ricchezza, e quindi da non intaccare la consistenza originaria dei relativi
cespiti.
Altri, hanno criticato la dottrina sopra ricordata perché essa si è collocata in un ottica prevalentemente se
non esclusivamente garantista.
Invero, si è rilevato che il concetto di capacità contributiva deve essere posto in stretto collegamento con il
principio di solidarietà, assurgendo a strumento per la sua applicazione in campo tributario.
Da questa impostazione si è fatto coerentemente di scindere un duplice e concatenato ordine di conseguenze.
Il primo attiene alla necessità di identificare la capacità contributiva e non in una mera e qualsivoglia forza
economica, richiedendosi invece e addirittura che debba essere assoggettata a tassazione la ricchezza
complessiva del soggetto sul quale viene ad appuntarsi il dovere di concorrere alle spese pubbliche.
Il secondo ordine di conseguenze è che il collegamento del principio di capacità contributiva con gli altri
precetti della Costituzione postulerebbe la necessità di escludere dal prelievo tutte quelle situazioni che, pur
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA essendo espressione di forza economica, risultino tuttavia oggetto di tutela e garanzia ad opera di singole
norme costituzionali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 21. Critiche alle tesi sul principio di capacità contributiva
Innanzitutto, quando si afferma che l’unico effettivo limite al potere impositivo sarebbe costituito dalla
necessità che nelle sue scelte il legislatore non travalichi il principio di ragionevolezza, si finisce per
svuotare di ogni sostanziale contenuto l’articolo 53 cost., poiché il rispetto di tale principio discende già dal
contenuto precettivo dell’articolo 3 cost.
Quanto poi al concetto di capacità contributiva posto in stretto collegamento con gli indici rivelatori del
godimento di servizi pubblici, se è vero che è irrilevante la finalizzazione delle entrate impositive alla
copertura delle spese da sostenere per una particolare categoria di servizi, quelli indivisibili, non può non
essere altrettanto irrilevante l’eventuale godimento dei servizi medesimi che si accompagni alla titolarità dei
fatti espressivi di quella forza economica costituente il nucleo essenziale, per generale convincimento, della
capacità contributiva.
Si aggiunga che la gamma dei principali tributi del nostro ordinamento tributario tende a colpire fatti o
situazioni che, nel mentre sono rivelatori di una forza economica, non lasciano alcun modo dedurre un
collegamento di quest’ultima con l’utilizzazione di questo o quel servizio.
Maggior credito meritano le altre tesi che si mostrano sensibili all’inquadramento della disposizione in
esame nel più ampio panorama delle norme costituzionali.
Sennonché si trascura che l’articolo 53 cost., collocato nell’ambito della disciplina dei rapporti politici,
costituisce altresì concreta estrinsecazione nella nostra materia della norma cardine sancita dall’articolo 2
cost., la quale chiama i membri della collettività all’adempimento “dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”; talché la tutela dell’iniziativa economica privata si scontra inevitabilmente
con l’attuazione di siffatti doveri di solidarietà mediante il prelievo tributario.
Invero, niente autorizza a trasformare in limiti interni quelli che sono viceversa limiti esterni al potere
impositivo, i quali, lungi dal concorrere a identificare il concetto di capacità contributiva, costituiscono
vincoli a sé stanti con i quale sicuramente viene a interferire l’azione del legislatore volta a soddisfare le
esigenze sottese all’articolo 53 cost.
Pertanto, la scelta in ordine alle manifestazioni di capacità contributiva da assoggettare al prelievo resta
rimessa al legislatore, fermi i limiti, che sono appunto limiti esterni all’articolo 53 cost., frapposti dalla
necessità di attenersi a criteri di razionalità e di darsi carico del rispetto e del perseguimento anche delle
predette ulteriori esigenze oggetto pure esse di tutela e garanzia costituzionali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 22. Il concetto giuridico di capacità contributiva e i suoi profili
essenziali
Nel definire la capacità contributiva in termini propriamente giuridici, non ci si può riferire ad una mera
capacità economica, bensì a quella soltanto suscettibile di (ossia astrattamente idonea a) fornire al soggetto
gravato dalla prestazione impositiva i mezzi finanziari occorrenti per l’assolvimento della stessa.
Tale essendo la nozione di capacità contributiva ne derivano i seguenti corollari:
1. il presupposto e la base imponibile devono essere fatti o entità che hanno una precisa ed inequivocabile
valenza economica.
Di più, e in special modo per quanto riguarda il presupposto, occorre che lo stesso possieda, sotto il profilo
che qui interessa, i requisiti dell’attualità e della effettività.
Il primo induce ad escludere che l’imposizione tributaria possa legittimamente colpire situazioni le quali,
sebbene economicamente valutabili, non siano tuttavia più in grado, a causa della loro collocazione
temporale in un’epoca troppo risalente nel tempo rispetto al momento genetico della prestazione tributaria,
di assicurare al soggetto passivo o le risorse con le quali adempiere l’obbligazione posta a suo carico.
Analoga considerazione milita contro la possibilità di una riscossione del tributo eccessivamente anticipata
rispetto alla formazione del presupposto.
Il secondo requisito non consente di ancorare il presupposto a presunzioni di carattere non relativo bensì
assoluto: qui la violazione del principio di capacità contributiva discende dal fatto che l’esistenza di
quest’ultima viene ad essere in tali casi induttivamente desunta senza possibilità di prova contraria in virtù
dell’incidenza di ordine sostanziale sulla conformazione della fattispecie impositiva operata da presunzioni
di tal genere.
Il profilo dell’effettività riguarda altresì la base imponibile, dovendosi fare in modo che nella stessa rientrino
elementi i quali trovino comprovato riscontro nella realtà; e dovendosi evitare il ricorso a metodi o criteri di
determinazione dell’imponibile miranti a colpire l’entità del pari non esistenti in concreto giacché elaborati
in termini astratti e forfettari, salvo che siffatti metodi o criteri si risolvono in un trattamento non
penalizzante per il contribuente;
2. le risorse economiche che non rilevano attitudine alla contribuzione, perché le medesime non sono
destinabili all’adempimento della prestazione impositiva siccome indispensabili per il soddisfacimento dei
bisogni fondamentali del soggetto passivo, non possono essere assoggettate ad imposizione: è il caso del
cosiddetto minimo vitale;
3. il limite della capacità contributiva operante rispetto all’entità della prestazione impositiva essenzialmente
in funzione dell’aliquota applicabile, e non soltanto nel senso che quest’ultima non deve raggiungere livelli
così elevati da trasfigurare il fenomeno impositivo giungendo a sfogliare del tutto o quasi il contribuente
della forza economica colpita dal tributo; e neppure in quello per cui l’aliquota medesima, nel contesto della
complessiva disciplina di ciascun tributo, non deve intaccare il minimo vitale.
L’ulteriore esigenza che intendiamo evidenziare attiene invece alla valutazione della singola prestazione
impositiva nell’ambito del sistema tributario, essendo possibile ravvisare una violazione del principio di
capacità contributiva tutte le volte che il medesimo fatto economico risulti assoggettato ad una pluralità di
tributi;
4. da ultimo, l’individuazione del soggetto passivo del tributo resta circoscritta a coloro che, avendo la
titolarità giuridica delle fonti di ricchezza assoggettate al prelievo, possono disporne in vista del concreto
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA adempimento della prestazione impositiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 23. Capacità contributiva e inflazione
Particolare considerazione merita il tema dell’inflazione monetaria nella sua incidenza sulla problematica
suscitata dal rispetto del principio di capacità contributiva.
Occorre al riguardo distinguere un duplice profilo.
Il primo concerne il cosiddetto fiscal drag, o drenaggio fiscale, che si verifica essenzialmente in ordine ai
tributi sul reddito e comunque in presenza di aliquote progressive: ciò in quanto la progressività determina
un aggravio del prelievo a motivo dell’inserimento dell’imponibile negli scaglioni più elevati, dovuto al
lievitare del medesimo ancorché in via soltanto nominale e non reale, per effetto appunto della svalutazione
monetaria.
In presenza di inflazione è in linea di principio rimesso alla discrezionalità del legislatore di intervenire per
correggere un simile effetto distorsivo, sia abbassando le aliquote o riducendo il numero degli scaglioni, sia
aumentando le detrazioni dall’imposta e le deduzioni dall’imponibile.
Fermo ciò, tuttavia, non sembra potersi dubitare che, sotto il versante qui considerato, possano venire in
considerazione i limiti che discendono dall’articolo 53 cost. nei termini in precedenza delineati: più
precisamente la violazione del principio di capacità contributiva può profilarsi tutte le volte che la maggiore
incidenza del prelievo a causa dell’inflazione e la correlata sopravvenuta inadeguatezza delle deduzioni e
detrazioni vengano ad intaccare il cosiddetto minimo vitale; oppure può emergere quale riflesso del
diminuito potere di acquisto della moneta, suscettibile di rendere l’applicazione delle aliquote marginali più
elevate particolarmente esorbitante e gravosa, al punto da attribuire al fenomeno impositivo o una
connotazione para-espropriativa ed eventualmente in modo da contrarre in termini di marcata irrisorietà la
parte di ricchezza disponibile dopo il prelievo.
A conclusioni non diverse si perviene per quei particolari componenti della base imponibile reddituale che
sono le plusvalenze, costituite dall’incremento di valore dei beni tanto dell’impresa quanto di soggetti non
imprenditori.
Anche qui, l’inflazione provoca alla fine un maggior prelievo in quanto determina l’incremento della base
imponibile con le conseguenze appena segnalate.
Il secondo profilo concerne in modo precipuo quelle imposte tese a colpire il plusvalore acquisito dai titolari
di determinati beni, in specie immobili, per cause dipendenti non dall’attività dei medesimi ma, per converso
e di solito, dall’intervento di enti pubblici preposti alla cura di determinati interessi della collettività;
plusvalore che, in presenza dell’inflazione, è naturalmente destinato ad aumentare ove non si aggiorni con
gli indici di svalutazione il valore iniziale del bene predetto, dal cui confronto con il valore cosiddetto finale
scaturisce la base imponibile da assoggettare al tributo.
Sembra a noi che in tale ipotesi il rispetto dell’articolo 53 cost. si ponga con riferimento alla sussistenza del
presupposto e della base imponibile: dovendosi ritenere che nei casi in esame l’assoggettamento al tributo di
un incremento di valore solo apparente equivalga a colpire una manifestazione di capacità contributiva
inesistente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 24. Il diritto dello Stato-comunità alla percezione dei tributi ed
l'interesse fiscale
Giova da ultimo evidenziare a chiare lettere ciò che finora si è dato per scontato; e cioè che l’articolo 53
cost. non si risolve nell’apposizione del limite consistente nel necessario aggancio delle prestazioni coattive
tributarie costituite dalle imposte ad una manifestazione di capacità contributiva, ma riconosce e fonda,
ancor prima, il diritto del medesimo Stato-comunità alla percezione delle imposte.
Proprio in stretta correlazione con il riconoscimento ad opera della norma in esame dell’esistenza del diritto
in questione, si è pervenuti, soprattutto nell’ambito della giurisprudenza della Corte Costituzionale,
all’enucleazione ed alla valorizzazione del cosiddetto “interesse fiscale”.
In particolare i giudici costituzionali, prendendo atto dell’esigenza dell’Erario ad un sicuro e sollecito
pagamento dei tributi, hanno individuato un punto di riferimento per valutare la legittimità o meno di
disposizioni tributarie volte ad accentuare le garanzie di riscossione a favore dell’amministrazione.
Il richiamo all’interesse fiscale è stato operato per affermare la congruità e la conseguente compatibilità
sotto il profilo costituzionale delle norme sulla riscossione coattiva dei tributi senza il preventivo
accertamento della legittimità e fondatezza degli atti impositivi; sugli acconti di imposta purché permanga la
fonte produttiva della ricchezza imponibile; nonché sulla sostituzione di imposta, riconoscendosi la
funzionalità di tali disposizioni rispetto all’obiettivo di garantire l’esazione tempestiva dei tributi onde
consentire il regolare svolgimento dei compiti istituzionali dello Stato.
Per contro, la Corte Costituzionale ha emanato pronunce di illegittimità con riferimento a regole preordinate
alla tutela dell’interesse suddetto, le quali tuttavia confliggevano così fortemente con altri diritti di rango
costituzionale da condurre al risultato della loro vanificazione; in ispecie, alcuni istituti di natura processuale
che, attribuendo una posizione privilegiata all’amministrazione finanziaria, si ponevano in insanabile
contrasto con fondamentali esigenze di giustizia del contribuente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 25. Il principio di progressività nel diritto tributario: l'articolo 532
cost.
La norma ribadisce ed accentua l’impronta solidaristica cui risulta ispirato il dovere di concorrere alle spese
pubbliche sulla scorta della capacità contributiva, e nel contempo tende a realizzare nella nostra materia quel
principio di uguaglianza sostanziale consacrato dall’articolo 3 cost.
Se è vero che il sistema nel suo complesso deve informarsi a criteri di progressività, sembra inevitabile
ritenere che ciò imponga al legislatore di istituire con simili caratteristiche uno o più tributi che, per la
latitudine del presupposto e correlativamente per la rilevanza del gettito, si configurino come principali e
caratterizzanti nell’ambito del sistema di cui trattasi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 26. Norme costituzionali rilevanti in materia tributaria: articolo 75
e articolo 81
Vanno ricordate altre due norme costituzionali che interessano la nostra materia:
a. la prima è contenuta nell’articolo 75 cost., il quale esclude il referendum popolare abrogativo in ordine
alle leggi tributarie;
b. la seconda norma si rinviene nell’articolo 81 cost., a tenore del quale con la legge di approvazione del
bilancio non si possono stabilire nuovi tributi: divieto, questo, che per pacifica interpretazione si estende
anche alla modifica di elementi (in specie, le aliquote) della fattispecie di tributi già esistenti, da cui derivi
un inasprimento della prestazione impositiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 27. Il principio di fissità nel diritto tributario
La legge 212/2000, con la quale stato varato il cosiddetto Statuto dei diritti del contribuente, contiene tre
categorie di disposizioni:
a. norme che pongono limitazioni al futuro legislatore;
b. obblighi che fanno carico all’amministrazione finanziaria;
c. diritti e garanzie che vengono riconosciuti al contribuente.
Mentre l’esame della seconda e della terza categoria di norme sarà effettuato in sede di trattazione degli
specifici argomenti ai quali esse si riferiscono, conviene in questa sede soffermare l’attenzione sulla prima
categoria.
In via preliminare, va affrontato il problema del valore da riconoscersi a tali norme contenute in una legge
ordinaria laddove ed in quanto pongono limitazioni e vincoli per il futuro legislatore.
La dottrina maggioritaria si è nettamente schierata per la tesi svalutativa.
Ad essa si può muovere una critica di non poco conto, consistente nel mancato risalto dato al collegamento
delle predette disposizioni con una serie di norme costituzionali: le prescrizioni dello statuto rappresentano,
per espresso ed autorevole riconoscimento del legislatore ordinario, il necessario ed equilibrato
contemperamento delle contrapposte esigenze di rango costituzionale che si fronteggiano in materia
tributaria.
Val quanto dire che siffatte statuizioni non sono prive di valore giuridico, ancorché questo si manifesti non
già sul piano di una superiore efficacia delle norme statutarie; bensì sul diverso terreno della validità sotto il
profilo della legittimità costituzionale delle norme successive e difformi, in quanto suscettibili di alterare il
contemperamento di cui sopra.
Alla luce di tali precisazioni si può passare ad apprezzare la portata del principio di fissità, in forza del quale
le disposizioni della legge 212/2000 possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi
speciali.
La questione di ammissibilità nel nostro ordinamento di simili norme è stata ampiamente dibattuta e ad essa
è stata prevalentemente data soluzione negativa, basata, oltre che sulle argomentazioni rivolte a contrastare
il fenomeno delle leggi rinforzate, anche su quella dell’inesauribilità della funzione legislativa.
Senza indugiare sul punto più di tanto, riteniamo di poter utilizzare le considerazioni svolte in termini
generali in ordine alla normativa recata dallo statuto: se è vero, infatti, che tale disciplina segna il punto di
equilibrio tra interesse fiscale ed interesse del contribuente entrambi muniti di garanzia costituzionale, si può
senz’altro affermare che l’abrogazione tacita o implicita della suddetta normativa e quella ad opera di leggi
speciali si pongono in contrasto con i principi di ragionevolezza e di affidamento del singolo consacrati
negli artt. 3 e 97 cost.; ciò sul presupposto che solo un’esplicita disposizione, collocata nel contesto di una
nuova legge generale, possa rimodellare quell’equilibrio senza spezzarlo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 28. I limiti di efficacia temporale delle norme tributarie
Ulteriori limiti in tema di produzione delle norme tributarie sono posti dagli artt. 12 e 3 legge 212/2000.
Il primo prevede che l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta solo in casi
eccezionali e con legge ordinaria.
Il secondo reca ben quattro prescrizioni:
- salvo quanto previsto dall’articolo 1, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo;
- relativamente ai tributi periodici, le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono;
- in ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui
scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla loro entrata in vigore o dalla adozione del
provvedimento di attuazione in esse espressamente previsto;
- i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati.
Secondo l’opinione corrente, il principio di irretroattività, essendo posto dall’articolo 1 prelegge c.c. e
quindi da una legge ordinaria, è suscettibile di deroghe da parte dello stesso legislatore ordinario.
Fermo ciò, dottrina e giurisprudenza hanno tuttavia concordemente enucleato uno specifico limite alla
retroattività delle norme impositive: rispetto alle quali la retrodatazione degli effetti o la rilevanza retroattiva
del fatto non può farsi risalire così all’indietro, pena la violazione dell’articolo 53 cost.
Una siffatta enunciazione di principio finisce per lasciare margini di assoluta discrezionalità al legislatore
prima, in sede di emanazione di norme impositive retroattive, ed alla Corte Costituzionale dopo, in sede di
controllo di legittimità di dette norme sotto il profilo dell’articolo 53 cost.
Allora, l’unica soluzione per uscire da questa impasse consiste nell’assumere che il requisito dell’attualità
non tollera in assoluto che le norme impositive dispongano con effetto anche per il passato; ed è questo il
presupposto sotteso al divieto sancito dall’articolo 3 dello statuto.
Il medesimo articolo 3 fa altresì salve le norme di interpretazione autentica, che il secondo comma
dell’articolo 1 consente solo in casi eccezionali e soltanto ad opera di legge ordinaria.
Ciò vale, tuttavia, per le sole leggi che possono realmente considerarsi interpretative, ma non per quelle che,
viceversa, si risolvono nell’attribuire ad una determinata e pregressa disposizione una portata innovativa
giacché in alcun modo riconducibile ad essa nella sua versione originaria.
Se così è, è opportuno chiarire che:
a. le leggi pseudo-interpretative, in quanto dotate di efficacia retroattiva, incorrono inevitabilmente nel
divieto che si rinviene nell’articolo 3;
b. correlativamente, le ipotesi eccezionali che a tenore dello stesso articolo consentono l’interpretazione
autentica non possono essere che quelle contrassegnate dall’esistenza di una norma dubbia in quanto
suscettibile di una pluralità di significati.
Gli ulteriori divieti dettati sempre in tema di efficacia temporale sono invece preordinati alla salvaguardia
dei principi di ragionevolezza e di affidamento del contribuente, sicché i referenti costituzionali risultano
essere in proposito gli articolo 3 e 97 cost.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 29. I limiti di utilizzo del decreto legge in merito alle norme
tributarie
A tenore dell’articolo 4 legge 212/2000 “non si può disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi
né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”.
La norma costituzionale di riferimento è l’articolo 23 cost. che prevede una riserva di legge per
l’imposizione di prestazioni coattive.
Secondo l’opinione prevalente, quando si parla di legge ci si riferisce non soltanto alla legge ordinaria ma
anche agli atti che hanno il medesimo rango e quindi la medesima efficacia, ossia al decreto legge e al
decreto legislativo.
Non va sottaciuto peraltro che una parte minoritaria della dottrina, valorizzando al massimo la ratio
garantista e democratica della riserva, nonché il dato per cui la stessa evoca un rapporto tra organi ancor
prima che tra atti, ha espresso seri dubbi sull’ammissibilità degli atti legislativi del governo in materie
riservate alla legge.
Con specifico riguardo ai decreti legge, le suddette perplessità sono state motivate con il fatto che i
medesimi entrano subito in vigore e sono quindi applicabili fino alla loro mancata conversione.
Il legislatore dello statuto ha ritenuto che il dettato costituzionale esiga intervento della legge ordinaria per la
individuazione degli elementi essenziali della fattispecie impositiva e della sfera dei soggetti passivi della
relativa prestazione; e, conseguentemente, ha escluso l’utilizzabilità dello strumento del decreto legge per
l’istituzione di nuovi tributi e per l’estensione di tributi già esistenti a nuove categorie di contribuenti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 30. Le disposizioni comunitarie del Trattato direttamente incidenti
sui singoli sistemi tributari
Alcune disposizioni dell’ordinamento comunitario concernono specificamente la materia fiscale e sono
suscettibili di riflettersi, in modo diretto o indiretto, sul nostro sistema impositivo.
In questa sede ci occuperemo solo delle norme contenute nel Trattato che, per il loro rango, sono idonee ad
incidere direttamente sui sistemi tributari dei singoli Stati.
La costituzione di un mercato unico, l’eliminazione degli ostacoli alla circolazione delle merci e delle
persone richiedono, infatti, la realizzazione di un sufficiente grado di omogeneità, fra l’altro, delle discipline
fiscali che attengono a queste vicende economiche.
Alla realizzazione di questa uniformità di disciplina sono rivolti innanzitutto gli articolo 25 e 26 del Trattato,
il primo dei quali vieta l’istituzione dei dazi doganali all’interno dell’Unione, mentre il secondo dispone che,
per le merci provenienti dall’estero (rispetto ai confini dell’Unione), si deve adottare una tariffa doganale
comune.
L’uniformità delle regole fiscali afferenti la circolazione delle merci è assicurata, inoltre, dalla previsione
della introduzione di un’imposta comune sulla cifra di affari, previsione poi attivata con una serie di
direttive per effetto delle quali è stata introdotta in tutti gli Stati membri l’imposta sul valore aggiunto.
Gli Stati membri hanno ritenuto che quella descritta fosse la massima limitazione della propria sovranità in
materia fiscale che essi potessero concedere ed hanno affidato, così, ogni ulteriore avvicinamento fra le
legislazioni dei singoli Stati ad alcuni divieti o a più generiche direttive volte ad armonizzare le variegate
discipline nazionali.
Quanto ai divieti, occorre ricordare l’illegittimità di ogni discriminazione tra prodotti nazionali e prodotti
degli altri Stati membri.
L’armonizzazione prevede l’affidamento al Consiglio dell’adozione delle disposizioni in materia di cifre
d’affari e di altre imposte indirette, e l’attribuzione di una più generale competenza alla fissazione di
direttive volte all’avvicinamento di leggi, regolamenti, ecc…
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 31. Gli aiuti di Stato incompatibili con il Mercato Comune
Quelle appena esaminate sono le disposizioni materiali contenute nel Trattato che assumono come oggetto
diretto ed immediato i sistemi tributari statali.
Vi sono però altre disposizioni contenute nel Trattato che non considerano il diritto tributario in modo
immediato, ma solo in via indiretta.
È questo il caso, innanzitutto, del divieto di aiuti di Stato il quale è posto a tutela della concorrenza.
Secondo la giurisprudenza elaborata al riguardo dalla Corte di Giustizia l’aiuto risulta incompatibile con il
mercato comune allorquando:
a. è erogato dallo Stato, un suo ente territoriale o altro ente pubblico che operi nell’ambito dei poteri delegati
dallo Stato;
b. implica un sacrificio finanziario per lo Stato, ossia un onere diretto o indiretto per il bilancio pubblico,
senza che il vantaggio che l’impresa ne trae comporti una contropartita a favore dell’ente erogante;
c. ha carattere selettivo, ossia è rivolto ad alcune imprese o produzioni;
d. consegue l’effetto di rafforzare la posizione di alcune imprese rispetto ad altre;
Emerge quindi che possono essere ricondotte alla nozione di aiuto di stato pure misure di carattere fiscale,
quali ad esempio i regimi agevolativi limitati a determinate categorie di soggetti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 32. La Corte di Giustizia e i divieti posti dal Trattato
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha in primo luogo ribadito la portata dei divieti posti dal Trattato
con riguardo alla libera circolazione delle merci, ribadendo ad esempio la diretta applicabilità dei divieti
posti nei confronti delle tasse di effetto equivalente a dazi doganali.
Tramite un’interpretazione innovativa e dinamica dei principi di libera circolazione dei lavoratori, la Corte
ha chiarito come tali disposizioni siano suscettibili di incidere direttamente sugli ordinamenti fiscali di
ciascuno Stato.
Essa ha infatti ritenuto in contrasto con i principi comunitari quelle legislazioni nazionali che non
riconoscono al lavoratore comunitario non residente un trattamento impositivo analogo a quello applicabile
ai lavoratori residenti.
Infine, un cenno merita la giurisprudenza della Corte afferente la tutela dell’affidamento e il principio di
proporzionalità.
Sul primo versante, infatti, la perentoria affermazione ed utilizzazione del principio operata dalla Corte ben
potrebbe contribuire a superare la difficoltà di individuare, nella nostra Carta costituzionale, precisi referenti
normativi di una regola essenziale per il corretto funzionamento del rapporto fisco/contribuente.
Quanto poi al principio di proporzionalità, esso consiste nell’esigenza di un ragionevole bilanciamento tra
l’interesse protetto dall’ordinamento e le misure apprestate dal medesimo per garantirne il rispetto e
reprimerne le violazioni.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 33. Fonti delle norme tributarie: le leggi ordinarie e le fonti
equiparate
L’esistenza della riserva relativa di legge sancita dall’articolo 23 cost. fa sì che le principali fonti di
produzione delle norme tributarie siano costituite dalle leggi ordinarie, nonché dagli atti normativi
promananti dal governo cui l’ordinamento riconosce lo stesso rango e la stessa efficacia delle leggi suddette.
Con riguardo a tali ultimi atti vengono in considerazione, in primo luogo, i decreti legge.
Presupposto di legittimità per l’adozione del decreto legge è la sussistenza di situazioni eccezionali;
situazione che assai frequente di ricorrono proprio in materia tributaria, vuoi per la necessità di acquisire
rapidamente le nuove entrate, vuoi per il celere raggiungimento degli obiettivi di politica economica
connessi alla manovra fiscale.
Fermo ciò, non vi è dubbio che anche il nostro settore non è sfuggito quel fenomeno patologico consistente
nell’abuso dello strumento in questione in spregio al dettato costituzionale.
A tale fenomeno ha inteso in parti porre rimedio la legge 400/88 e il legislatore tributario si è spinto ancora
oltre giacché, come si è avuto modo di rilevare, ha posto con lo Statuto dei diritti del contribuente ulteriori
limiti alla facoltà per il governo di utilizzare lo strumento del decreto legge.
Passando ai decreti legislativi, siffatta potestà normativa ha conosciuto negli ultimi tempi notevole sviluppo
ed incremento a motivo dell’accentuato e diffuso tecnicismo della odierna legislazione in molti settori; onde
la necessità del possesso di particolari e specifiche cognizioni alle quali il governo può sopperire con
l’ausilio dei vari apparati amministrativi.
È quanto per l’appunto si verifica nel campo tributario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 34. Fonti delle norme tributarie: i regolamenti
L’altra e residuale categoria di fonti di produzione delle norme tributarie (tenuto conto che la vigenza nella
nostra materia della riserva, sia pur relativa, di legge preclude qualsiasi ambito di operatività alla fonte/fatto
consuetudinaria) è costituita dai regolamenti.
Cominciando dai regolamenti statali, per quanto a noi interessa, vanno segnalati quelli emanati per
disciplinare:
a. l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi (regolamenti esecutivi);
b. l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, al di fuori delle
materie riservate alla competenza regionale (regolamenti attuativi o integrativi);
c. le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si
tratti di materie comunque riservate alla legge (regolamenti autonomi o indipendenti).
Nella nostra materia hanno diritto di cittadinanza tanto i regolamenti meramente esecutivi i quali, essendo
preordinati ad introdurre semplici disposizioni di dettaglio indispensabili per la concreta operatività di
norme di legge, risultano compatibili addirittura con la riserva di legge assoluta; quanto ed altresì, sia pure
con riferimento a soli elementi cosiddetti secondari della prestazione impositiva, i regolamenti attuativi o
integrativi, i regolamenti delegati, i regolamenti ministeriali o interministeriali (soggetti, questi ultimi,
all’ulteriore limite di non dettare norme contrarie a quelle contenute nei regolamenti emanati dal governo),
nonché quelli promananti dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Risultano viceversa esclusi i soli regolamenti autonomi o indipendenti, dal momento che tale categoria di
regolamenti presuppone la totale mancanza di una disciplina legislativa.
Oltre regolamenti statali vengono talvolta in considerazione in materia di tributi erariali altresì i regolamenti
delle Regioni e degli enti locali territoriali, che trovano il loro esplicito fondamento in specifiche
disposizioni costituzionali.
È dato genericamente ed in modo sintetico osservare che:
a. la classificazione oggettiva innanzi delineata torna in linea di principio applicabile anche a tali
regolamenti;
b. è senz’altro esatto il rilievo della dottrina più avvertita secondo cui non è ravvisabile un vincolo di
subordinazione gerarchica nel rapporto tra regolamenti statali e regolamenti regionali e neppure tra questi
ultimi ed i regolamenti comunali e provinciali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 35. I regolamenti: atti normativi e atti amministrativi
Va detto, da ultimo e per completezza, che la dottrina suole distinguere i regolamenti quali atti normativi
dagli atti amministrativi generali, che si risolvono nel concreto esercizio di poteri attribuiti
all’amministrazione per la cura di interessi pubblici; sì che i secondi, a differenza dei primi, non hanno
carattere innovativo dell’ordinamento giuridico.
La distinzione, e le difficoltà applicative che vi si collegano, hanno occasione rispettivamente di operare e di
manifestarsi anche nell’ambito del diritto tributario.
Riteniamo di poter individuare almeno due categorie di atti amministrativi generali:
a. la prima è costituita dagli atti i quali sono espressione di poteri di accertamento valutativo attribuiti
all’amministrazione con riferimento all’entità di fatto in cui consiste la base imponibile del tributo od a
singoli elementi pur sempre fattuali che rilevano ai fini della determinazione quantitativa di quest’ultimo nei
confronti di tutti i soggetti passivi di esso (ad esempio, i decreti ministeriali che fissano i coefficienti di
ammortamento dei beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa);
b. la seconda categoria abbraccia gli atti a carattere generale dell’autorità amministrativa che si ripercuotono
sulla procedura di accertamento dell’imposta in quanto predeterminano il contenuto e/o offrono il supporto
talvolta in punto di motivazione e talaltra in punto di prova dei concreti atti emanati nell’espletamento di tale
procedura e con riferimento ai singoli contribuenti (ad esempio, i decreti ministeriali che fissano indici e
coefficienti presuntivi di reddito o di maggior reddito in relazione a determinate operazioni di spesa
espressive di capacità contributiva).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 36. Norme tributarie: il c.d. federalismo fiscale
Con la riforma Minghetti del 1865 la disciplina della finanza locale si ispirò ad un criterio di sostanziale
separazione dalla finanza statale.
Peraltro, il principio di separazione finì per essere sensibilmente attenuato a seguito dell’assunzione a base
fondamentale del sistema di finanza locale di due tributi che non avevano di certo le caratteristiche di tributi
autonomi, vale a dire i dazi sui consumi interni e le sovrimposte sui tributi diretti erariali.
A tale impostazione fece seguito un’esplicazione concreta della potestà impositiva da parte degli enti locali
caratterizzata dalla provvisorietà e dalla mancanza di un disegno unitario, rispondendo le varie scelte ad
esigenze di cassa o comunque a valutazioni estemporanee.
Il quadro di insieme della finanza locale rimase sostanzialmente immutato fino alla riforma tributaria degli
anni ’70, la quale incise in senso pesantemente riduttivo sulla potestà suddetta, preferendosi in occasione di
essa devolvere a tali enti quote di tributi erariali o l’intero gettito di alcuni di questi ultimi, salva soltanto la
facoltà degli enti medesimi di intervenire sulla manovra delle aliquote.
Una effettiva inversione di tendenza non si è verificata neppure a seguito della legislazione degli anni ’90.
Da ultimo, non si può fare a meno di rilevare come una situazione di così mancato svilimento
dell’autonomia degli enti locali sul versante finanziario mal si collocasse con l’articolo 5 cost., il quale
costituisce l’espressione inequivocabile della volontà del costituente di attribuire agli stessi un consistente
ruolo operativo nel contesto dell’organizzazione statuale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 37. Norme tributarie: la finanza regionale
Passiamo a saccheggiare le vicende relative alla finanza regionale.
Al riguardo, occorre distinguere la situazione delle Regioni a statuto speciale da quella che attiene viceversa
alle Regioni a statuto ordinario.
Per le prime provvedono i relativi statuti, i quali riconoscono all’ente regionale una autonoma potestà
normativa in materia tributaria che non è il caso di analizzare in questa sede.
Più complesso è il discorso per quanto riguarda le Regioni a statuto ordinario, anche a motivo delle
difficoltà interpretative suscitate dall’articolo 119 cost., il quale, dopo avere proclamato l’autonomia
finanziaria delle Regioni sia pure nelle forme e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica operanti il
coordinamento con la finanza dello Stato, prevedeva che a tali enti fossero attribuiti tributi propri e quote di
tributi erariali.
Va rilevato in proposito che la legge statale di coordinamento non ha mai visto la luce; e che la legge 281/70
in tema di finanza regionale ha recepito con riguardo al precetto costituzionale di cui trattasi la tesi più
restrittiva: essa ha per un verso individuato in modo tassativo i tributi istituibili dalle Regioni, e, per l’altro,
ha disciplinato assai dettagliatamente gli elementi essenziali delle varie fattispecie impositive.
Soprattutto negli ultimi anni, si è assistito ad un sempre più vivace dibattito sull’opportunità se non
addirittura sulla necessità di procedere ad una revisione profonda e strutturale della finanza locale.
In particolare, si è andata sempre più consolidando la convinzione che il sistema tributario italiano debba
essere improntato al federalismo, volendo con ciò intendere una maggior dislocazione della potestà
impositiva a livello degli enti regionali, nonché dei tradizionali enti locali territoriali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 38. Norme tributarie: la legge cost. 3/2001
È in questo clima che sono maturate le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione.
I punti salienti della nuova disciplina possono così mettersi a fuoco:
1. In primo luogo, ai sensi dell’articolo 117 cost., il coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario rientra fra le materie di legislazione concorrente, mentre nel precedente sistema esso era riservato
allo Stato .
Ne discende che in ordine al coordinamento in questione la potestà legislativa spetta ora alle Regioni, salvo
che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
2. In secondo luogo, è stato abrogato l’articolo 128 cost. ed è stato riformulato l’articolo 119 cost.,
prevedendosi non soltanto per le Regioni ma anche per i Comuni, le Province e le Città metropolitane, una
autonomia finanziaria di entrata e di spesa: e che essi dispongono di risorse autonome stabilendo ed
applicando tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 39. Norme tributarie: le fonti comunitarie
L’articolo 10 cost. e, soprattutto, l’articolo 11 cost., vengono oggi interpretati come suscettibili di dar vita a
devoluzioni di competenze e ad una corrispondente autolimitazione della sovranità statale in vari settori (ivi
compreso quello tributario), anche a favore di organismi politico-economici quali la Comunità Europea e
senza bisogno che i trattati cui fa riferimento il precetto costituzionale debbano essere adottati con legge
costituzionale.
Con riguardo alle fonti primarie si è già detto di quelle idonee ad incidere direttamente sulla struttura dei
singoli sistemi tributari.
Innanzitutto, l’articolo 93 Trattato CE sottolinea in maniera puntuale il carattere strumentale
dell’armonizzazione fiscale rispetto all’instaurazione ed al mantenimento del mercato interno.
Appunto in ragione di questa funzione meramente strumentale, l’articolo 93 Trattato CE individua precisi
limiti al processo di armonizzazione.
Una prima delimitazione concerne il settore al quale il meccanismo delineato dall’articolo 93 è circoscritto,
coincidente in sostanza con una sola imposizione indiretta, e principalmente con l’imposta sulla cifra
d’affari (ossia, attualmente, l’IVA).
Ciò non impedisce al Consiglio, in astratto, di intervenire pure in punto di convergenza delle legislazioni
nazionali afferenti alle imposte dirette, giacché il successivo articolo 94 Trattato CE consente genericamente
a tale organo di adottare direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni degli Stati membri che abbiano
un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del Mercato Comune.
Ferma dunque tale possibilità, è tuttavia da evidenziare che nel Trattato non si è ritenuto opportuno inserire
al riguardo alcuna norma specifica in tema di imposizione diretta: ciò, evidentemente, poiché
all’armonizzazione di questo settore impositivo non si è inteso riconoscere un ruolo decisivo nell’ambito del
mercato unico.
La seconda limitazione, riguarda il grado o alla misura del ravvicinamento cui deve mirare il Consiglio: in
sostanza, il legislatore comunitario limita il “tasso di uniformità” a quello indispensabile, sia necessario e
sufficiente per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno.
Per completare il quadro è opportuno accennare altresì al modus procedendi imposto al Consiglio per
l’adozione delle proprie deliberazioni in materia.
Per quanto riguarda le deliberazioni in tema di imposte indirette è richiesta l’unanimità; in ordine alle
imposte diverse, il Consiglio può seguire la procedura prevista per l’adozione delle direttive volte in genere
al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri, ma
anche in questo caso è necessaria la deliberazione all’unanimità.
Quanto al diritto derivato, rilevanza preminente assumono i regolamenti e le direttive, entrambi operanti
direttamente nel nostro ordinamento.
Sebbene l’articolo 189 Trattato CE non contempli un efficacia immediata delle direttive, la Corte di
Giustizia ha tuttavia ritenuto che, allorquando siano scaduti i termini di attuazione e la direttiva imponga
obblighi incondizionati e sufficientemente precisi, questa in parte qua si rende applicabile all’interno dello
Stato inadempiente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 40. Norme tributarie: la legge cost. 3/2001
È in questo clima che sono maturate le modifiche al Titolo V della parte II della Costituzione.
I punti salienti della nuova disciplina possono così mettersi a fuoco:
1. In primo luogo, ai sensi dell’articolo 117 cost., il coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario rientra fra le materie di legislazione concorrente, mentre nel precedente sistema esso era riservato
allo Stato .
Ne discende che in ordine al coordinamento in questione la potestà legislativa spetta ora alle Regioni, salvo
che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.
2. In secondo luogo, è stato abrogato l’articolo 128 cost. ed è stato riformulato l’articolo 119 cost.,
prevedendosi non soltanto per le Regioni ma anche per i Comuni, le Province e le Città metropolitane, una
autonomia finanziaria di entrata e di spesa: e che essi dispongono di risorse autonome stabilendo ed
applicando tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 41. L’interpretazione delle norme tributarie
Nessuno più dubita oggi che l’interpretazione delle norme tributarie soggiace, in linea di massima, alle
stesse regole ed agli stessi principi operanti con riferimento a tutti gli altri settori dell’ordinamento, pur non
mancandosi di evidenziare l’esistenza di peculiari problematiche a tale proposito.
Tuttavia, conviene spendere qualche parola in ordine ad alcune teorie interpretative postulanti viceversa
l’esistenza di particolari e specifici canoni ermeneutici nell’ambito della materia tributaria.
Ci riferiamo, in primo luogo, alla tesi per cui, in caso di incertezza circa il significato della norma tributaria,
questa avrebbe dovuto essere intesa privilegiando l’interpretazione più favorevole all’erario; nonché all’altra
che, in presenza della stessa situazione, perveniva a risultati diametralmente opposti, propugnava la
necessità di accordare preferenza al significato più favorevole al contribuente.
È certo che entrambe le tesi risultavano chiaramente influenzate dal clima ideologico-politico nel quale si
collocavano.
Più serio fondamento e maggior seguito ha avuto la teoria cosiddetta dell’interpretazione funzionale.
Il fulcro di tale concezione è ravvisabile nel fatto che ad avviso dei suoi sostenitori non si potrebbe
prescindere dalla funzione e dalla causa giustificativa della prestazione tributaria: competerebbe, dunque,
all’interprete in sede applicativa di verificare se ricorra o meno di volta in volta la capacità contributiva che
il tributo è volto a colpire.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 42. Problemi nell'interpretazione delle norme tributarie
I criteri legali di interpretazione sono stabiliti dall’articolo 12 disp. prelegge c.c., in forza del quale il senso
da attribuire alle norme giuridiche è quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse (cosiddetto criterio letterale) e dalla intenzione del legislatore (cosiddetto criterio logico-
funzionale).
Dottrina e giurisprudenza sono soliti far ricorso ad alcuni canoni ausiliari, in particolare:
a. l’interpretazione sistematica;
b. l’interpretazione evolutiva;
c. l’interpretazione fondata sul principio di conservazione degli atti giuridici, secondo la quale occorre dare
preferenza al significato che assicura alla norma la possibilità di sopravvivere.
Tornando ai due criteri legali enunciati dal citato articolo 12 disp. prelegge c.c. occorre prendere atto che in
epoca più recente si è manifestata la tendenza ad attribuire prevalente risalto alla funzione che la norma è
chiamata ad assolvere, ricostruita in termini oggettivati, ossia avulsi dall’originaria volontà degli autori.
I risvolti di tale impostazione non possono sfuggire data la loro rilevanza: si pensi alla valorizzazione
sempre maggiore riconosciuta alla prassi applicativa che ha condotto a enucleare il cosiddetto diritto
vivente, cioè a riconoscere valore vincolante agli orientamenti interpretativi elaborati da dottrina e
giurisprudenza in ordine al modo di intendere una determinata norma, al punto da ritenere preclusa la
possibilità per l’interprete di porsi a diretto contatto con il dato positivo.
Non si può sottacere il rischio che si collega all’orientamento qui considerato, che è quello di scalfire oltre
misura il fondamentale principio della certezza del diritto: il quale esige un minimo di rispetto per le scelte
codificate dal legislatore nel suo ruolo istituzionale, senza che allo stesso si pervenga a sostituire l’arbitrio
più o meno occasionale ed isolato dell’interprete.
Il pericolo appena paventato si rivela ancor più grave in un settore, come il nostro, nel quale vengono in
gioco diritti del cittadino ed interessi pubblici ritenuti fondamentali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 43. L'interpretazione delle norme tributarie: le circolari
Il discorso sull’interpretazione non può concludersi senza almeno un accenno al ruolo svolto dalle circolari.
Ad avviso della dottrina più diffusa e accreditata, tale termine non sta a designare una determinata categoria
di atti contrassegnata dal loro particolare contenuto, bensì serve a denotare lo strumento di diffusione e di
propagazione di disposizioni:
a. promananti da un organo della pubblica amministrazione ed indirizzate ad una serie di altri organi
nell’ambito di un rapporto di supremazia gerarchica;
b. emesse dall’ente o autorità titolare di un potere di controllo, di indirizzo, di direttiva o di coordinamento
nei confronti degli enti e degli uffici che a tale potere soggiacciono; a
c. poste in essere da un determinato organo o soggetto nell’esercizio del potere di autoregolamentazione.
Tuttavia, non vi è dubbio che quando si parla di circolari la mente corre soprattutto ed in primo luogo a
quelle contenenti le cosiddette norme interne in quanto destinate a produrre effetti soltanto nei confronti
degli organi sottordinati e perciò non vincolanti per tutti i consociati e per i giudici.
Orbene, in seno al diritto amministrativo, pur continuandosi a disconoscere alle circolari la natura di fonti
dell’ordinamento, non sono mancate recenti tendenze a dilatarne l’efficacia, estendendola dal piano
meramente interno a quello esterno.
Nel diritto tributario, mentre non trovano di regola spazio le circolari intese ad autodisciplinare l’esercizio di
poteri discrezionali, dal momento che per opinione pressoché unanime di essi vi è scarsissima traccia in tale
settore, è invece innegabile l’ampia diffusione delle circolari interpretative.
Qui la circolare non può mai porsi quale provvedimento autonomamente impugnabile o costituente
parametro di legittimità di successivi concreti provvedimenti emanati dagli organi subalterni, per il semplice
fatto che questi ultimi non ricorrono nella dinamica del fenomeno impositivo stante la rilevata mancanza di
poteri discrezionali; sicché essa (circolare) resta costantemente e per definizione estranea all’oggetto del
giudizio anche ai fini della sua eventuale disapplicazione.
Il più significativo profilo di rilevanza esterna delle circolari in materia tributaria deve oggi rinvenirsi
nell’articolo 102 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale, a tutela dell’affidamento dei privati,
dispone che nei confronti del contribuente che si sia conformato alle indicazioni contenute in atti
dell’amministrazione finanziaria, non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi di mora.
Al riguardo, giova ulteriormente precisare che gli atti dell’amministrazione finanziaria genericamente
richiamati dalla norma devono essere privi di efficacia normativa, poiché il conformarsi a tali atti esclude
per definizione qualsiasi violazione, cosicché il riferimento agli atti dell’amministrazione finanziaria deve
intendersi fatto proprio alle circolari amministrative.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 44. L’analogia in materia tributaria
Ai sensi dell’articolo 122 prelegge c.c. se una controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (analogia legis); se
il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato
(analogia iuris).
Non va però sottaciuto che l’analogia, nel mentre ha visto contrarsi la sua area di possibile applicazione nel
campo del diritto sostanziale, al quale mostra di avere essenzialmente riguardo il citato articolo 12 prelegge
c.c., ha trovato invece terreno fertile di espansione nel diverso settore delle norme processuali.
I problemi attinenti alla possibilità che l’analogia operi in materia tributaria riguardano da un lato le norme
impositive e, dall’altro, le norme agevolative.
È infatti incontroverso che l’analogia possa trovare applicazione per le norme tributarie procedurali o
processuali, e resti viceversa esclusa in tema di norme tributarie penali o di natura eccezionale.
Per quel che concerne in primo luogo le norme impositive, dottrina e giurisprudenza sono orientati in senso
negativo, sulla scorta peraltro di argomentazioni non univoche.
In specie, secondo alcuni il ricorso all’analogia sarebbe precluso dall’esistenza della riserva di legge di cui
all’articolo 23 cost.; secondo altri, l’ostacolo discenderebbe dalla circostanza che le suddette norme
sarebbero il più delle volte a fattispecie esclusiva (in quanto, ad avviso di autorevole dottrina, l’estensione
per analogia si renderebbe possibile soltanto rispetto alle norme che possono ricondursi ad un principio,
mentre tali non sarebbero per l’appunto le norme a fattispecie esclusiva, le quali riflettono situazioni di fatto
ben determinate).
Orbene, fuori dei casi espressamente disciplinati dalla norma, una volta ricostruitane la portata alla stregua
degli ordinari canoni interpretativi, interviene ed opera il principio di intangibilità della sfera personale e
patrimoniale dell’individuo, lasciando sopravvivere il correlato diritto soggettivo fondamentale; con la
conseguenza che il ricorso all’analogia non tanto può dirsi vietato quanto resta precluso in radice, per difetto
del suo presupposto essenziale costituito dalla presenza di un vuoto normativo.
La stessa conclusione deve a parer nostro essere accolta con riferimento alla possibilità di estendere in via di
integrazione analogica le norme recanti agevolazioni fiscali.
L’opinione tradizionale è nel senso negativo sul presupposto della natura eccezionale di siffatte norme.
Resta peraltro il dato che le fattispecie non considerate dalla norma agevolativa non risultano affatto prive di
disciplina, esse ricadendo sotto l’egida della norma generale derogata dalla prima; onde, e di nuovo, viene a
mancare l’indefettibile presupposto dell’analogia.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 45. L’efficacia nel tempo delle norme tributarie
Il processo evolutivo, che è proprio di ogni ordinamento giuridico, determina il mutamento e quindi la
successione nel tempo delle norme.
L’emanazione di nuove disposizioni comporta di regola che cessino di produrre effetti le vecchie
disposizioni a seguito di abrogazione, sia essa espressa oppure tacita.
Questa vicenda è scandita dal principio fissato dall’articolo 11 prelegge c.c., secondo il quale la legge non
dispone che per l’avvenire e non ha quindi effetto retroattivo; di qui il corollario che, onde individuare la
norma applicabile in concreto, occorre far riferimento alla legge vigente all’epoca in cui si sono
compiutamente realizzati gli elementi costitutivi della fattispecie.
Il legislatore si dà carico, sempre più spesso, di stabilire il diritto cosiddetto intertemporale, dettando
apposite norme transitorie; e ciò si verifica a maggior ragione nell’ambito del diritto tributario.
La dottrina aveva tuttavia individuato al riguardo un limite concernente specificamente le norme impositive
ritenendo che la retrodatazione degli effetti o la rilevanza retroattiva del fatto ad opera delle medesime non
potesse, pena la violazione dell’articolo 53 cost., spingersi fino al punto di spezzare il nesso che deve
intercorrere tra imposizione e capacità contributiva concepita in termini di attualità; orientamento che
l’articolo 3 dello Statuto dei diritti del contribuente ha generalizzato ed assolutizzato stabilendo che le
disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 46. L’efficacia nello spazio delle norme tributarie
Nel rito tributario, il problema dell’efficacia della legge nello spazio è tradizionalmente risolto facendo
riferimento al principio di “territorialità”.
Uno dei risultati più rilevanti dell’elaborazione dottrinale è rappresentata dall’acquisita consapevolezza che
il diritto tributario non presenta caratteri differenti ristretto agli altri “diritti”; e questa acquisizione si riflette
anche sotto il profilo dei limiti “spaziali” propri della norma tributaria, i quali sono, in linea di massima,
coincidenti con quelli di qualsiasi altra norma.
Risulta conseguentemente superata la diversa concezione secondo cui, poiché il fondamento del diritto
tributario è la “sovranità dello Stato”, tale potere dovesse ritenersi assolutamente delimitato territorialmente
nel duplice senso che:
a. nel territorio di ciascuno Stato poteva dirsi vigente solo il diritto tributario dello Stato medesimo;
b. al di fuori del territorio dello Stato la norma tributaria doveva considerarsi invalida (o, quantomeno,
inefficace).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 47. Il problema dei limiti spaziali in materia tributaria
Il problema dei limiti spaziali in materia tributaria è stato risolto in una prospettiva più articolata che tende a
distinguere i diversi profili disciplinari e applicativi, individuando per ciascuno di essi i limiti e principi
propri:
1. si deve innanzitutto precisare che per il diritto tributario non operano norme volte a regolare i conflitti tra
leggi di ordinamenti diversi.
Si tratta di una circostanza che, tuttavia, non dipende da una qualche particolarità della norma tributaria
trovando la sua spiegazione nel fatto che le situazioni giuridiche soggettive rilevanti per il diritto tributario
hanno natura legale così che non si pone il problema dell’individuazione della legge regolatrice la quale è, e
non potrebbe che essere, quella costituente la fonte diretta della situazione giuridica soggettiva stessa;
2. un secondo profilo rilevante è quello che attiene ai limiti c.d. formali di efficacia nello spazio della norma
in quanto tale, cioè come atto normativo.
A tale riguardo il diritto internazionale non limita l’efficacia o la validità della norma nello spazio, talché
anche una legge che volesse imporre obblighi tributari ai cittadini o ai residenti di altri Stati per fatti o
situazioni realizzati all’estero sarebbe, sotto il profilo del diritto internazionale, perfettamente legittima;
3. sempre con riguardo ai limiti formali si deve osservare la legge tributaria non presenta caratteri differenti
dalle altre leggi dello Stato, talché, considerata come atto normativo, il suo ambito di validità e di efficacia è
identico a quello di ogni altra legge;
4. i problemi più rilevanti si pongono, però, per ciò che attiene ai cosiddetti limiti materiali e derivano dalla
circostanza che, non esistendo norme di conflitto, è certamente possibile che la medesima situazione di fatto
costituisca la fatti specie di due (o anche più) norme di ordinamenti diversi.
In questo caso lo stesso soggetto sarà titolare dal lato passivo di più obbligazioni tributarie (ossia debitore di
più tributi a favore di diversi Stati) sorte in relazione alla medesima situazione di fatto.
Questa eventualità (cosiddetta doppia imposizione giuridica internazionale) non è vietata dal diritto
internazionale come dimostra chiaramente, peraltro, la prassi di regolare e disciplinare queste situazioni
attraverso convenzioni internazionali (i trattati contro le doppie imposizioni);
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 48. Il limite costituzionale delle norme in materia tributaria
Osservando il medesimo problema dal punto di vista interno, occorre innanzitutto ricordare che i limiti
materiali di tutte le norme devono avere un fondamento costituzionale.
Tali limiti, nella nostra materia, devono essere ricercati nell’articolo 53 cost.
Tuttavia, poiché tale disposizione stabilisce che il dovere di concorrere alle pubbliche spese grava su “tutti”,
il problema dei limiti materiali è stato sempre correttamente impostato considerando la delimitazione del
dovere di concorso alle pubbliche spese sotto il profilo soggettivo.
In questa prospettiva, almeno secondo la soluzione che pare preferibile, poiché il concorso alle pubbliche
spese si qualifica come dovere di solidarietà politica, ossia trova il suo fondamento nella comune esigenza
dei membri di ciascuna collettività organizzata di assicurarne l’esistenza, l’obbligo di concorrere alle
pubbliche spese può essere imposto solo a coloro che abbiano interesse all’esistenza della collettività e,
pertanto, possono considerarsi appartenenti alla stessa;
per quanto riguarda l’attuazione dei tributi è invece pacifico, nella dottrina internazionale, che l’esercizio di
poteri coercitivi all’estero da parte di uno stato o dei suoi agenti costituisce un illecito internazionale.
È bene però avvertire che, per un verso, tali limiti sono, ancora una volta, comuni a tutti i settori del diritto e,
per altro verso, l’oggetto del divieto riguarda l’intervento di “agenti” di uno Stato nel territorio di un altro e
non l’esercizio dell’attività di accertamento, di riscossione del credito, ecc…
Quest’ultimo punto è particolarmente importante in quanto da esso consegue, in primo luogo, che ove
esistano disposizioni generali proprie di uno Stato che consentano anche ai soggetti stranieri di avvalersi
degli organi in tale Stato per categorie generali di atti formati all’estero, la natura tributaria dell’atto non
precluderà l’applicazione di tali disposizioni.
In secondo luogo, sono senz’altro possibili convenzioni internazionali aventi ad oggetto la collaborazione
fra Stati in materia tributaria.
Infine, anche l’acquisizione di informazioni o la riscossione di crediti all’estero è possibile e lecita se essa
non richiede l’intervento di agenti nel territorio di altro Stato: si pensi all’invio di un invito di pagamento.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 49. Limite di giurisdizione in materia tributaria per i giudici esteri
poiché la porto tributario è regolato solo dalla legge dello Stato che ha istituito il tributo, è evidente che i
giudici esteri sono sforniti di giurisdizione al riguardo.
Questo non significa, però, il giudice resto non possa mai conoscere della norma tributaria di altro Stato.
Ciò è possibile e avviene anzi con una certa frequenza, in particolare, nell’ambito di liti fra privati: si pensi
alle pattuizioni in cui una parte si obbliga a rimborsare gli oneri sostenuti dall’altra fra i quali beni
potrebbero essere ricomprese le imposte pagate in uno Stato estero.
Tuttavia, sembra anche possibile ipotizzare l’applicazione della norma tributaria straniera da parte del
giudice di altro Stato là dove essa costituisca la fonte diretta del rapporto controverso (sempre che,
ovviamente, le regole del diritto processuale internazionale del foro attribuiscano allo stesso la giurisdizione
in ordine alle obbligazioni di fonte legale sul rapporto obbligatorio intercorrente fra soggetti di identica
nazionalità).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 50. La teoria dichiarativa e la teoria costitutiva sulla fonte
dell’obbligazione di imposta
È costante la distinzione delle imposte in due categorie, l’una costituita dai tributi con accertamento e l’altra
dai tributi senza accertamento.
La prima categoria si caratterizza per il fatto che l’adempimento della prestazione obbligatoria si riconnette
alla necessaria esplicazione di una fase, per appunto definita di accertamento, nella quale confluiscono atti
posti in essere vuoi dal contribuente, vuoi dall’amministrazione finanziaria.
Nella seconda categoria, invece, la fase suddetta non sussiste, giacché il concretarsi della fattispecie
imponibile determina esclusivamente la necessità di eseguire la prestazione impositiva da parte del soggetto
passivo, salvo il successivo controllo del suo esatto adempimento ad opera dei competenti uffici finanziari,
in vista del recupero del maggiore importo eventualmente dovuto e dell’irrogazione delle sanzioni
contemplate dalla legge che si siano rese conseguentemente applicabili.
Mentre con riferimento ai tributi senza accertamento nessuno ha mai dubitato che la realizzazione della
fattispecie imponibile comporti la nascita di una obbligazione che trova la sua fonte diretta ed esclusiva
nella legge, non si riscontra invece unanimità di vedute nella ricostruzione del fenomeno con riferimento ai
tributi con accertamento.
Conviene innanzitutto prendere posizione circa la disputa in ordine all’individuazione della fonte
dell’obbligazione di imposta nell’ipotesi dei tributi con accertamento: fonte da alcuni ravvisata pur sempre
nella legge (teoria dichiarativa), ed altri in uno degli atti che l’amministrazione finanziaria è legittimata ad
emanare (teoria costitutiva).
Si tratta di stabilire se la norma tributaria collega direttamente al verificarsi di determinati fatti (assunti quali
indici di capacità contributiva) la prestazione impositiva così come sostengono i dichiarativisti; oppure se
detta norma attribuisce all’amministrazione finanziaria, in presenza degli stessi presupposti di fatto, il potere
di far sorgere con un proprio atto l’obbligo della prestazione a carico del contribuente, alla stregua
dell’orientamento propugnato dai costitutivisti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 51. Le argomentazioni a favore della teoria dichiarativa sulla fonte
dell’obbligazione di imposta
La riserva pur relativa di legge sancita dall’art. 23 cost. in materia di prestazioni impositive, anche ad
ammettere in astratto che non sia del tutto incompatibile con l’esistenza di norme rispondenti allo schema
norma-potere-fatto, tuttavia sicuramente esclude che in tali casi il potere attribuito alla pubblica
amministrazione rivesta natura discrezionale; infatti è pressoché unanime tra i sostenitori della tesi
costitutiva l’assunto per cui il potere impositivo ha carattere rigidamente vincolato.
Orbene, un potere completamente vincolato, il quale come tale non ha perciò nulla da disciplinare, tutto è
tranne un potere normativo costituente indispensabile presupposto dell’atto provvedimentale e costitutivo in
cui si pretende di ravvisare la fonte dell’obbligazione tributaria.
Tutto lo svolgimento della nostra legislazione, a partire dalla l. 2248/1865 all. E, milita a favore della
qualificazione in termini di diritti delle posizioni giuridiche facenti capo al contribuente.
Infatti, la tutela giurisdizionale di tale soggetto nei confronti delle pretese dell’amministrazione finanziaria è
sempre stata devoluta al giudice ordinario.
Un ulteriore, imprescindibile caratteristica del potere normativo è l’esclusività, non essendo possibile, in
virtù del principio di competenza, che questo possa spettare contemporaneamente a più soggetti, ciascuno
dei quali legittimato ad agire; e questo vale anche per il giudice, il quale non può certo emettere pronunzie
sostitutive quanto alla soluzione di merito da adottare nel singolo caso, ma soltanto di annullamento dell’atto
costituente concreto esercizio di quel potere.
Onde, come alla norma materiale corrisponde il diritto soggettivo, così a quest’ultimo si addice naturalmente
la tutela offerta dal giudizio di accertamento del suo modo di essere alla stregua della disciplina posta dalla
norma suddetta; e come alla norma strumentale corrisponde l’interesse legittimo, così è propria di tale
situazione soggettiva la sola tutela del giudizio di impugnazione/annullamento.
Per quanto ci riguarda, alla stregua della disciplina positiva del processo tributario risulta in maniera
incontestabile che in seno al medesimo il giudice non si limita ad annullare gli atti impositivi della finanza
ma emette pronunzie satisfattorie o di merito, attributive del torto o della ragione in funzione della verifica
operata circa il modo d’essere del rapporto obbligatorio di imposta.
Distinto dal problema concernente l’individuazione della fonte dell’obbligazione tributaria, ma non privo di
collegamento con esso, è quello che riguarda il diverso profilo del momento in cui questa viene a giuridica
esistenza a seguito del verificarsi in concreto di tutti gli elementi confluenti nella relativa ed astratta
fattispecie costitutiva.
Se fosse esatta la tesi della fonte provvedimentale dell’obbligazione tributaria, il momento di cui sopra non
potrebbe certamente verificarsi in epoca anteriore all’effettivo esercizio del potere impositivo da parte
dell’amministrazione finanziaria.
Viceversa, la trama delle vigenti disposizioni rivela all’evidenza e sotto molteplici profili che il rapporto di
debito/credito nasce fra contribuente e amministrazione finanziaria solo che si realizzi il fatto indice di
capacità contributiva considerato dalla norma impositiva: quindi, prima ed a prescindere dall’emanazione di
qualsivoglia atto dell’amministrazione stessa.
Ciò avviene, ad esempio, ai fini dell’individuazione del regime applicabile in caso di successione delle leggi
tributarie nel tempo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 52. Rilievi critici mossi alla teoria dichiarativa sulla fonte
dell’obbligazione di imposta
A questo punto non si può peraltro fare a meno di prendere in considerazione alcuni rilievi critici che sono
stati mossi alla concezione dichiarativista:
1. È stato in primo luogo osservato che, una volta sorto un rapporto obbligatorio, il relativo adempimento
deve poter avvenire in qualsiasi momento, soprattutto se vi è accordo fra creditore e debitore; mentre ciò
non è possibile nel nostro caso, dal momento che l’obbligazione tributaria può essere adempiuta solo ed
esclusivamente dopo la realizzazione di alcuni schemi procedurali caratterizzati più delle volte dalla
presenza di atti provenienti dall’amministrazione finanziaria.
2. In secondo luogo, se l’obbligazione avesse la sua fonte diretta ed esclusiva nella norma impositiva,
venendo a giuridica esistenza al semplice verificarsi della fattispecie imponibile individuata dalla stessa, da
tale momento il contribuente dovrebbe essere abilitato ad esperire la tutela giurisdizionale; tutela che,
viceversa, si rende di regola praticabile solo dopo l’attivazione del competente organo dell’amministrazione,
mediante l’emanazione di uno degli atti impositivi.
3. Quando sia spirato il termine di decadenza generalmente ed univocamente stabilito dalla legge per
ricorrere contro gli atti di volta in volta emessi dall’amministrazione finanziaria, viene meno la possibilità di
contestazione in ordine all’an pretesa tributaria fatta valere per il tramite di tali atti, laddove questi ultimi ne
implichino la verifica ancorché in via incidentale.
Se ne è dedotto che ciò contrasterebbe con l’assunto della fonte legale dell’obbligazione di imposta, poiché
altrimenti non vi dovrebbero essere preclusioni di tal fatta in ordine all’accertamento del regime da essa
posto; addicendosi alla tesi dell’atto impositivo, la cui mancata impugnazione nel termine perentorio
previsto a tal fine comporterebbe il consolidamento dei suoi effetti.
Quando al primo rilievo, è dato replicare che la rilevanza decisiva attribuibile alle manifestazioni di volontà
ricorre sul terreno privatistico; nel nostro caso, invece, siamo in presenza di un rapporto e di una
obbligazione di stampo pubblicistici.
Il secondo rilievo critico dimentica che l’impossibilità di esperire in concreto la tutela suddetta può
dipendere non dall’inesistenza della situazione da tutelare ma dal difetto di uno degli elementi assurgenti a
condizioni dell’azione ai quali è riconducibile l’interesse ad agire.
Il terzo ordine di argomentazione richieda una replica più ampia ed articolata.
La diversità della disciplina rispettivamente propria della prescrizione e della decadenza rispecchia la
differenza fra i due istituti quanto alla ratio o fondamento: consistente, per la prescrizione, nell’estinzione di
una posizione giuridica che si presume abbandonata, e per la decadenza pur sempre nell’estinzione di una
posizione giuridica ma collegata questa volta al mancato compimento di atti che le costituiscono il modo di
esercizio in un termine perentorio.
Ora, è vero che ciò porta logicamente a riferire di regola la prescrizione alle posizioni giuridiche statiche,
ossia ai diritti soggettivi, e la decadenza alle posizioni giuridiche dinamiche, ossia ai poteri; ma non si vede
perché dovrebbe configurarsi un limite assoluto, al di fuori di quello della ragionevolezza, a che il
legislatore applichi la disciplina della decadenza anche a situazioni caratterizzate dalla presenza di diritti
soggettivi allorquando intenda circoscrivere l’assetto di determinati rapporti in un lasso di tempo breve; ed è
quel che il legislatore tributario ha fatto.
Non meno significative sono le conferme che provengono da altri settori dell’ordinamento: Si pensi al
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA termine di decadenza prescritto dall’art. 1495 c.c. nella denuncia dei vizi della cosa venduta, che inerisce
all’esercizio del relativo diritto alla garanzia.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 53. Pluralità di procedimenti impositivi in funzione dei diversi
tributi
In tempi più recenti si è fatta strada l’idea dell’esistenza di una pluralità di procedimenti impositivi,
variamente consegnati ed articolati in funzione dei diversi tributi, come strumenti per il cui tramite viene a
soddisfarsi l’interesse pubblico alla percezione dell’imposta ed in seno ai quali solo occasionalmente o
addirittura giammai si determinerebbe la nascita di una vera e propria obbligazione a carico dei soggetti
titolari del fatto indice di capacità contributiva.
A parere nostro, tale orientamento non può essere condiviso: in primo luogo, risulta del tutto improprio il
ricorso alla figura del procedimento, avuto riguardo alla nozione di questo unanimemente accolta dai cultori
del diritto amministrativo; in secondo luogo, e soprattutto, non si vede come si possa prescindere,
nell’ambito del fenomeno che ci interessa, dal far riferimento all’insorgenza di un rapporto obbligatorio.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 54. Il rapporto obbligatorio d'imposta
Si deve peraltro riconoscere che la tesi dichiarativa risulta inappagante se, come viceversa è avvenuto
soprattutto all’inizio, non si ha cura di dare ad essa una più compiuta articolazione, la quale tenga conto in
modo adeguato e soddisfacente delle vicende che si accompagnano all’insorgenza del rapporto obbligatorio
di imposta.
In effetti, si appalesa indispensabile distinguere, con riferimento ai tributi che appartengono alla categoria di
quelli con accertamento, una duplice fase:
1. la prima, che si può definire statica, sul terreno della quale si collocano la norma impositiva e la
fattispecie imponibile, la cui concretizzazione genera l’obbligazione tributaria rapportabile alla norma
predetta;
2. la seconda, a carattere dinamico e non meno rilevante dell’altra, è preordinata all’attuazione del rapporto
obbligatorio già insorto giuridicamente mediante la determinazione quantitativa della prestazione,
culminando nell’adempimento di quest’ultima e nel correlativo soddisfacimento della pretesa creditoria di
cui è titolare il soggetto attivo del rapporto medesimo.
È in questa seconda fase che si collocano i vari atti provenienti vuoi dal contribuente, vuoi
dall’amministrazione finanziaria; atti che in sede di ricostruzione del fenomeno debbono essere raggruppati
secondo categorie omogenee in funzione della natura e degli effetti loro propri.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 55. La fattispecie impositiva: presupposto e base imponibile
Riferendosi alla fattispecie impositiva delineata dalla norma tributaria, si è parlato alternativamente e
genericamente di presupposto, base imponibile, oggetto dell’imposta.
È giunto il momento di cercare di mettere un po’ di ordine al riguardo.
Sembra a noi che, come avviene per le altre norme, anche quella tributaria identifichi l’insieme degli
elementi costituenti la astratta fattispecie al cui concreto verificarsi si riallacciano gli effetti voluti dal
legislatore; ed è per l’appunto in questa prospettiva che è dato parlare, con riferimento a ciascun tributo, di
presupposto od oggetto dell’imposta da un lato, e di base imponibile dall’altro.
Il presupposto del tributo è il fatto o la circostanza fattuale nella quale si compendia o per il cui tramite si
disvela la situazione, di regola suscettibile di valutazione economica pena l’illegittimità costituzionale della
norma impositiva, assunta dal legislatore, nel suo riferimento ad un determinato soggetto, quale titolo
giustificativo dell’imposizione a carico di costui; nel mentre la base imponibile costituisce il parametro di
commisurazione del tributo così come individuato e delimitato dalla situazione suddetta che configura e
realizza il presupposto del tributo medesimo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 56. Definizione di imposte dirette ed indirette
Secondo il generale convincimento, sono dirette le imposte che colpiscono il possesso di un reddito o di un
patrimonio; indirette tutte le altre.
È dato rilevare, con riguardo alle imposte dirette, che esse si caratterizzano in quanto il presupposto è
costituito, per l’appunto in modo diretto ed immediato, dalla (e quindi esprime la) forza economica in cui si
sostanzia la capacità contributiva che il legislatore ha inteso assoggettare al prelievo; talché il necessario
collegamento fra presupposto e base imponibile si spinge sino alla loro compenetrazione.
Nell’ambito delle imposte indirette, diversamente, i suddetti elementi non soltanto presentano normalmente
un certo grado di reciproca autonomia, ma, soprattutto, il presupposto non si identifica nella forza
economica in questione, bensì semplicemente la implica, palesandone dunque l’esistenza in via indiretta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 57. Definizione di imposte personali (o soggettive) e reali (o
oggettive)
Le imposte personali traggono la loro qualificazione dal fatto che esse mirano a colpire la manifestazione di
capacità contributiva proiettata sullo sfondo della situazione personale del suo titolare, onde necessariamente
si tiene conto di un complesso di elementi e profili facenti capo a tale situazione.
Le imposte reali, invece, colpiscono il fatto indice di capacità contributiva in sé e per sé considerato, a
prescindere da qualsiasi riferimento di ordine soggettivo, talché la disciplina che vi si accompagna tende in
linea di principio a disinteressarsi dei profili concernenti il titolare del lato passivo dell’obbligazione
tributaria.
Così delineata la distinzione, è dato puntualizzare, quanto alle imposte personali, che:
a. tali imposte hanno normalmente carattere di generalità ed onnicomprensività con riferimento al tipo di
manifestazione di capacità contributiva che ne costituisce l’oggetto;
b. in secondo luogo, e conseguentemente, alle medesime si sposa di regola il connotato della progressività e,
per contro, vi sono alcuni tributi personali che non sono applicati con aliquota proporzionale per specifiche e
contingenti ragioni;
c. sempre in via di stretta correlazione con quanto siamo venuti dicendo, il settore nell’ambito del quale
trovano naturale collocazione le imposte personali è quello dei tributi diretti, sia per il tipo del presupposto
sia perché con riguardo agli stessi assumono immediata e precisa rilevanza tutte quelle situazioni suscettibili
di dare al prelievo un’impronta in chiave personalistica, quali le deduzioni e/o le detrazioni agganciate alle
vicende individuali e familiari del debitore;
d. alla fine, emerge dal quadro appena tracciato la particolare importanza della presenza di un siffatto tipo di
imposta in ordinamento come il nostro ancorato al rispetto del principio di capacita contributiva, quale
espressione di un dovere di solidarietà sociale, economica e politica.
Diversamente, le imposte reali od oggettive sono normalmente ad aliquota proporzionale anche se non
mancano esempi di imposte reali con aliquota progressiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 58. Fattispecie impositive sostitutive, equiparate, supplementari,
sovrapposte ed alternative
Rimane da accennare ad alcune classificazioni e distinzioni che sono state elaborate in dottrina.
Ci riferiamo alla enucleazione delle cosiddette fattispecie sostitutive, equiparate, supplementari, sovrapposte
ed alternative: intendendosi per fattispecie sostitutive quelle che vengono sottratte all’assoggettamento del
tributo ordinario, nella cui sfera ricadrebbero in linea di principio, per essere colpite, il luogo dello stesso, da
un diverso tributo; per fattispecie equiparate e supplementari quelle che vengono ad essere ricondotte alla
sfera di applicazione del tributo in via di ampliamento della previsione-base modellata su un determinato
istituto solitamente mutuato dal diritto civile; per fattispecie sovrapposte e alternate quelle che soggiacciono
le une a una pluralità di tributi e le altre ad un regime di alternatività fra due o più tributi.
Le distinzioni in esame non toccano il nucleo fondamentale della fattispecie impositiva nei suoi elementi
essenziali ma costituiscono un modo descrittivo di cogliere le peculiarità della disciplina di singoli tributi o
del sistema tributario nel suo complesso per ricavarne una serie di classificazioni astratte.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 59. Esenzioni ed esclusioni nella dottrina tributaria
Si suole distinguere tra le fattispecie di esenzione e le fattispecie di esclusione.
A differenza di quelle precedentemente considerate, tale contrapposizione investe il modo d’essere e la
natura della norma e, di riflesso, della fattispecie impositiva dalla stessa delineata.
Cominciando dalle esenzioni, sembra doversi affermare che le relative norme da un lato presuppongono
l’esistenza di una norma generale suscettibile di abbracciare anche il caso o la situazione dalle prime
considerate, dall’altro, che le stesse norme di esenzione si configurano come autonome disposizioni non
eccezionali bensì speciali, derogatorie rispetto a quella generale, contrassegnate dall’intento di differenziare
la disciplina di specifiche situazioni in ragione della rilevanza ad esse riservata.
Ciò aiuta a comprendere come:
a. le norme di esenzione di in non nella più ampia categoria delle norme agevolative, potendo il beneficio
consistere, anziché nella totale sottrazione al prelievo, nell’assoggettamento a quest’ultimo in misura ridotta
o con modalità meno gravose;
b. le esenzioni si distinguano in soggettive ed oggettive, a seconda che l’esonero dal tributo sia accordato
sulla scorta di ragioni attinenti alla persona del beneficiario oppure a profili ed elementi propri della
situazione in sé considerata;
c. pur in presenza di una esenzione, possono permanere, in capo al soggetto che ne usufruisce, obblighi
formali e strumentali.
Veniamo alle esclusioni: le norme che prevedono assolvono al diverso compito di concorrere con la norma
base a delimitare i confini della fattispecie impositiva; mi discende che tali norme sono prive di una reale
autonomia.
Le norme in questione non rivestono un carattere di specialità, bensì operano in modo sistematico nel
delimitare l’ambito oggettivo del tributo in chiave con la ratio ad esso sottesa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 60. L’obbligazione d’imposta e la sua autonomia
L’effetto specifico e diretto che si determina allorquando si verifica in concreto l’astratta fattispecie
impositiva è dunque costituito dalla nascita di un’obbligazione e di un correlato diritto di credito, facenti
capo a soggetti che assumono rispettivamente la veste di debitore e creditore di imposta.
Prescindendo dall’anzidetto rapporto di debito/credito che ha ad oggetto l’imposta e che trova il suo
legittimo titolo giustificativo nella capacità contributiva, le ulteriori molteplici situazioni soggettive che
possono venire ad esistenza con riguardo ed in occasione del dispiegarsi del fenomeno impositivo sono così
analiticamente individuabili:
1. obblighi e doveri formali che sorgono a carico del contribuente in dipendenza del verificarsi della stessa
fattispecie cui risulta collegata l’obbligazione impositiva (ad esempio, l’obbligo di presentare la
dichiarazione);
2. obblighi e doveri formali imposti a soggetti suscettibili di assumere la veste di contribuente, ma in
dipendenza di fattispecie autonome rispetto a quella di imposta (ad esempio, nel settore dell’imposizione sui
redditi, gli obblighi contabili gravanti su coloro che svolgono determinate attività dalle quali può scaturire
materia imponibile);
3. obbligazioni accessorie distinte dall’obbligazione di imposta sia sotto il profilo della causa legis che del
titolo giustificativo (tale è quella avente ad oggetto il pagamento degli interessi moratori);
4. poteri e facoltà dell’amministrazione finanziaria che, pur esercitabili in vista del controllo circa l’esatto
adempimento dell’eventuale prestazione impositiva, non risultano subordinati al concreto verificarsi della
fattispecie tributaria: ciò è confermato dal fatto che essi hanno quali destinatari una ampia gamma di
soggetti comprendente anche persone ed enti del tutto estranei alla manifestazione di capacità contributiva
colpita dallo specifico tributo; nonché poteri e facoltà dell’amministrazione medesima che attengono alla
fase meramente attuativa dell’obbligazione di imposta;
5. obblighi e doveri formali, a contenuto positivo e negativo, che incombono su terzi, la cui nascita a volte si
collega al verificarsi della fattispecie imponibile; ed altre volte ne prescinde, essendo detti obblighi e doveri
formali imposti dalla legge al fine di prevenire l’evasione di imposta, o scaturendo dall’esercizio dei poteri
di controllo spettanti agli uffici finanziari;
6. obbligazioni aventi ad oggetto prestazioni sostanzialmente identiche a quella tributaria, peraltro
legittimate da un loro proprio e distinto titolo giustificativo (ci riferiamo alle obbligazioni del sostituto e del
responsabile d’imposta).
Orbene, che le situazioni soggettive consistenti negli obblighi, nei poteri e nelle obbligazioni testè enucleati
siano di regola caratterizzate da un collegamento strumentale e funzionale con il rapporto di debito/credito
insorto o che può insorgere tra contribuente ed ente impositore è fuor di dubbio.
Peraltro, non si vede come ciò possa autorizzare la indiscriminata e generalizzata attrazione delle situazioni
suddette nell’alveo del rapporto di debito/credito, fino a pervenire alla configurazione di un unico ed
unitario rapporto a contenuto definito per l’appunto complesso: così cancellando l’autonomia che pur
sempre tali obblighi, poteri ed obbligazioni rivestono sul piano giuridico con riguardo a uno o più dei tre
elementi essenziali ed identificativi del singolo e specifico rapporto (oggetto, soggetti e causa).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 61. Il contenuto proprio dell’obbligazione d’imposta
Tornando all’obbligazione di imposta, è convinzione del tutto pacifica che essa, pur appartenendo al novero
delle obbligazioni pubbliche, non si differenzi per nulla dalle obbligazioni di diritto privato.
Se una differenza è riscontrabile fra la prima e la seconda, questa attiene ad aspetti diversi, individuabili
nella rigorosa e tassativa disciplina formale delle modalità di attuazione del rapporto obbligatorio di
imposta, a fronte dell’opposto principio di libera determinazione per le obbligazioni di diritto privato.
È peraltro indubbio che, laddove la suddetta peculiare disciplina manchi, torna senz’altro applicabile, in
quanto compatibile, quella specificamente contenuta nelle norme di diritto civile.
Che poi, di regola, la prestazione oggetto dell’obbligazione di imposta sia costituita dalla dazione di una
somma di denaro è altrettanto indubitabile.
Semmai, va ricordato che il legislatore ha previsto, sebbene assai di rado, che l’adempimento del tributo
possa avvenire, anziché con la corresponsione di una somma di danaro, anche con il trasferimento di
determinati beni a favore dell’ente impositore.
In tale ultimo caso sembra a noi che ricorra un’ipotesi non di obbligazione alternativa, in quanto un solo è e
resta l’oggetto del rapporto obbligatorio, bensì di prestazione in luogo di adempimento.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 62. L’unicità del presupposto e l’unicità dell’obbligazione nel diritto
amministrativo
Una questione che non si può fare a meno di affrontare per i suoi riflessi pratici oltre che teorici è quella se a
ciascun presupposto corrispondano una o più obbligazioni.
La tesi della pluralità riscontra favori soprattutto in quella parte della dottrina che nega la fonte legale
dell’obbligazione predetta, collegandone viceversa la nascita ai vari atti definiti per l’appunto impositivi;
con il corollario che, se più sono questi ultimi pur con riferimento allo stesso presupposto, sarebbe dato
individuare altrettanto autonome ancorché collegate obbligazioni.
Viceversa, chi propende per la concezione della fonte legale dell’obbligazione non ha alcuna difficoltà a
configurare in termini unitari l’obbligazione che scaturisce dal singolo e specifico presupposto pur quando la
sua attuazione avvenga in epoche diverse e frazionatamente.
È opportuno far presente che alcuni presupposti (come il possesso di un reddito o di un patrimonio)
mostrano carattere non istantaneo bensì tendenzialmente continuativo; ciò induce il legislatore, per ovvi
motivi, a ripartire il presupposto in una pluralità di frazioni, rapportandole ad intervalli temporali
predeterminati che si sogliono designare con il nome di periodi di imposta, ad ognuno dei quali corrisponde
una distinta ed autonoma obbligazione.
Va soggiunto che la funzione del periodo di imposta può anche essere quella, di segno opposto, consistente
nell’unificare una pluralità di situazioni, ciascuna delle quali di per sé suscettibile di assurgere al rango di
singolo presupposto, dando così vita ad un’obbligazione unica (si pensi in proposito all’IVA, gravante sulle
singole operazioni imponibili; operazioni che il legislatore provvede peraltro ad unificare nell’arco dell’anno
solare).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 63. L’entità della prestazione dovuta a titolo di imposta
L’entità della prestazione dovuta a titolo di imposta può essere stabilita in misura fissa o variabile.
È stabilita in misura fissa quando la legge quantifica la prestazione suddetta non solo in una somma di
denaro predeterminata ma, altresì, non soggetta a variazioni quale che sia la valenza economica del
fenomeno considerato.
Si potrebbe obiettare che in tali casi viene a spezzarsi il collegamento tra imposizione e capacità
contributiva; peraltro, siffatti dubbi svaniscono ove si consideri che negli ordinamenti moderni la
prestazione coattiva ha finito sempre più spesso per perdere, nelle situazioni di cui trattasi, la sua fisionomia
di imposta, tramutandosi in una tassa dovuta a fronte di determinati servizi dei quali usufruisce il soggetto
passivo (il pensiero corre all’applicazione in misura fissa dell’imposta di registro).
È stabilita in misura variabile, viceversa, quando l’ammontare dell’imposta cambia, secondo criteri diversi,
in funzione della dimensione economica del parametro di commisurazione prescelto dal legislatore.
È dato distinguere:
a. le imposte proporzionali, nelle quali l’entità della prestazione è rapportata alla base imponibile per
l’appunto secondo una proporzione che resta immutata a prescindere dalle variazioni di detta base.
All’interno di siffatta categoria vanno operate ulteriori distinzioni in funzione del tipo di aliquota:
i. aliquota fissa, quando essa consiste in una determinata somma riferita certe volte ad una base imponibile
espressa in termini monetari ma assunta per scaglioni, all’interno dei quali l’importo del tributo non varia
(sono i casi di imposta graduale: X per ogni mille lire); altre volte, e più frequentemente, riferita invece ad
una base imponibile non pecuniaria (sono i casi del cosiddetto “tasso di imposta”: X lire per ettolitro);
ii. aliquota percentuale, allorquando essa è direttamente espressa da un coefficiente frazionale (X per cento);
b. le imposte progressive, nelle quali vengono applicate aliquote variabili in misura crescente con
l’aumentare della base imponibile.
La progressività può essere:
i. continua o lineare, allorché ad ogni mutamento di detta base imponibile corrisponde altresì un incremento
dell’aliquota;
ii. per scaglioni, quando la base imponibile è suddivise in fasce successive e crescenti, cui corrispondono
aliquote percentuali diverse e maggiori.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 64. La modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria
Da ultimo, ci si deve occupare dei modi di estinzione dell’obbligazione tributaria, distinguendo fra modi
satisfattori e modi non satisfattori.
Iniziando dai modi satisfattori viene in considerazione in primo luogo l’adempimento; quindi la
compensazione, ritenuta dalla prevalente dottrina incompatibile con il carattere indisponibile del credito
tributario, ma poi prevista espressamente dallo Statuto dei diritti del contribuente.
La compensazione risulta ora possibile anche quando i rapporti obbligatori contrapposti attengano a tributi
di tipo diverso ovvero riguardino prestazioni non aventi natura propriamente tributaria (contributi
previdenziali) ed ancorché gli obblighi di dichiarazione relativi a tutte le anzidette prestazioni restino tuttora
per più versi distinti.
In proposito, la compensazione prevista dallo Statuto si differenzia in modo assai rilevante da quella
civilistica, in quanto sembrerebbe possibile che l’effetto estintivo si verifichi anche laddove non vi sia
identità fra i soggetti che assumono le contrapposte posizioni creditorie e debitorie.
Ciò risulta chiaro non appena si consideri che la compensazione è ammessa anche fra crediti nei confronti
dell’amministrazione finanziaria centrale e debiti verso gli istituti previdenziali o le Regioni e viceversa.
Il che impone di ritenere che nella compensazione operino una pluralità di istituti riconducibili, per un verso,
alla delegazione di debito fra il contribuente/delegante ed un ente/delegato (che è, nei confronti di questi, in
una posizione debitoria) il cui oggetto è rappresentato dall’assunzione di un’obbligazione nei confronti di
altro ente/delegatario; e, per altro verso, alla compensazione vera e propria.
In relazione al rapporto di delegazione, si verificheranno poi due distinte serie di compensazioni: la prima è
quella che avrà luogo fra il credito del contribuente/delegante e il debito di questi relativo alla provvista che
egli sarebbe tenuto a fornire all’ente/delegato; la seconda è l’insieme delle compensazioni che verranno
poste in essere tra i diversi enti.
Passando ai modi non satisfattori, se ne deve escludere l’operatività nel nostro campo.
Ciò vale, in particolare, per la remissione e la novazione, a motivo del loro carattere negoziale che urta con
la rilevata indisponibilità del credito di imposta.
Torna viceversa applicabile quel particolare ed a sé stante metodo di estinzione che è costituito dalla
confusione, il quale si verifica allorquando l’ente impositore, titolare del diritto di credito, subentra per
successione nel patrimonio del contribuente defunto.
Infine, l’estinzione dell’obbligazione tributaria può determinarsi a seguito dell’estinzione del diritto di
credito dell’ente impositore per effetto di prescrizione o di decadenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 65. I soggetti attivi di imposta
Quanto al soggetto attivo di imposta, sembrerebbe che ci sia poco o nulla da aggiungere, esso
identificandosi con il creditore della prestazione, come tale legittimato a far valere la propria pretesa, se del
caso in via coattiva, nei confronti di tutti coloro che per legge sono tenuti all’adempimento.
Tuttavia, alcune precisazioni appaiono necessarie.
In primo luogo, dovendosi ravvisare il fondamento della potestà di istituire i tributi nella sovranità e il suo
fine nella necessità di attuare il concorso dei consociati alle spese pubbliche, diventa inevitabile che il
soggetto attivo di imposta si identifichi di regola nello Stato o nell’ente pubblico esponenziale
dell’ordinamento collegato con quello statuale; o anche nelle entità sovranazionali a favore delle quali siano
attuate le limitazioni di cui all’art. 11 cost.
Si comprendono altresì i motivi della normale coincidenza tra la figura del soggetto attivo e quella dell’ente
impositore, intendendosi per tale l’ente cui è riferibile l’atto istitutivo del tributo.
In via strettamente consequenziale, la distinzione in tributi statali o erariali, regionali, provinciali, comunali,
ecc… sta ad indicare che si tratta di volta in volta di tributi istituiti da uno di tali enti, il quale si configura
altresì come creditore della relativa prestazione.
La seconda precisazione serve a mettere in luce come l’ente impositore, creditore dell’imposta, non sempre
sia l’integrale ed esclusivo beneficiario del gettito finanziario potendo il legislatore stabilire che questo
debba essere devoluto in tutto o in parte ad un soggetto diverso.
Nelle situazioni qui considerate, il beneficiario del tributo rimane estraneo al rapporto di imposta, divenendo
semplicemente titolare di una pretesa creditoria nei confronti dell’ente impositore; onde si giustificano
alcuni poteri riconosciuti a tale soggetto dalla legge.
I tratti peculiari di credito di imposta né comportano il carattere strettamente personale.
Ne discende, salva diversa disposizione della legge tributaria, che il credito stesso non è suscettibile di
cessione; e che neppure possono essere trasferiti a terzi, in mancanza di analoga esplicita previsione
legislativa, i poteri di cui è titolare l’ente impositore in tema di accertamento e di riscossione.
Per quanto riguarda la cessione del credito, le deroghe alla incedibilità sono sempre state molto rare; più
frequenti sono viceversa i casi in cui l’attuazione del rapporto obbligatorio, con il corredo dei poteri che vi si
collegano, viene affidata in tutto o in parte a soggetti diversi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 66. L’organizzazione dell’amministrazione finanziaria
La vincolatezza ad un fine predeterminato dalla legge comporta che le attività attraverso le quali si
realizzano le funzioni pubbliche vengano valutate ed apprezzate anche sotto il profilo dell’attitudine dei
mezzi scelti al perseguimento dei fini.
Da ciò consegue la rilevanza non soltanto dei risultati raggiunti, ma anche delle modalità di svolgimento
dell’azione amministrativa.
Il grado di efficienza di un sistema fiscale così viene sovente misurato non dalla astratta idoneità delle
norme a funzionare adeguatamente rispetto alle dinamiche economiche, quanto piuttosto dalla capacità
operativa dell’organizzazione predisposta per il funzionamento delle norme.
L’assetto tradizionale dell’amministrazione finanziaria era incardinato intorno al ruolo centrale del
Ministero dell’economia e delle finanze, dotato non soltanto di una funzione progettuale ed interpretativa
delle norme tributarie, ma anche di penetranti poteri diretti a consentire l’attuazione concreta delle norme.
L’organizzazione amministrativa constava in una struttura centrale e di una struttura periferica, a sua volta
articolata su base regionale e su base provinciale.
Fino al 1991 il Ministero dell’economia era ripartito in dieci direzioni generali con competenze distinte per
materia; così come a livello regionale e periferico.
Con la l. 358/91 vi è stata una riforma diretta a perseguire l’unificazione dei vari organi in ragione delle
funzioni anziché secondo materie e tributi.
Il punto di rottura del disegno riformatore può essere individuato nell’eccessiva lentezza con la quale stata
attuata la riorganizzazione amministrativa.
Addirittura si è andato affermando il convincimento che le strutture organizzative delineate con la l. 358/91
fossero da considerare superate ancor prima di entrare completamente a regime in considerazione delle
esigenze irreversibilmente emerse nel sistema fiscale (ed in specie quelle del fisco telematico e del
federalismo fiscale).
È dunque comprensibile che in questo contesto si siano delineate ipotesi normative relative ad una
riorganizzazione dell’attività di accertamento che si incardinano intorno alla costituzione di una Agenzia
tributaria operante in sostanziale autonomia rispetto al Ministero dell’economia e delle finanze, con
modalità organizzative di tipo privatistico che garantiscano agilità e fluidità all’azione di accertamento.
Si può rilevare come non esistano in linea di principio ostacoli di carattere costituzionale all’attribuzione di
una funzione pubblica a soggetti diversi dalla pubblica amministrazione, siano essi enti pubblici o soggetti
privati.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 67. Competenze dell'Agenzia delle entrate
Il d.lgs. 300/99 ha previsto il trasferimento delle funzioni originariamente di competenza dei dipartimenti a
favore di agenzie costituite nella forma dell’ente pubblico non economico, nei confronti delle quali il
Ministero dell’economia e delle finanze svolge una mera funzione di vigilanza e controllo.
Le agenzie istituite sono quattro, di cui una (Agenzia delle entrate) è dedicata alla cura specifica delle
attività amministrative di carattere tipicamente tributario e si articola a sua volta in una direzione generale,
in direzioni regionali ed in uffici periferici operativi dislocati nel territorio nazionale.
All’Agenzia delle entrate è assegnata la competenza esclusiva ad effettuare l’intera sequenza di atti di cui si
compone la funzione amministrativa concernente l’attuazione delle principali imposte erariali.
In sostanza, l’Agenzia delle entrate va sostituendo integralmente il ruolo occupato fino ad ora dagli uffici del
Ministero dell’economia e delle finanze, assumendone tutti i poteri e le competenze relative all’attuazione
delle prestazioni tributarie.
Si tratta non tanto di una riforma che attiene all’organizzazione, intesa come modo di essere del centro di
imputazione dell’attività (che resta pubblico), quanto piuttosto di una revisione dell’attività ed in particolare
dei moduli regolamentari da cui dipende il concreto svolgimento dell’azione amministrativa.
Una diversa impostazione sembra provenire invece dalla disciplina della finanza locale, nell’ambito della
quale sono previste regole dirette ad attribuire poteri di controllo a soggetti esterni all’amministrazione
finanziaria, anche organizzati in forme privatistiche.
Il dato qualificante della normativa indicata concerne la previsione di una facoltà di delega a soggetti privati,
il cui oggetto è limitato a segmenti dell’attività di accertamento, e comunque non riguarda l’intera procedura
di accertamento.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 68. I soggetti passivi dell’obbligazione d’imposta
Dobbiamo adesso occuparci dei soggetti passivi dell’obbligazione d’imposta, con riferimento ai quali il
discorso si presenta assai più complicato che non per i soggetti attivi.
Si può ritenere che anche la nozione di soggetto passivo si presta ad essere dedotta dalle cose finora dette in
punto di titolo giustificativo della prestazione impositiva.
Sicché soggetti passivi del tributo devono ritenersi coloro che sono tenuti ad effettuare siffatta prestazione a
titolo di capacità contributiva nei confronti del soggetto attivo creditore di imposta e nei cui riguardi il
secondo può agire, se del caso in via coattiva, per la realizzazione della sua pretesa.
Sennonché, si deve in primo luogo prendere atto che nell’ambito del diritto tributario vengono in
considerazione ulteriori categorie di soggetti, variamente denominati (sostituti, responsabili di imposta) e
pur essi coinvolti nell’adempimento della prestazione impositiva; con la conseguente necessità di precisarne
le rispettive posizioni, identificando le situazioni giuridiche che fanno capo a ciascuno di tali soggetti,
nonché e soprattutto il titolo giustificativo delle prestazioni obbligatorie cui i medesimi sono per legge
tenuti.
Il collegamento fra l’oggetto del tributo e il soggetto passivo induce ulteriormente a rilevare che il
legislatore, allorquando abbia proceduto ad individuare la manifestazione di capacità contributiva che
intende assoggettare al prelievo, si trova ad essere vincolato nella identificazione di coloro cui imputare
l’obbligazione d’imposta, pena la violazione del principio sancito dall’art. 53 cost.
Ciò vale, ad esempio, per le imposte che colpiscono il possesso di un reddito o di un patrimonio, con
riferimento alle quali l’obbligazione impositiva non può che gravare sui soggetti cui spetta la giuridica
titolarità dell’una e dell’altre entità economica.
Altre volte, viceversa, l’oggetto imponibile è tale per cui la capacità contributiva è riferibile ad una pluralità
di soggetti; nel qual caso il legislatore può attribuire la soggettività passiva a tutti o soltanto alcuni di
costoro.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 69. Il contribuente di diritto e il contribuente di fatto: la traslazione
dell’onere impositivo
I soggetti passivi del tributo vengono definiti anche contribuenti di diritto per distinguerli dai cosiddetti
contribuenti di fatto, incisi o percossi: vale a dire da coloro sui quali l’onere finanziario, in cui si traduce la
prestazione impositiva, viene ad essere riversato dal soggetto tenuto per legge ad effettuarla e che pertanto
sono gravati in via definitiva da detto onere (traslazione di imposta).
La distinzione consente di ribadire che i contribuenti di fatto, pur se toccati dai risvolti economici del
fenomeno impositivo, restano totalmente estranei all’imputazione degli effetti della fattispecie imponibile e
quindi al rapporto obbligatorio di imposta.
V’è da rilevare che nella maggioranza dei casi il legislatore tributario si disinteressa completamente della
vicenda, la quale viene a dipendere o dal gioco delle regole di mercato oppure dallo specifico assetto
negoziale impresso al riguardo dalle parti del rapporto.
La prima ipotesi si verifica tutte le volte che il contribuente di diritto in sede di definizione dei rapporti
giuridico-economici instaurati con il contribuente di fatto riesce ad inglobare nella prestazione gravante sul
secondo (in genere nel prezzo o corrispettivo) una quota corrispondente, in tutto o in parte, all’entità
dell’obbligazione impositiva al cui adempimento è per legge tenuto (fenomeno della traslazione occulta).
La seconda ipotesi ricorre ancorché il contribuente di diritto, per il tramite di una specifica clausola
contrattuale, convenga con il contribuente di fatto che quest’ultimo si accolli l’onere economico della
prestazione tributaria su di cui facente carico, con l’obbligo conseguente di rimborsargli le somme dovute a
tale titolo (fenomeno della traslazione pattizia).
Ovviamente tali patti hanno natura meramente interna e, quindi, sono inopponibili all’amministrazione
finanziaria creditrice, che pertanto è legittimata ad avanzare la sua pretesa nei confronti del debitore
originario non essendo costui liberato a seguito dell’accollo.
Detto questo, merita evidenziare che il vero problema sollevato dalla presenza di simile clausola è, in realtà,
quello del trattamento impositivo cui sottoporre le somme corrisposte da una parte all’altra inadempimento
dell’accordo in punto di traslazione del tributo.
Poiché tali somme rappresentano comunque per il percipiente ulteriore manifestazione della forza
economica sussunta nel presupposto impositivo e quindi colpita dal tributo, le medesime non possono non
entrare a far parte della base imponibile soggetta ad imposizione.
Si pensi all’ipotesi in cui il compenso per una prestazione di lavoro sia stabilito in 100 al netto delle imposte
dovute dal reddituario: in tal caso, il reddito del percipiente risulta per l’appunto costituito non da 100 bensì
dall’importo complessivo erogato in adempimento di siffatta clausola, comprensivo pertanto e in specie
anche della quota di rimborso dell’imposta (supposta quest’ultima pari a 20, il reddito imponibile ammonta
pertanto a 120).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 70. La traslazione per il legislatore tributario
Talora, peraltro, il legislatore tributario si occupa della traslazione, provvedendo a disciplinare lo strumento
per il cui tramite esso si realizza, cioè la rivalsa, in uno dei seguenti modi:
1. in primo luogo, la rivalsa può essere vietata, come era previsto per l’INVIM; qui la ragione sembrava
ravvisabile in una valutazione socio-politica, e precisamente nell’esigenza di evitare che l’alienante, il quale
profittava del plusvalore dell’immobile derivante da interventi posti in essere a spese della collettività,
tendesse a neutralizzare gli effetti del prelievo scaricandone l’onere sull’acquirente;
2. in secondo luogo, la rivalsa può costituire oggetto di un preciso obbligo giuridico, la cui osservanza è
pertanto presidiata dal corredo di una sanzione; è l’ipotesi dell’IVA, con riferimento alla quale la
giustificazione della previsione legislativa consiste nella connotazione che si è voluta dare al tributo in
esame nell’ambito delle scelte di politica economica e, più precisamente, essendo il medesimo destinato ad
incidere sui consumi finali.
Infatti l’IVA si atteggia in termini di tendenziale neutralità economica per gli operatori intermedi, sino a
scaricarsi definitivamente sui soggetti che consumano;
3. in terzo luogo, la rivalsa può essere contemplata dalla legge come mera facoltà riconosciuta a favore del
soggetto passivo; a seguito della previsione legale, le somme percepite in conseguenza dell’esercizio della
rivalsa non si confondono con la base imponibile e quindi restano estranee al calcolo dell’imposta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 71. Definizione di sostituto d’imposta
Esiste una definizione normativa estraibile dall’art. 64 d.p.r. 600/73: il sostituto è colui che, in forza di
disposizioni di legge, è tenuto al pagamento di imposte in luogo di altri per fatti o situazioni a questi
riferibili ed anche a titolo di acconto, con obbligo di rivalsa salvo che sia diversamente stabilito in modo
espresso.
L’istituto in questione andrebbe collocato non sul mero terreno dell’attuazione del rapporto obbligatorio di
imposta, bensì su quello dell’imputazione soggettiva dell’effetto collegato dalla norma al realizzarsi della
fattispecie impositiva: nel senso che in certi casi il legislatore, al fine di agevolare l’accertamento e la
riscossione del tributo, addosserebbe in via eccezionale la prestazione anziché al soggetto cui è riferibile la
concreta manifestazione di capacità contributiva (il sostituito) ad un altro e diverso soggetto (il sostituto)
facendo leva su di una particolare relazione intercorrente fra l’uno e l’altro; con la conseguenza che unico ed
esclusivo soggetto passivo d’imposta sarebbe, fin dall’origine, il sostituto, in luogo del sostituito.
Tale tesi suscita non poche perplessità: ricordiamo che a tenore dell’art. 53 cost. le prestazioni impositive
per un verso si configurano come le uniche, in aggiunta a quelle sanzionatorie, che si pongono al di fuori di
un rapporto di scambio; per l’altro trovano il loro legittimo titolo giustificativo esclusivamente nella capacità
contributiva, così realizzando il concorso dei singoli alle spese pubbliche.
Se così è, risulta di tutta evidenza che nel momento in cui si fa assurgere il sostituto ad unico soggetto
passivo della prestazione, ancorché egli resti estraneo alla manifestazione di capacità contributiva
specificamente assoggettata al prelievo, si viene a spezzare il nesso tra quest’ultima e l’imposizione.
La portata di questi dubbi è tale che essi non si possono certamente superare invocando, separatamente e/o
cumulativamente, il particolare rapporto esistente tra sostituto e sostituito o il diritto del sostituto o di
trasferire sul sostituito l’onere economico della prestazione mediante lo strumento della rivalsa.
Onde la necessità di sottoporre ad un attento e non preconcetto riscontro l’attendibilità dell’orientamento cui
si è fatto cenno.
In via preliminare, conviene muovere dalla constatazione che la sostituzione tributaria trova il suo campo
d’applicazione esclusivamente nel settore delle imposte dirette e in particolare delle imposte sui redditi.
Occorre esaminare separatamente le ipotesi di ritenuta alla fonte a titolo di acconto rispetto a quelle a titolo
di imposta, ricordando in via puramente esemplificativa e fra le ipotesi principali che:
a. nel novero delle ritenute alla fonte a titolo di acconto rientrano le ritenute effettuate sui compensi e altre
somme che costituiscono reddito di lavoro dipendente per i percipienti e sui compensi erogati a soggetti
residenti per prestazioni di lavoro autonomo;
b. nel novero delle ritenute alla fonte a titolo di imposta vanno viceversa ricomprese alcune delle ritenute
effettuate dalle società ed enti che hanno emesso obbligazioni e titoli similari sugli interessi e su altri
proventi corrisposti ai possessori dei titoli stessi, quelle sugli utili quando distribuiti a soci non residenti e
altresì le ritenute operate sulle vincite derivanti da giochi di abilità, concorsi a premi e scommesse.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 72. Ritenute alla fonte a titolo di acconto
Nelle ipotesi di ritenute alla fonte a titolo di acconto, ci si trova in presenza di siffatto meccanismo:
a. il sostituto, di regola all’atto del pagamento della somma costituente reddito per il sostituito, opera la
ritenuta cui è obbligato per legge, provvedendo a versarne l’importo all’ente impositore nei termini e
secondo le modalità all’uopo fissate;
b. a sua volta il sostituito non solo deve registrare il reddito in questione nelle proprie scritture, ma deve
comprendere lo stesso nella dichiarazione tributaria annuale;
c. pertanto il sostituito, nel procedere all’autoliquidazione dell’imposta dovuta sulla base della propria
dichiarazione, non può non tenere conto anche dei redditi soggetti a ritenuta, ne scomputa l’ammontare
dall’imposta che è tenuto a corrispondere in base al dichiarato (per effetto di tale scomputo, può evidenziarsi
o un residuo debito oppure addirittura un credito oppure né l’uno né l’altro, a seconda che l’entità
complessiva di tutte le ritenute cui il sostituito è stato assoggettato per i redditi del periodo sia inferiore o
superiore o pari al tributo risultante dall’autoliquidazione).
Se, viceversa, per qualunque ragione, la ritenuta non venga effettuata dal sostituto, il sostituito non può
ovviamente scomputarne l’importo in sede di dichiarazione annuale, e quindi deve corrispondere
integralmente l’imposta sui propri redditi.
Basta enunciarla questa sequenza per convincersi che non è in alcun modo possibile considerare il sostituito
estraneato completamente dal rapporto impositivo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 73. Ritenute alla fonte a titolo di imposta
Quando la ritenuta è stabilità titolo di imposta, il reddituario sostituito è esonerato dall’adempimento degli
obblighi strumentali che fanno capo al contribuente/soggetto passivo di imposta.
Ciò non è senza spiegazioni: da un lato, l’intervento del terzo sostituto è in grado di garantire a sufficienza
l’interesse della finanza, dall’altro, la previsione della ritenuta a titolo di imposta è finalizzata a volte proprio
e specificamente alla tutela dell’anonimato del percettore del reddito, mentre nei residui casi tende a
conferire snellezza e soprattutto effettività al prelievo.
Nonostante tale indiscutibile realtà, “quando il sostituto viene iscritto a ruolo per imposte, soprattasse (alle
quali devono oggi intendersi sostituite le sanzioni amministrative pecuniarie) e interessi relativi a redditi sui
quali non ha effettuato né la ritenuta a titolo di imposta né i relativi versamenti, il sostituito è coobbligato in
solido”.
Qualora la ritenuta sia stata omessa, il reddituario sostituito risponde dell’adempimento dell’obbligazione di
imposta in via solidale con il sostituto a titolo di imposta, essendogli riferibile la manifestazione di capacità
contributiva colpita dal rilievo e, quindi ed in definitiva, quale soggetto passivo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 74. L’istituto della sostituzione d'imposta
Volendo adesso operare il tentativo di una ricostruzione più soddisfacente si deve muovere da una
constatazione già fatta, cioè che le ipotesi di ritenuta alla fonte, in cui si sostanzia la sostituzione tributaria,
si collocano tutte sul terreno delle imposte sui redditi.
Il comune denominatore che ricorre in tali circostanze è l’esistenza di un rapporto di debito/credito tra il
sostituto e il sostituito: più precisamente, il primo soggetto (il sostituto), legittimato ed il più delle volte
obbligato ad effettuare la ritenuta, è tenuto a corrispondere un’entità costituente reddito e quindi presupposto
del tributo in capo al secondo (il sostituito); risolvendosi pertanto detta ritenuta nel trattenere una parte del
dovuto e quindi nel decurtare le relative somme di un importo corrispondente.
Quanto sopra ribadito e precisato, ci sembra consono allo scopo che ci siamo prefissi procedere
all’individuazione delle situazioni giuridiche che fanno costantemente capo al sostituto.
Al riguardo, vengono in primo luogo in considerazione tanto gli obblighi contabili quanto quelli aventi ad
oggetto la presentazione di apposita dichiarazione; obblighi chiaramente preordinati ad agevolare
l’accertamento del tributo.
Da un lato, invero, il sostituto, oltre a possedere una struttura organizzativa che gli consente di far fronte a
tali obblighi, è solitamente titolare di una pluralità potenzialmente indefinita di quei rapporti obbligatori con
i terzi/reddituari cui di regola si collega l’istituto in esame (si pensi alle ritenute del datore di lavoro sulla
massa dei propri dipendenti).
Dall’altro, il sostituto, non essendo il titolare del reddito colpito dal prelievo, ha sicuramente minore
interesse ad occultare all’amministrazione finanziaria la realizzazione in concreto della fattispecie
impositiva.
Un secondo ordine di situazioni giuridiche soggettive si colloca sul terreno del concreto soddisfacimento
della pretesa impositiva e coinvolge, oltre al rapporto fra sostituto ed amministrazione, anche quello fra
sostituto e sostituito.
Si tratta in particolare:
a. del diritto del sostituto nei confronti del sostituito reddituario di operare la ritenuta, ossia di trattenere una
parte della somma a lui dovuta;
b. dell’obbligazione, sussistente nei confronti della finanza, di corrispondere ad essa una somma pari
all’ammontare delle ritenute che il sostituto è legittimato ad effettuare.
Anche sotto il profilo effettuale, sembra a noi di poter all’uopo far riferimento allo schema della delegazione
di cui agli artt. 1268 ss. c.c.
Quest’ultima, la quale si caratterizza per la finalità solutoria, implica l’esistenza di un rapporto di mandato
fra delegante e delegato.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 75. Il sostituto d'imposta e l'adempimento dell'obbligazione della
prestazione impositiva
Orbene, quando si sia chiarito una volta per tutte che soggetto passivo d’imposta è e resta il sostituito, viene
meno ogni ostacolo a cogliere i punti di contatto fra la sostituzione tributaria e la delegazione in quanto
entrambi gli istituti si pongono sul terreno dell’adempimento dell’obbligazione e non della sua imputazione
soggettiva.
Con le seguenti differenze: nel caso della sostituzione, l’incarico del sostituto di adempiere l’obbligazione
del sostituito non è il frutto di un accordo negoziale fra tali soggetti in chiave di mandato, bensì è imposto
dalla legge; così come sempre dalla legge discende l’obbligazione autonoma di cui viene ad essere titolare il
sostituto nei confronti della finanza; infine, alla concreta effettuazione di tale ritenuta consegue, di nuovo ad
opera della legge, la liberazione del debitore originario, ossia del sostituito, indipendentemente dal fatto che
il sostituto provveda o meno ad adempiere la propria obbligazione mediante versamento della somma
corrispondente.
Tirando le fila del discorso, si può allora affermare il sostituto altri non è che un incaricato ope legis
dell’adempimento parziale o totale (a seconda che la ritenuta sia a titolo di acconto o di imposta) della
prestazione impositiva che fa carico al sostituito per conto di quest’ultimo.
Ciò non toglie che il sostituto sia titolare in proprio di un’obbligazione nei confronti dell’amministrazione
finanziaria, la quale si presenta con carattere di autonomia rispetto a quella di imposta, pur avendone lo
stesso oggetto.
Tale autonomia, peraltro, non può distruggere l’intimo nesso funzionale e strumentale che lega le due
obbligazioni e che si atteggia secondo lo schema del vincolo di pregiudizialità/dipendenza.
Consegue allora che qualora la ritenuta non venga eseguita ha difetto la condizione cui risulta collegato
l’effetto liberatorio del sostituito; talché, di fronte all’amministrazione finanziaria, si trovano ad essere
obbligati tanto l’uno che l’altro soggetto.
In tal caso, non possono sussistere dubbi sul fatto che l’amministrazione non può pretendere l’adempimento
di entrambe le obbligazioni; soluzione, questa, che trova puntuale riscontro in seno alla delegazione di
pagamento e che ha oggi, per quanto qui interessa, l’avallo della giurisprudenza.
È dato coerentemente propugnare, quindi, l’inesattezza della definizione legislativa contenuta nell’art. 64
d.p.r. 600/73, soprattutto nella parte in cui essa pretende di imputare soggettivamente l’obbligazione di
imposta al sostituto, anziché al sostituito, ed in luogo di quest’ultimo; nonché laddove trascura di
evidenziare che lo strumento costante per mantenere integro l’equilibrio economico fra sostituto e sostituito
è rappresentato dalla ritenuta operabile in via preventiva (per il cui tramite si realizza il cosiddetto rapporto
di provvista), e non da una facoltà di rivalsa concepita in termini generici e quindi senza garanzia di buon
esito.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 76. L’ambito di operatività della sostituzione tributaria
L’ambito di operatività della sostituzione tributaria, conforta l’assunto per cui il fulcro di essa è
rappresentato dal particolare rapporto di provvista intercorrente fra sostituto e sostituito, reso possibile dal
fatto che il primo detiene somme che sono giuridicamente di spettanza del secondo.
Ciò anche e soprattutto sotto il profilo della giustificazione costituzionale dell’istituto: detto rapporto è in
grado di preservare il sostituto dal rischio che l’onere impositivo resti a suo carico, con la conseguente
inosservanza del precetto dettato dall’art. 53 cost.; così come potrebbe verificarsi se egli fosse titolare
semplicemente di una facoltà di rivalsa, consistente nel diritto di pretendere dal sostituito, senza alcuna
garanzia di risultato, il ristoro di quanto tenuto a pagare all’amministrazione.
Per finire, resta da spendere qualche parola sul problema dell’esercitabilità della rivalsa da parte del sostituto
che abbia omesso di eseguire la ritenuta all’atto del pagamento delle somme dovute al sostituito.
Il problema deve essere risolto in senso positivo a meno che, per effetto dell’omessa ritenuta, il sostituito
abbia già provveduto ad adempiere per suo conto e direttamente la propria obbligazione tributaria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA 77. Definizione di responsabile d’imposta
L’altra categoria di soggetti coinvolti nel prelievo tributario è quella dei responsabili di imposta.
Anche con riguardo a costoro esiste una definizione legislativa, contenuta nell’art. 643 d.p.r. 600/73, in forza
della quale responsabile è colui che è tenuto al pagamento del tributo insieme con altri, per fatti e situazioni
esclusivamente riferibili a questi, nei confronti dei quali ha diritto di rivalersi.
Tale definizione, al pari di quella concernente il sostituto, riflette l’ordine di idee corrente in dottrina, la
quale tende ad annoverare il responsabile fra i soggetti passivi di imposta: da un lato, accomunando
responsabile e sostituto sotto il profilo della loro estraneità al fatto indice di capacità contributiva colpito dal
tributo; dall’altro, distinguendo le due figure per ciò che il responsabile, a differenza del sostituto, è tenuto al
pagamento dell’imposta non in luogo del contribuente bensì in aggiunta al medesimo.
In primo luogo, non possono considerarsi responsabili di imposta tutti quei soggetti che sono titolari soltanto
di obblighi formali e strumentali nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ma non sono tenuti in
nessun caso al soddisfacimento alla prestazione impositiva; ciò che, viceversa, costituisce fuori di ogni
dubbio l’elemento caratterizzante dell’istituto in esame.
In secondo luogo, non sono neppure da annoverarsi fra i responsabili di imposta coloro che autorevole
dottrina ha qualificato come coobbligati solidali dipendenti limitati.
Trattasi, invero, di soggetti sui quali non incombe alcuna obbligazione, essendo i medesimi semplicemente
terzi esposti all’azione esecutiva del creditore su alcuni beni di loro proprietà gravati da diritti reali di
garanzia.
In conclusione, è dato affermare che la figura del responsabile ricorre tutte le volte in cui la legge, allo scopo
di meglio assicurare il soddisfacimento della pretesa erariale, chiama a rispondere dell’adempimento del
tributo, insieme con il soggetto passivo dell’imposta, altri soggetti ai quali non è riferibile la fattispecie
imponibile e che diventano pertanto titolari di una propria autonoma obbligazione nei confronti della
finanza.
Naturalmente, come già rilevato per il sostituto, si appalesa decisiva al riguardo l’individuazione del titolo
giustificativo della prestazione che viene a gravare sul responsabile; titolo che si diversifica dalla capacità
contributiva e che occorre individuare specificamente, anche al fine di stabilirne i limiti di compatibilità con
i precetti costituzionali.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Concetti sul diritto tributario e sull'IVA