Questi ottimi appunti trattano "Lezioni di diritto processuale civile" di Proto Pisani dal capitolo ottavo al capitolo diciottesimo.
I temi trattati sono:
- I requisiti extraformali relativi alle parti, con approfondimento sul liticonsorzio necessario
- la connessione e i limiti soggettivi del giudicato (i limiti soggettivi della sentenza civile, l'intervento volontario, la chiamata in causa su istanza di parte e su ordine del giudice)
- le impugnazioni: l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione, l'opposizione di terzo
- la tutela sommaria: il procedimento d'ingiunzione, il procedimento per convalida di sfratto, la condanna con riserva
- la tutela cautelare
- i procedimenti in camera di consiglio
- l'esecuzione forzata: l'espropriazione forzata, l'esecuzione forzata in forma specifica
- i procedimenti speciali: separazione e divorzio, le sentenze straniere, l'arbitrato
- il processo del lavoro
- il processo societario
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte
di Stefano Civitelli
Questi ottimi appunti trattano "Lezioni di diritto processuale civile" di Proto
Pisani dal capitolo ottavo al capitolo diciottesimo.
I temi trattati sono:<br />
- I requisiti extraformali relativi alle parti, con approfondimento sul liticonsorzio
necessario<br />
- la connessione e i limiti soggettivi del giudicato (i limiti soggettivi della
sentenza civile, l'intervento volontario, la chiamata in causa su istanza di parte
e su ordine del giudice)<br />
- le impugnazioni: l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione,
l'opposizione di terzo<br />
- la tutela sommaria: il procedimento d'ingiunzione, il procedimento per
convalida di sfratto, la condanna con riserva<br />
- la tutela cautelare<br />
- i procedimenti in camera di consiglio<br />
- l'esecuzione forzata: l'espropriazione forzata, l'esecuzione forzata in forma
specifica<br />
- i procedimenti speciali: separazione e divorzio, le sentenze straniere,
l'arbitrato<br />
- il processo del lavoro<br />
- il processo societario
Università: Università degli Studi di Firenze
Facoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto processuale civile, a.a.2007/2008
Titolo del libro: Lezioni di diritto processuale civile
Autore del libro: A. Proto Pisani1. Il litisconsorzio necessario
Ai sensi dell’art. 102 c.p.c. “se la decisione non può pronunciarsi in confronto di più parti, il giudice ordina
l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito”.
Esempi di litisconsorzio necessario espressamente previsti dalla legge sono:
- l’art. 784 c.p.c. secondo cui “le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi altra
comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini”;
- l’art. 247 c.c. secondo cui “il presunto padre, la madre ed il figlio sono litisconsorti necessari a nel giudizio
di disconoscimento della paternità”;
- l’art. 2900 c.c. secondo cui il creditore, qualora agisca giudizialmente in surrogatoria, “recitare anche il
debitore al quale intende surrogarsi”.
Esaminiamo prima la disciplina processuale e, poi, il delicatissimo tema dell’ambito di applicazione della
norma sul litisconsorzio necessario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 2. La disciplina processuale del litisconsorzio necessario
Essa può essere così riassunta:
Ove la domanda non sia proposta nei confronti di tutti i litisconsorti necessari, il legislatore prevede un
particolare meccanismo di sanatoria, a carattere retroattivo, del vizio derivante dal difetto di questo requisito
extraformale: il giudice, rilevato d’ufficio il vizio, ordina alle parti l’integrazione del contraddittorio entro
un termine perentorio; ove nessuna delle parti provveda ad ottemperare all’ordine del giudice, il processo si
estingue.
Altra fattispecie sanante è prevista a seguito dell’intervento volontario del litisconsorte necessario
pretermesso.
La proposizione della domanda nei confronti di alcuni solo dei litisconsorti necessari è idonea a produrre
tutti gli effetti sostanziali e processuali.
Il vizio di mancata integrità del contraddittorio è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
procedimento; se è rilevato in appello o in cassazione comporta sempre l’annullamento della sentenza
viziata e la rimessione della causa al giudice di primo grado, davanti al quale il processo va riassunto entro il
termine perentorio di 6 mesi.
La sentenza passata in giudicato pronunciata in assenza di un litisconsorte necessario è inutiliter data.
Con questa espressione si vuole intendere l’incapacità del giudicato sostanziale di produrre i suoi effetti sia
nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso sia nei confronti delle parti fra cui si è svolto il
processo.
In sostanza, ci si trova alla presenza di un vizio rispetto al quale non ha possibilità di operare il principio
della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 3. Applicazione dell'art. 102 c.p.c.: proposizione della domanda da
parte di un legittimato straordinario
L’art. 102 c.p.c. tace completamente in ordine al problema dell’ambito di applicazione.
Tale articolo trova applicazione, essenzialmente, in tre serie di ipotesi:
ipotesi determinate dalla proposizione della domanda da parte di un legittimato straordinario.
In queste ipotesi al processo deve partecipare anche il legittimato ordinario cui il legittimato straordinario si
è sostituito
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 4. Applicazione dell'art. 102 c.p.c.: deduzione in giudizio di un
rapporto plurisoggettivo
Ipotesi determinate dalla deduzione in giudizio di un rapporto plurisoggettivo.
Le soluzioni prospettabili sono sostanzialmente quattro:
- secondo la prima, si avrebbe litisconsorzio necessario nei soli casi espressamente previsti dalla legge, fuori
di essi, ove sia dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo tra alcuni soltanto dei soggetti che ne sono
compartecipi, spetterebbe al giudice valutare se vi sono motivi di opportunità per disporre l’intervento coatto
per ordine del giudice, senza che il mancato esercizio di questo potere ufficioso incida in modo alcuno sulla
validità del processo.
La soluzione si scontra contro una prassi giurisprudenziale costante nell’ammettere la necessità del
litisconsorzio al di là dei casi espressamente previsti dalla legge;
- per la seconda soluzione sussisterebbe una normale necessaria correlazione tra parti dei rapporti sostanziali
plurisoggettivi e parti del processo: così che, ogniqualvolta sia dedotto in giudizio un rapporto
plurisoggettivo, si avrebbe sempre litisconsorzio necessario, pure al di là dei casi espressamente previsti
dalla legge.
Questa soluzione è contraddetta da chiare norme di diritto positivo che, alla presenza di rapporti
plurisoggettivi, espressamente consentono che il processo possa validamente e utilmente svolgersi senza la
partecipazione di tutte le parti del rapporto sostanziale: mi riferisco soprattutto all’art. 1306 c.c. che, in
ipotesi di obbligazioni solidali e di obbligazioni indivisibili, dà per presupposto che il processo possa
validamente svolgersi tra un solo concreditore e il debitore o tra il creditore e un solo condebitore;
- la terza soluzione accolta, almeno formalmente, dalla giurisprudenza e dalla prevalente dottrina, afferma
che, in ipotesi di deduzione in giudizio di rapporti plurisoggettivi, si avrebbe litisconsorzio necessario, al di
là dei casi previsti espressamente dalla legge, solo se è esercitata una azione costitutiva.
La soluzione non convince.
Innanzitutto perché si fonda su una nozione dai caratteri niente affatto sicuri, quale l’azione costitutiva.
Indipendentemente da tale rilievo, la soluzione non riesce a giustificare perché una sentenza che pronuncia
l’annullamento di un contratto bilaterale a parti collettive sarebbe inutiliter data, mentre tale non sarebbe una
sentenza dichiarativa della nullità.
Questi rilievi critici inducono a non ritenere soddisfacente neanche la terza soluzione;
- soluzione accolta: in ipotesi di deduzione in giudizio di un rapporto plurisoggettivo si ha litisconsorzio
necessario, indipendentemente dal se l’azione fatta valere sia costitutiva, di condanna, di mero accertamento,
sempre e solo che rapporto sia indivisibile e non sia possibile applicare la disciplina dell’art. 1306 c.c.,
secondo cui la sentenza pronunciata nei confronti di uno solo dei contitolari attivi o passivi del rapporto ha
efficacia a favore, ma non contro i contitolari che non hanno partecipato al processo.
Mi sembra che l’art. 1306 c.c. non possa operare, e che quindi si abbia litisconsorzio necessario:
- in ipotesi di azioni contrattuali, ove sia richiesta l’emanazione di un provvedimento che accerti l’efficacia o
l’inefficacia reale del contratto; infatti, l’efficacia reale, per la sua inscindibilità, è tale che o si realizza nei
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte confronti di tutti i soggetti del rapporto o non si realizza nei confronti di nessuno; in caso, invece, di
domande relative ad un rapporto contrattuale plurisoggettivo ad effetti esclusivamente obbligatori non si
avrà litisconsorzio necessario perché il rapporto sarà divisibile;
- in ipotesi di azioni reali dirette ad ottenere la costituzione di un diritto reale di godimento contro più
soggetti si avrà litisconsorzio necessario quando la costituzione un ablazione del diritto reale è a danno di
tutti i comproprietari;
- in ipotesi di domande dirette ad ottenere la costituzione, modificazione o estinzione di status familiari o
effetti reali della specie passaggio dalla proprietà indivisa alla proprietà divisa, la rigida interdipendenza
reciproca tra le varie posizioni soggettive implicate nel rapporto plurisoggettivo ed il carattere non
meramente obbligatorio degli effetti che si mirano conseguire, per un verso impediscono la divisibilità o
l’operatività della regola dell’art. 1306 c.c. e, per altro verso, impongono il litisconsorzio necessario;
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 5. Applicazione dell'art. 102 c.p.c.: stretta opportunità non
riconducibili a sistema
È il caso, infine, di notare che, nella sua discrezionalità, il legislatore può prevedere anche ulteriori ipotesi di
litisconsorzio necessario cosiddette propter opportunitatem; previsioni normative di tale specie saranno però
di stretta interpretazione, insuscettibili di dar luogo ad ipotesi di litisconsorzio necessario ulteriori a quelle
espressamente prevista dalla legge; è inoltre da ritenere che, in questi casi, la violazione del litisconsorzio
necessario sia sanata dal passaggio in giudicato formale della sentenza e, anziché comportare l’inutilità della
sentenza anche nei confronti delle parti hanno partecipato al processo, comporti soltanto l’inefficacia della
sentenza nei confronti dei litisconsorti pretermessi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 6. Connessione per identità di questione di fatto o di diritto
Questo schema di connessione definito “il litisconsorzio facoltativo improprio” è espressamente previsto
nell’art. 103 c.p.c.
Tale ipotesi si verifica con estrema frequenza nel settore delle controversie di lavoro.
Ciascuno deduce in giudizio un distinto e autonomo diritto, fondato su una distinta e autonoma causa
petendi, però, la pronuncia sull’an del diritto azionato dipende dall’interpretazione della stessa norma
giuridica o dello stesso contratto collettivo o di contratti individuali similari.
Il cumulo processuale, consentendo al giudice di accertare fatti simili o interpretare la medesima norma
giuridica una sola volta, mira a soddisfare l’esigenza di economia dei giudizi piuttosto che il valore
dell’armonia delle decisioni, dal momento che il contrasto tra accertamenti di fatti simili o tra precedenti
giurisprudenziali nel nostro ordinamento giuridico non ha alcun rilievo formale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 7. Connessione per identità di fatto costitutivo
Questo schema si caratterizza per l’esistenza di più rapporti giuridici distinti correnti tra soggetti diversi, che
hanno la loro fonte nel medesimo fatto costitutivo.
Esempi in tal senso possono essere offerti dalla fattispecie di più autonomi diritti al risarcimento dei danni,
collegati tra loro dalla circostanza di trovare parte della loro fonte nel medesimo fatto illecito altrui.
Il legislatore prevede il simultaneus processus di tale fattispecie nell’art. 103 c.p.c. che disciplina in via
generale il cumulo originario di cause proposte tra parti diverse.
In attuazione del principio del favor verso il processo simultaneo, l’art. 33 c.p.c. consente di derogare agli
originari criteri di competenza per territorio, ossia al foro generale delle persone fisiche e delle persone
giuridiche, in favore del criterio del luogo di residenza, domicilio o sede di una delle parti convenute nel
processo.
La separazione delle cause è certamente possibile ed opportuna ove ne ricorrano i presupposti.
La sentenza sulla causa separata pronunciata è, ai fini del regime di impugnazione, sentenza definitiva, come
tale non suscettibile di riserva di impugnazione differita.
In altri termini, nell’ipotesi in esame, l’esigenza di armonia dei giudicati, in quanto mero coordinamento tra
accertamenti sulla causa petendi effettuati in via incidentale e non con autorità di cosa giudicata, è destinata
a cedere di fronte all’esigenza di non ritardare o rendere meno gravosa la trattazione e decisione di una delle
cause cumulate.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 8. Connessione per identità del rapporto plurisoggettivo dedotto in
giudizio
Questa specie di connessione, che rientra nel più ampio schema della connessione per identità di oggetto o
di petitum, ricomprende numerose ipotesi in cui viene dedotto in giudizio un rapporto giuridico
plurisoggettivo.
Esiste una serie, non secondaria, di ipotesi in cui è da sempre pacifico che la deduzione in giudizio di un
rapporto plurisoggettivo non dà luogo al litisconsorzio necessario.
In questi casi, dal punto di vista processuale, se per un verso il rapporto plurisoggettivo può essere dedotto
in giudizio da uno o contro uno solo dei contitolari, senza che ciò determini invalidità del procedimento
instaurato, per altro verso, ove lo stesso rapporto plurisoggettivo sia dedotto in giudizio di disgiuntamente da
più contitolari legittimati ad agire, si sarà alla presenza di domande connesse per identità di petitum (il
rapporto plurisoggettivo) e causa petendi.
In ipotesi di tale specie l’esigenza di realizzazione della simultaneità di trattazione delle più domande
connesse assume una importanza tutta particolare, in quanto la trattazione separata può condurre a giudicati
praticamente contraddittori.
L’esclusione del litisconsorzio necessario in numerose ipotesi di deduzione in giudizio di rapporti
plurisoggettivi trova un importante riscontro testuale.
In tema di obbligazioni solidali l’art. 1306 c.c. stabilisce che la sentenza pronunciata tra le parti esplica
efficacia soltanto a favore, e non contro, i condebitori o concreditori che non hanno partecipato al processo,
con ciò presupponendo che ciascun concreditore può agire disgiuntamente.
L’importanza della regola contenuta nell’art. 1306 c.c. che sancisce la legittimazione disgiunta di ciascun
coobbligato a dedurre in giudizio l’intero rapporto, risulta ancor più evidente ove si consideri che l’ambito in
cui quale trovano applicazione le norme dettate per l’obbligazione è molto ampio.
Infatti, attesa la omogeneità strutturale tra obbligazione e obbligo derivato dalla violazione di un diritto
reale, a tale obbligo può essere estesa la disciplina dettata per l’obbligazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 9. L’art. 2378 c.c.: impugnazioni
L’art. 2378 c.c. (“tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione devono essere istruite
congiuntamente e decise con unica sentenza”) si rivelano il grosso interesse per la ricostruzione della specie
di connessione in esame: e ciò sia perché è pacifica la sua applicabilità a ipotesi similari a quelle da esso
espressamente trattate, sia perché costituisce l’unica norma processuale cui l’interprete può e deve fare
ricorso per la disciplina dei processi in cui siano cumulate più domande connesse per identità del rapporto
plurisoggettivo dedotto in giudizio.
L’esigenza che sottostà alla previsione dell’art. 2378 c.c. è quella di evitare il formarsi di giudicati
contrastanti.
Tuttavia, se per un verso la contraddittorietà, a livello diacronico, è tollerata, poiché per evitarla
occorrerebbe applicare sempre la regola del litisconsorzio necessario, incidendo in tal modo negativamente
sulla gestibilità del processo e sulla effettività della tutela giurisdizionale, per altro verso, tale
contraddittorietà non è altrettanto tollerata a livello sincronico, cioè quando i contitolari deducono in
giudizio separatamente, ma contestualmente il rapporto giuridico plurisoggettivo.
In tali casi il legislatore favorisce al massimo la trattazione simultanea delle domande commesse
prevedendo, all’art. 2378 c.c., l’obbligo per il giudice di riunire le cause in modo che la trattazione sia
necessariamente unitaria e la decisione formalmente e sostanzialmente unica.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 10. Litisconsorzio “unitario” o “quasi necessario”
L’obbligo del processo simultaneo esclude automaticamente la possibilità di separare, in corso di istruzione
o in fase decisoria, le cause cumulate.
L’applicazione di questa disposizione viene estesa a tutte le fattispecie di rapporti giuridici plurisoggettivi
precedentemente esaminate.
Da ciò deriva la configurazione di una terza specie di litisconsorzio che si pone a metà strada tra il
litisconsorzio necessario e il litisconsorzio facoltativo: non è litisconsorzio necessario poiché non è
necessario che tutti i legittimati attivi o passivi debbano agire o essere convenuti nel processo ai fini della
sua valida instaurazione, ben potendo ciascun soggetto legittimato agire disgiuntamente per far valere
l’intero rapporto plurisoggettivo; né si tratta di litisconsorzio facoltativo in quanto se, da un lato, il più
soggetti legittimati hanno la mera facoltà e non l’obbligo di costituire un processo litisconsortile, dall’altro
lato, una volta instaurato il processo, le parti debbono essere assoggettate ad un trattamento uniforme e la
decisione deve essere formalmente e sostanzialmente unica.
Questa figura di litisconsorzio si caratterizza per il fatto di essere facoltativo quando alla sua instaurazione e
necessario quanto al suo svolgimento.
Questo istituto, che viene indicato con i termini di litisconsorzio “unitario” o “quasi necessario”, costituisce
lo strumento di tutela di quei rapporti giuridici plurisoggettivi rispetto ai quali la legittimazione ad agire e
contraddire compete disgiuntamente a tutti i più contitolari della situazione giuridica sostanziale e per i quali
l’unicità e identità del petitum e della causa petendi, pur non dando luogo al litisconsorzio necessario,
determina la necessità che, ove il giudizio sia instaurato da più dei contitolare disgiuntamente legittimati, la
trattazione, l’istruzione e la decisione siano formalmente e sostanzialmente uniche.
In sintesi, all’interno della categoria delle situazioni sostanziali con pluralità di soggetti si possono
distinguere due diversi gruppi di ipotesi.
Ad un primo gruppo si applica la disciplina prevista per il litisconsorzio necessario caratterizzata dalla
coincidenza tra necessità di partecipazione e necessità di trattazione, istruzione e decisione uniforme delle
cause.
Per gli altri casi, identificati nelle obbligazioni solidali a causa comune, nelle obbligazioni indivisibili,
nell’obbligo derivato dalla violazione di un diritto reale, nella impugnazione di delibere assembleari, ecc…,
la disciplina processuale è diversa, nel senso che la instaurazione del processo litisconsortile è meramente
facoltativa.
Tuttavia, attesa l’unicità e l’identità di petitum e di causa petendi, se più domande, avente ad oggetto il
medesimo rapporto giuridico plurisoggettivo, vengono proposte congiuntamente o separatamente, ma
contestualmente, il processo deve svolgersi in modo necessariamente uniforme per tutte le parti e si deve
concludere con una decisione formalmente e sostanzialmente unica.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 11. Connessione per incompatibilità
Questa figura rientra nel più ampio schema della connessione per identità di petitum ed è costituita da
domande aventi ad oggetto rapporti autonomi e di incompatibili (cioè relativi allo stesso “bene”) correnti tra
soggetti diversi.
Per inquadrare questa specie di connessione occorre ricordare che, nei giudizi tra le stesse parti, i limiti
soggettivi del giudicato sono tali da ricomprendere non solo il rapporto giuridico dedotto in giudizio, ma
anche il diritto con esso incompatibile.
Ciò discende dal principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile (nella specie il diritto
incompatibile) e, prima ancora, dal principio di non contraddizione.
Pertanto, la proposizione in giudizio di più domande aventi ad oggetto rapporti giuridici tra loro
incompatibili correnti tra gli stessi soggetti, da luogo ad un fenomeno di litispendenza o di continenza (se
l’oggetto dell’una è compreso in quello dell’altra) e non di connessione.
È immediatamente da aggiungere che la sentenza (o il giudicato) non può manifestare alcuna efficacia
giuridica contro i terzi che si affermino titolari di rapporti autonomi e incompatibili rispetto al rapporto
oggetto immediato della sentenza resa.
La fondamentale regola sui limiti soggettivi apre, dunque, la strada al formarsi di giudicati praticamente
contraddittori.
Se, per un verso, il legislatore, al fine di tutelare il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale,
ammette il formarsi a livello diacronico di giudicati anche praticamente contraddittori, per altro verso, più
difficilmente tollera la contraddittorietà tra decisioni ove più domande, aventi ad oggetto rapporti
incompatibili correnti tra parti diverse, siano proposte separatamente ma contestualmente.
Perciò si ritiene che, in assenza di un’espressa regola, deve trovare applicazione analogica l’art. 2378 c.c.
che prevede l’obbligo per il giudice di riunire le cause, nella specie connesse per incompatibilità, proposte
separatamente ma contestualmente.
Se le domande sono proposte in maniera sfasata temporalmente, il rischio di giudicati praticamente
contraddittori non è eliminabile.
Tuttavia, l’ordinamento giuridico, tenuto conto del pregiudizio di fatto che deriva al terzo causato dalla
sentenza che riconosce altri titolare esclusivo del diritto sullo stesso bene, attribuisce al terzo la facoltà di
esperire rimedi preventivi e successivi.
Il rimedio, di carattere facoltativo, preventivo è costituito dall’intervento volontario in causa, ai sensi
dell’art. 105 c.p.c.: il terzo può intervenire nel processo instaurato tra le parti proponendo nei loro confronti
una vera e propria domanda giudiziale di accertamento dell’esistenza della situazione giuridica soggettiva
incompatibile di cui egli si afferma titolare.
L’intervento consente la creazione di una sentenza unica che riconosca la titolarità del diritto dedotto in
giudizio con efficacia nei confronti di tutte le tre parti del processo.
Ne deriva che l’intervento in causa previene il formarsi di giudicati praticamente contraddittori.
Il rimedio facoltativo successivo dell’opposizione ordinaria di terzo costituisce un mezzo straordinario di
impugnazione e può essere fatto valere, senza limiti di tempo, dal terzo pregiudicato contro la sentenza che
ha attribuito ad un altro soggetto lo stesso diritto di cui gli si afferma titolare esclusivo.
Il terzo, se vittorioso, riesce ad eliminare e dal mondo giuridico la sentenza e a sostituirla con altra che
stabilisce, nei confronti di tutte e tre le parti, la titolarità del suo diritto prevalente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 12. Connessione per alternatività
La connessione per alternatività rappresenta la terza figura di connessione per identità di oggetto o petitum è
caratterizzata, al pari della connessione per incompatibilità di cui costituisce una sottospecie, dall’esistenza
di un rapporto di incompatibilità tra rapporti obbligatori aventi elementi oggettivi identici.
Tale schema si realizza quando l’attore, incerto sul titolare passivo del rapporto, propone domanda
giudiziale contro due o più soggetti, chiedendo di accertare chi tra questi è davvero, ad esempio, l’autore del
fatto illecito al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni.
Il rapporto di incompatibilità o alternatività può investire non solo il lato passivo, ma anche il lato attivo del
rapporto dedotto in giudizio.
Il cumulo di domande connesse per alter natività si realizza frequentemente, a seguito della contestazione da
parte del convenuto della titolarità attiva o passiva del rapporto, tramite la chiamata in causa del terzo
indicato quale effettivo titolare attivo o passivo del rapporto.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 13. Connessione per pregiudizialità: primo settore
Il presupposto di tale specie di connessione si caratterizza per la circostanza che un rapporto, cosiddetto
pregiudiziale o condizionante, intercorrente tra A e B rileva ai fini dell’esistenza o del modo di essere di un
altro rapporto, cosiddetto pregiudicato o dipendenti, intercorrente tra B e C o tra A e C.
Lo schema della pregiudizialità/dipendenza tra rapporti sostanziali correnti tra parti diverse si presenta con
riferimento ad una serie molto ampia di fattispecie, le più importanti delle quali possono esser raggruppate
in tre settori:
Primo settore:
- il creditore non solo agisce contro il debitore principale, ma cumula nello stesso processo domanda contro
il fideiussore.
I due rapporti giuridici sono connessi per pregiudizialità, poiché l’obbligo del fideiussore dipenda
dall’esistenza e dalla misura del rapporto di credito/debito principale.
Dal punto di vista processuale, il rapporto di credito/debito principale è petitum della causa proposta contro
il debitore originario e causa petendi della domanda esperita contro il fideiussore;
- il danneggiato in un incidente automobilistico agisce sia nei confronti del conducente dell’autoveicolo sia
nei confronti del proprietario del mezzo, cumulando nello stesso processo due domande connesse per
pregiudizialità;
- il danneggiato agisce sia contro il dipendente sia contro l’imprenditore per i danni arrecati dal fatto illecito
del dipendente compiuto nell’esercizio delle incombenze a cui era adibito.
Anche in questa ipotesi la responsabilità dell’imprenditore verso il danneggiato esiste se e nella misura in
cui sussista la responsabilità del dipendente.
Queste tre fattispecie sono caratterizzate, dal punto di vista processuale, dal fatto che domanda principale e
domanda dipendente sono proposte in entrambe dall’attore e sono cumulate nel processo fin dall’origine.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 14. Connessione per pregiudizialità: secondo settore
In questo settore si ricomprendono tutte le fattispecie di opponibilità dei vizi di un contratto al terzo
subacquirente.
La proposizione della seconda domanda trova giustificazione, al livello di diritto sostanziale, nel fatto che la
nullità di un contratto è sempre opponibile al terzo subacquirente.
Le suddette domande sono connesse per pregiudizialità in quanto l’oggetto della domanda principale,
l’inesistenza del rapporto giuridico che trova la sua fonte nel contratto nullo, è elemento impeditivo della
fattispecie acquisitiva del terzo ovvero elemento costitutivo della fattispecie da cui deriva l’obbligo del terzo
di restituire al primo venditore il bene oggetto della domanda dipendente.
Infatti, se il legislatore stabilisce che l’invalidità o l’inefficacia di un contratto è opponibile al terzo avente
causa, ciò sta a significare che l’acquisto del terzo avente causa è giuridicamente dipendente dall’acquisto
del suo dante causa.
Questo secondo settore si caratterizza per la circostanza che il dante causa originario non può agire
direttamente contro il terzo subacquirente in quanto l’azione nei confronti di quest’ultimo è subordinata
all’accoglimento della domanda di accertamento dell’inefficacia o invalidità del primo rapporto contrattuale.
Viceversa, nelle ipotesi rientranti nel primo settore, l’attore può agire direttamente contro il terzo in quanto
le obbligazioni solidali, per definizione, consentono la proposizione della domanda di adempimento
indifferentemente contro l’uno o l’altro dei condebitori.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 15. Connessione per pregiudizialità: terzo settore
Il terzo ed ultimo settore riguarda il fenomeno della garanzia.
Esaminiamo innanzitutto il profilo processuale.
La garanzia si attua ogni qual volta il convenuto nel processo originario, che si chiama garantito, fa valere
nei confronti di un terzo, che si chiama garante, una pretesa che consiste in questo: il terzo deve rispondere
dell’eventuale soccombenza del garantito nella causa principale.
Il garantito chiama in causa il garante e propone nei suoi confronti una vera e propria domanda giudiziale
avente ad oggetto la pretesa sostanziale di essere sollevato dalle conseguenze dannose di una sua eventuale
sconfitta.
L’interesse ad agire in garanzia sorge non al momento della proposizione della controversia principale ma
soltanto quando, accolta la domanda principale, il convenuto sia condannato ad adempiere all’obbligo
accertato come esistente.
Soltanto in questo momento si perfeziona il diritto, la pretesa sostanziale del soccombente ad essere
garantito dal terzo.
Dal punto di vista processuale, la caratteristica del fenomeno della garanzia consiste nella circostanza che
l’azione di garanzia (o di regresso) può essere esercitata in un momento anteriore a quello in cui sorge
l’interesse ad agire, allo scopo di consentire che la condanna del garante avvenga contestualmente alla
condanna del garantito.
La domanda di garanzia è domanda eventuale o subordinata che intanto sarà esaminata, in quanto venga
accolta la domanda principale.
La pronuncia su tale domanda è sospensivamente condizionata all’accoglimento della domanda principale.
L’art. 32 c.p.c., per favorire il processo simultaneo della domanda principale e di quella di garanzia,
consente la proposizione dell’azione di regresso davanti al giudice competente per la causa principale,
quindi anche in deroga ai criteri originali di competenza per territorio.
Qualora la domanda di garanzia ecceda la competenza per valore del giudice di pace originariamente adito,
questi deve rimettere entrambe le cause al tribunale.
Il fenomeno della garanzia ora in esame, dal punto di vista sostanziale, ricomprende una serie di istituti
estremamente eterogenei, tra i quali, è opportuno sottolineare, non rientrano le garanzie reali, pegno e
l’ipoteca, né le garanzie personali quali ad esempio la fideiussione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 16. Fattispecie sostanziale di garanzia: garanzia per evizione o
garanzia da trasferimento dei diritti
La garanzia per evizione consente al compratore che ha subito “l’evizione totale o parziale della cosa per
effetto di diritti che un terzo ha fatto valere su di essa“ di essere risarcito dei danni da parte del venditore.
Lo schema della pregiudizialità/dipendenza si manifesta nel senso che l’esistenza del diritto al risarcimento
dei danni dipende dall’esistenza (oltre che del contratto di compravendita) di un diritto del terzo sul bene
compravenduto.
Il compratore ha l’onere di chiamare in garanzia il venditore altrimenti perde il diritto alla garanzia, per
consentirgli l’esercizio pieno del diritto di difesa e per evitare che quest’ultimo, nel secondo e autonomo
processo relativo al diritto dipendente di garanzia, possa sottrarsi al vincolo della precedente decisione
dimostrando che esistevano “ragioni” sufficienti per un diverso accertamento del rapporto pregiudiziale
oggetto di essa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 17. Fattispecie sostanziale di garanzia: garanzia da vincoli di cui
obbligazione
Tale fattispecie si presenta innanzitutto nelle relazioni tra obbligo del fideiussore e diritto di regresso, per
l’intero ammontare, di questi contro il debitore principale nel cui interesse è stata contratta l’obbligazione.
Il fideiussore convenuto in giudizio può chiamare in causa il debitore principale ed esercitare nei suoi
confronti azione di regresso chiedendo che, nell’eventualità che il giudice accolga la domanda originaria
condannandolo al pagamento del debito garantito, il debitore principale venga a sua volta condannato a
corrispondergli l’intero ammontare.
Se da un lato il rapporto giuridico tra creditore e fideiussore è pregiudiziale rispetto al diritto di regresso che
il fideiussore vanta nei confronti del debitore principale, dall’altro lato l’obbligo fideiussorio a sua volta
dipende dall’esistenza del rapporto di credito/debito principale.
In tale ipotesi sussiste dunque un fenomeno di pregiudizialità “doppia” o “bilaterale”.
Il duplice nesso di pregiudizialità e l’esistenza dei limiti soggettivi del giudicato rendono estremamente
opportuna la chiamata in causa del debitore principale da parte del fideiussore.
Infatti, se le due azioni vengono proposte separatamente, non si può escludere il rischio di una duplice
soccombenza del fideiussore.
Si ipotizzi che le due domande siano proposte in via diacronica in due processi separati.
Nel primo processo instaurato da A (creditore) contro B (fideiussore), il fideiussore viene condannato al
pagamento del debito garantito poiché viene riconosciuto esistente il rapporto pregiudiziale (di
credito/debito principale) A-C.
Nel secondo processo instaurato da B contro C (debitore principale) per ottenere la restituzione di quanto
pagato, al fideiussore può essere negata l’esistenza del diritto alla garanzia, ove il giudice accerti
l’inesistenza del rapporto pregiudiziale A-C.
Né, ed è questo il punto fondamentale, si può ammettere che l’accertamento in via incidentale del rapporto
A-C compiuto nel primo processo possa avere efficacia riflessa vincolante nel secondo giudizio avente ad
oggetto il rapporto B-C da esso dipendente, poiché lo impedisce il rispetto dei limiti soggettivi del giudicato
e, in definitiva, dell’effettività del diritto di difesa di C.
Ecco, allora, l’importanza della chiamata in garanzia con la quale, cumulando le due domande non stesso
processo, si attua il pieno coordinamento tra il rapporto A-B (creditore/fideiussore) ed il rapporto B-C (di
regresso) dal momento che il giudice, una volta accertata l’esistenza o meno del rapporto pregiudiziale A-C,
decide dei rapporti A-B e B-C in modo necessariamente coerente al contenuto di tale accertamento.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 18. Fattispecie sostanziale di garanzia: assicurazione sulla
responsabilità civile
Questa fattispecie si caratterizza per la circostanza che il terzo chiamato dal convenuto in rivalsa è obbligato
per contratto a tenere indenne il convenuto originario dalla responsabilità dovuta a fatto di questi.
In particolare, se il danneggiato agisce nei confronti del danneggiante, questi ha diritto di agire in regresso
nei confronti della società assicuratrice per essere tenuto indenne dalle conseguenze svantaggiose di una sua
eventuale soccombenza.
Secondo questo schema se non esiste la responsabilità del danneggiante non esiste neanche l’obbligo della
società assicuratrice.
Questa fattispecie di pregiudizialità/dipendenza presenta marcate affinità con la dipendenza dell’obbligo del
fideiussore dall’esistenza e dalla misura del rapporto di credito/debito principale.
A differenza, però, di quanto accade in quest’ultima ipotesi, nella fattispecie della responsabilità civile non
vi è alcun legame giuridico che unici il danneggiato alla società assicuratrice con la conseguenza che il
primo non può agire direttamente contro la seconda.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 19. Fattispecie sostanziale di garanzia: vendite a catena
Un ulteriore fattispecie sostanziale di garanzia emerge nell’ambito del fenomeno delle vendite a catena.
Si consideri, ad esempio, le ipotesi in cui un imprenditore vende un determinato bene al grossista, il
grossista lo cede al dettagliante, il dettagliante al consumatore.
Il consumatore agisce nei confronti del dettagliante, perché il bene è affetto da vizi non apparenti;
quest’ultimo chiama in garanzia il grossista il quale, a sua volta, chiama in causa l’imprenditore.
Questa fattispecie si inserisce nell’ambito dello schema della pregiudizialità/dipendenza nel senso che
l’esistenza e l’entità di un obbligo di risarcimento del danno da parte del dettagliante al consumatore è
pregiudiziale al rapporto dettagliante/grossista e quest’ultimo è pregiudiziale al rapporto
grossista/imprenditore: fra i tre rapporti vi è anche connessione per parziale identità di fatto costitutivo
rappresentato dal vizio del bene che costituisce causa petendi comune alle più domande giudiziali.
Con riferimento alle quattro ipotesi delineate, la giurisprudenza e scherma nel distinguere tra:
- garanzia cosiddetta “propria” nella quale rientrano la garanzia per evizione, la garanzia per i vincoli di
coobbligazione e, di recente, la garanzia da assicurazione per la responsabilità civile;
- garanzia cosiddetta “impropria” che abbraccia la figura delle vendite a catena;
- prevedendo l’applicazione degli artt. 32, 108 e 331 c.p.c. unicamente alle fattispecie di garanzia propria.
Questa distinzione non ha alcun fondamento logico, poiché tutti i fenomeni descritti sono riconducibili allo
schema della connessione per pregiudizialità.
È quindi priva di giustificazione la non applicazione alle ipotesi di garanzia impropria dell’art. 32 c.p.c. per
il regime delle modifiche alla competenza, dell’art. 108 c.p.c. concernente l’istituto dell’estromissione del
garantito e dell’art. 331 c.p.c. in fase di impugnazione.
Fino a questo momento abbiamo sempre identificato la chiamata in garanzia con la proposizione di una
domanda nei confronti del garante.
In realtà l’art. 106 c.p.c. prevede sia l’ipotesi in cui, con la chiamata in causa, il garantito esercita l’azione di
regresso, sia la diversa ipotesi in cui il garantito si limita a provocare la partecipazione al processo del
garante, senza proporre domanda nei suoi confronti.
Questo appare evidente dalla lettura dell’art. 108 c.p.c. il quale presuppone che l’estromissione del garantito
può avvenire soltanto ove egli si limiti a provocare la partecipazione al processo del garante e non anche ove
proponga azione di regresso in quanto, per l’operare di questo duplice meccanismo, il garante, rispetto alla
domanda di garanzia, verrebbe ad assumere contemporaneamente la qualità di convenuto e di attore, l’uno in
proprio e l’altro come sostituto processuale: il che sarebbe palesemente assurdo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 20. I limiti soggettivi della sentenza civile
Il “problema” dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza (o del giudicato) può essere così sintetizzato:
gli ordinamenti giuridici conoscono norme come l’attuale art. 2909 c.c. le quali limitano l’autorità
dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato alle sole parti e ai loro eredi o aventi causa.
A fronte di simili disposizioni esistono una serie di altre disposizioni che esplicitamente o implicitamente il
sembrano presupporre un più vasto manifestarsi dell’efficacia della sentenza nei confronti dei terzi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 21. I punti fermi dei limiti soggettivi della sentenza civile
Oggi possono essere considerati come acquisiti i seguenti punti:
La sentenza (o il giudicato) non può manifestare alcuna efficacia a favore o contro i terzi che si affermino
titolare di rapporti autonomi (cioè non legati da nessi di dipendenza giuridica a livello di diritto sostanziale)
ed incompatibili (cioè relativi allo stesso “bene”) rispetto al rapporto oggetto immediato della sentenza resa
inter ; ovvero, il che lo stesso, a favore o contro i terzi che si affermino titolari di rapporti aventi elementi
oggettivi, non soggettivi, identici a quello oggetto della sentenza.
La mera pendenza di un processo, e poi il giudicato relativo al diritto incompatibile, è, però, fonte oggettiva
di incertezza nelle relazioni sociali circa la titolarità da parte del terzo del diritto autonomo ed incompatibile.
Soprattutto allo scopo di eliminare questa incertezza causata dal processo e/o dal giudicato inter alios, ai
terzi titolari di diritti autonomi e incompatibili sono stati da sempre riconosciuti due specie di rimedi:
- il rimedio preventivo dell’intervento volontario cosiddetto principale di primo grado e d’appello, tramite il
quale cumulare con la domanda oggetto del processo originario la propria domanda avente ad oggetto il
diritto autonomo ed incompatibile;
- il rimedio successivo della opposizione di terzo ordinaria; è questo un mezzo di impugnazione
straordinario esperibile contro le sentenze esecutive e in genere contro le sentenze passate in giudicato, non
sottoposto ad alcun termine di decadenza; il vantaggio dell’opposizione di terzo è costituito dalla sua
idoneità, quale mezzo di impugnazione, di eliminare dal mondo del diritto la sentenza resa inter alios,
mentre lo svantaggio è dato dalla possibile perdita di un grado di giurisdizione.
Il manifestarsi dell’efficacia della sentenza a favore o contro terzi titolari dello stesso diritto su cui si è
giudicato, cioè di rapporti aventi elementi oggettivi e soggettivi identici a quello oggetto immediato della
sentenza resa in terra alios è fenomeno assolutamente eccezionale.
Ciò perché la legittimazione ad agire e contraddire è “normalmente” attribuita dal legislatore ai soli soggetti
titolari del rapporto dedotto in giudizio e non anche a terzi; nelle ipotesi, eccezionali, in cui, poi, sia
riconosciuta ad un terso la legittimazione straordinaria ad agire o a contraddire, è opinione oramai pacifica
in dottrina e in giurisprudenza che al processo debba partecipare in veste di litisconsorte necessario anche il
legittimato ordinario titolare attivo o passivo del rapporto dedotto in giudizio.
Ne segue che l’eccezionalità del fenomeno della legittimazione straordinaria, il suo normale dar luogo ad
ipotesi di litisconsorzio necessario, la inidoneità, secondo l’opinione assolutamente prevalente, della
sentenza pronunciata a contraddittorio non integro a produrre effetti che concorrono nel senso di escludere la
possibilità che la sentenza esplichi efficacia a favore o contro i terzi titolari dello stesso rapporto oggetto
della sentenza resa inter alios.
Non sorgono problemi in ordine al manifestarsi dell’efficacia della sentenza a favore o contro chi è
succeduto, a titolo universale o particolare, nel rapporto oggetto della sentenza resa inter alios, dopo il suo
passaggio in giudicato.
Analogamente non sorgono problemi per l’ipotesi di successione a titolo universale il grande la pendenza
del processo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 22. Gli artt. 1306 e 2377 c.c.
Le prime incertezze cominciano a sorgere con riferimento ai terzi aventi causa a titolo particolare, divenuti
tali durante la pendenza del processo: si tratta però di incertezze che concernono soltanto il tema dei limiti
soggettivi di efficacia della sentenza quanto, soprattutto, l’esatta individuazione dell’ambito di applicazione
dell’art. 111 c.p.c.
Altre incertezze sussistono con riferimento alle ipotesi di pluralità di soggetti disgiuntamente legittimati ad
impugnare uno stesso atto, alla cui efficacia devono sottostare in virtù dell’operare del principio
maggioritario (sono le ipotesi ex artt. 2377 ss. c.c.) ovvero a dedurre in giudizio il diritto di cui sono
contitolari, senza che si abbia litisconsorzio necessario ovvero a pretendere l’adempimento di una medesima
obbligazione indivisibile da parte dell’unico soggetto passivo.
Ai fini del “problema” dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza, esse hanno un rilievo
complessivamente secondario, poiché per un verso si presentano, in gran parte, come ipotesi tipiche, per
altro verso trovano la loro disciplina espressa in norme quali gli artt. 2377 e 1306 c.c.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 23. Nessi di dipendenza giuridica tra rapporti sostanziali e il
problema della efficacia riflessa
Il vero “problema” dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza (o del giudicato) civile, è destinato a
sorgere con riferimento ai terzi titolari di rapporti oggettivamente e soggettivamente diversi da quello
oggetto immediato della sentenza, ma ad esso legati da nessi di dipendenza giuridica a livello di diritto
sostanziale: cioè i terzi titolari di rapporti non autonomi (perché dipendenti) e non incompatibili (perché non
aventi elementi oggettivi identici con quello oggetto della sentenza e/o non coesistenti nello stesso momento
temporale).
È il fenomeno della cosiddetta pregiudizialità/dipendenza.
Esso ricorre ogni qualvolta un rapporto costituisce elemento in senso ampio della fattispecie da cui deriva un
altro rapporto.
Ove i soggetti del rapporto pregiudiziale e del rapporto dipendente coincidano, l’art. 2909 c.c. impone di
ritenere che l’accertamento del rapporto pregiudiziale faccia stato, tutti gli effetti, anche nel secondo
processo relativo al rapporto dipendente.
Ove invece i soggetti del rapporto pregiudiziale siano parzialmente diversi rispetto ai soggetti del rapporto
dipendente, sorge il problema dei limiti soggettivi di efficacia della sentenza (o del giudicato) civile.
In particolare:
- in alcune ipotesi il legislatore, nella stessa norma in cui individua l’esistenza di nessi di dipendenza
sostanziale tra rapporti, ricollega a tali nessi il manifestarsi dell’efficacia (riflessa) della sentenza nei
confronti del terzo titolare di rapporto dipendente;
- in altre ipotesi il legislatore, nella norma in cui individua l’esistenza di nessi di dipendenza sostanziale tra
rapporti, nulla dice circa il manifestarsi o no dell’efficacia (riflessa) della sentenza nei confronti del terzo
titolare del rapporto dipendente;
- in altre ipotesi ancora, il legislatore prevede che il terzo titolare del rapporto dipendente, ove non abbia
partecipato, o non sia stato messo in condizione di partecipare, al processo avente ad oggetto il rapporto
pregiudiziale, possa sottrarsi al vincolo della precedente decisione provando nel secondo processo, relativo
al rapporto dipendente, che esistevano “ragioni” sufficienti per un diverso accertamento del rapporto
pregiudiziale;
- in tutte le ipotesi, infine, in cui il fenomeno della pregiudizialità/dipendenza si accoppia al fenomeno della
solidarietà, l’art. 1306 c.c. esclude che la sentenza resa sul rapporto pregiudiziale possa avere efficacia
contro il terzo coobbligato solidale soggetto passivo del rapporto giuridicamente dipendente;
- quanto ai rimedi, l’art. 404 c.p.c. presuppone il manifestarsi dell’efficacia riflessa e riserva l’opposizione di
terzo revocatoria, soggetta a ristretti termini di decadenza e limitata all’ipotesi in cui la sentenza sia l’effetto
di dolo o collusione delle parti a danno del terzo, ai creditori e agli aventi causa, ancorché una prassi
interpretativa ritenga che il rimedio in esame sia esperibile da tutti i terzi titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti soggetti all’efficacia riflessa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 24. Tesi dell’efficacia riflessa generalizzata
Secondo questa posizione ai nessi di dipendenza giuridica sostanziale tra rapporti si ricollegherebbe, sempre
ed automaticamente, il manifestarsi dell’efficacia riflessa della sentenza nei confronti dei terzi titolari di
rapporti dipendenti: e ciò o in forza del principio secondo cui la sentenza, nei suoi limiti oggettivi, ha
efficacia soggettiva potenzialmente illimitata o in forza di più o meno riusciti tentativi di desumere
dall’analisi dello stesso diritto positivo la esistenza di un principio generale secondo cui il manifestarsi
dell’efficacia riflessa ultra partes della sentenza si collegherebbe normalmente ai nessi di dipendenza
giuridica sostanziale tra rapporti.
Di recente, si è obiettato che essa si pone in insanabile contrasto con la garanzia costituzionale del diritto di
difesa, sacrificando la tutela dei terzi titolari di rapporti dipendenti, che non abbiano partecipato al processo
relativo al rapporto pregiudiziale, nei troppo angusti limiti del rimedio dell’opposizione di terzo revocatoria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 25. Tesi restrittive in giurisprudenza
Secondo queste posizioni, una cosa sarebbero i nessi di dipendenza giuridica sostanziale tra rapporti, altra
cosa il manifestarsi dell’efficacia riflessa nei confronti dei terzi titolari di rapporti dipendenti.
In particolare, dal nostro diritto positivo non sarebbe dato desumere, in modo alcuno, che i due fenomeni
debbano concorrere.
Di conseguenza il manifestarsi dell’efficacia riflessa ultra partes dovrebbe essere relegata nelle ipotesi
espressamente previste dalla legge.
Questa soluzione privilegia al massimo l’esigenza di tutela del terzo e le conseguenze desumibili dal
carattere dispositivo cui sarebbe improntato il processo civile.
Contro di essa è stato, però, obiettato che, per essere coerente, dovrebbe escludere sempre, denunciandone il
contrasto con l’art. 24 Cost., il manifestarsi dell’efficacia riflessa ultra partes, anche nelle ipotesi in cui
questa è espressamente prevista dalla legge.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 26. Tesi della generalizzazione della soluzione adottata dall’art.
1485 (e 2859, 2870) c.c.
Secondo questa soluzione la sentenza è spiegherebbe sempre efficacia non vincolante, non immutabile (non
coperta da autorità di cosa giudicata) nei confronti di tutti i terzi, e quindi anche, a maggior ragione, nei
confronti dei terzi titolari di rapporti dipendenti: ai terzi però potrebbero sempre sottrarsi all’efficacia della
sentenza resa inter alios dimostrando, nel secondo giudizio instaurato (da o) nei loro confronti, l’ingiustizia
della sentenza (cioè che esistevano “ragioni” sufficienti per un diverso accertamento del rapporto
pregiudiziale) e ottenendone in tal modo la disapplicazione in via incidentale.
A tal fine essi non devono dimostrare che la sentenza è effetto di dolo o collusione a loro danno e non
devono agire nei termini e secondo le forme proprie dell’opposizione di terzo revocatoria ma solo agire in
un opposizione di terzo ordinaria in forma principale o in forma incidentale nel secondo processo avente ad
oggetto immediato il diritto dipendente di cui sono titolari attivi o passivi.
Questa soluzione presente il grosso vantaggio di prospettare una suggestiva ipotesi di conciliazione tra il
manifestarsi dell’efficacia riflessa ultra partes e la tutela del diritto di difesa del terzo.
Contro di essa sono state però, da sempre, mosse una serie di obiezioni: in primo luogo sia notato come la
nozione di efficacia della sentenza alla quale il terzo può sottrarsi previa dimostrazione della sua ingiustizia,
è nozione evanescente (in quanto finisce per consentire una nuova integrale cognizione del rapporto
precedentemente accertato), in secondo luogo si pone in contrasto con l’art. 404 c.p.c. il quale per un verso
non consente che l’opposizione di terzo ordinaria sia esercitabile anche in via incidentale, per altro verso
legittima espressamente i terzi aventi causa alla sola opposizione di terzo revocatoria.
Volendo trarre una qualche conclusione:
- occorre prendere atto di una prassi giurisprudenziale che, nonostante le molte oscillazioni, mira ad
escludere il manifestarsi dell’efficacia riflessa della sentenza al settore di rapporti meramente obbligatori, in
modo conforme all’indicazione emergente dall’art. 1306 c.c.;
- l’efficacia riflessa debole ed è ammettersi nei casi espressamente previsti dalla legge;
- l’efficacia riflessa forte deve ammettersi in materia di status e di circolazione dei beni, specie se immobili:
e ciò per esigenze di certezza nonché per il rispetto delle indicazioni di diritto positivo emergente dall’art.
404 c.p.c., là dove parla di aventi causa;
- in ogni caso è da ammettere l’efficacia riflessa a favore del terzo titolare di diritto dipendente: e ciò
argomentando sia dall’assenza di qualsiasi contrasto con il valore costituzionale del diritto di difesa, sia
dall’art. 1306 c.c.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 27. La posizione dei creditori
Esigenze di completezza impongono di accennare a tre ultime categorie di terzi.
La prima è costituita dai creditori.
Al riguardo è dato assolutamente pacifico che la sentenza pronunciata nei confronti del debitore relativa
all’accertamento dell’appartenenza dei diritti patrimoniali suscettibili di espropriazione forzata ovvero
relativa all’esistenza di crediti di altri creditori che potranno partecipare alla distribuzione del ricavato di una
futura ed eventuale espropriazione forzata, è destinata ad esplicare una certa qual efficacia nei confronti dei
creditori rimasti estranei al processo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 28. Terzi titolari di diritti connessi per mera identità di fatto storico
(ovvero di questioni di fatto o di diritto)
In questa categoria rientrano i terzi titolari di diritti compatibili ed autonomi rispetto al diritto o rapporto
oggetto immediato del processo e del giudicato inter alios, cioè titolari di un diritto il quale dipende dallo
stesso fatto storico da cui dipende il diritto oggetto del processo e del giudicato inter alios.
Poiché è pacifico che il giudicato civile si forma solo sul diritto fatto valere in giudizio e mai sui fatti che il
giudice deve accertare per statuire sul diritto, ne segue che non è ipotizzabile il manifestarsi di alcuna
efficacia di giudicato nei confronti di terzi della specie ora in esame.
L’unica efficacia che la sentenza resa inter alios potrà manifestare nei loro confronti è la sola mera efficacia
di precedente giurisprudenziale.
Esigenze di economia processuale e probabilmente anche l’esigenza di prevenire il pregiudizio da
precedente giurisprudenziale sfavorevole, hanno da sempre indotto a consentire che le più domande relative
a diritti connessi per identità di fatto storico (ovvero per identità di questioni di diritto o di fatto) possano
essere cumulate nello stesso processo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 29. Terzi titolari di diritti autonomi e compatibili, suscettibili di
subire un pregiudizio di mero fatto
In quest’ultima categoria rientrano i terzi titolari di rapporti oggettivamente e soggettivamente diversi da
quello oggetto immediato del processo e del giudicato inter alios e non legati a questo da alcun nesso di
dipendenza giuridica sostanziale né dipendenti dallo stesso fatto storico.
Si tratta di terzi titolari di diritti totalmente autonomi e non incompatibili con quello oggetto del processo e
del giudicato inter alios: dei cosiddetti terzi giuridicamente indifferenti, rispetto ai quali non è prospettabile
il manifestarsi dell’efficacia del giudicato o dell’efficacia di precedente giurisprudenziale.
Ciò non esclude che tra rapporto oggetto della sentenza e rapporto autonomo e non incompatibile del terzo
possa intercorrere una relazione di fatto in forza della quale il terzo possa avvantaggiarsi o essere
pregiudicato, sempre in linea di mero fatto, dalla sentenza resa inter alios.
Si pensi ai lavoratori disoccupati di una determinata zona ed al vantaggio o pregiudizio, in linea di mero
fatto, che si possono subire da una sentenza la quale si pronunci circa il diritto di un imprenditore ad
intraprendere o no una determinata attività produttiva in quella zona.
Questa situazione di dipendenza di mero fatto è giuridicamente irrilevante e non legittima tali terzi né
all’intervento né all’opposizione di terzo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 30. L'intervento volontario
L’art. 105 c.p.c. disciplina l’intervento volontario del terzo nel processo di cognizione di primo grado.
La formulazione dell’art. 105 c.p.c. costituisce un netto progresso rispetto all’altra, assai più generica,
adoperata dall’art. 201c.p.c. del 1865, che si limitava a disporre “chiunque abbia interesse in una causa
vertente tra altre persone può intervenirvi” senza dettare, al di là del generico riferimento all’interesse, alcun
criterio per l’individuazione dei soggetti legittimati ad intervenire e senza fornire alcun argomento per
determinare i poteri processuali dei terzi intervenienti.
Intanto è opportuno distinguere nell’ambito dell’art. 105 c.p.c. diverse categorie di intervento , in quanto tale
suddivisione corrisponda a diversità di situazioni legittimanti e/o di poteri processuali delle varie categorie
di intervenienti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 31. Le varie specie di intervento disciplinate dall’art. 105(1) c.p.c.
Ai sensi del primo comma dell’art. 105 c.p.c. “ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per
fare valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal
titolo dedotto nel processo medesimo”.
La formulazione chiarissima nel senso di prevedere che attraverso l’intervento:
- si propone una vera e propria domanda giudiziale, facendo valere un diritto in giudizio;
- la domanda è connessa con quella originaria per identità di oggetto o di titolo;
- la domanda può essere proposta nei confronti di entrambe le parti del processo originario o nei confronti di
una sola di esse.
È possibile, innanzitutto, che il terzo faccia valere nei confronti di entrambe le parti del processo originario
una domanda connessa per identità oggettiva del petitum; faccia valere cioè in giudizio un diritto
oggettivamente identico a quello oggetto del processo originario, ma soggettivamente diverso.
Si versa in una tipica ipotesi di connessione per incompatibilità.
L’intervento volontario si atteggia come un rimedio facoltativo posto favore del terzo per evitare il formarsi
di giudicati praticamente contraddittori (perché relativi allo stesso bene); determina un allargamento
oggettivo del processo, poiché questo non avrà più ad oggetto solo il diritto delle parti originarie sul bene,
ma anche il diritto del terzo sullo stesso bene; al terzo sono da riconoscere tutti i poteri propri di chi propone
domanda giudiziale.
Lo svolgimento del processo litisconsortile sarà disciplinato alla stregua di quanto rilevato precedentemente.
La seconda ipotesi rientrante nel primo comma dell’art. 105 c.p.c. è quella in cui il terzo faccia valere nei
confronti di una sola delle parti del processo originario una domanda connessa con quella originaria per
identità di titolo (di causa petendi, di fatto costitutivo).
In tal caso il diritto fatto valere in giudizio dal terzo è un diritto compatibile con quello oggetto del processo
originario e non legato a questo da alcun rapporto di pregiudizialità/dipendenza in senso tecnico; il terzo,
ove non sperimentasse intervento, non solo non sarebbe soggetto ad alcuna efficacia (diretta o riflessa) della
sentenza resa fra le parti originarie, ma non sarebbe neanche legittimato a proporre opposizione di terzo
ordinaria o revocatoria contro tale sentenza; come tale l’intervento si atteggia come un rimedio facoltativo
previsto soprattutto in funzione di esigenze di economia processuale e di prevenire il formarsi di precedenti
giurisprudenziali contrari; al terzo sono da riconoscere tutti i poteri propri di chi propone domanda
giudiziale.
Lo svolgimento del processo litisconsortile sarà disciplinato alla stregua di quanto già rilevato
precedentemente.
La terza ipotesi rientrante nell’art. 105 c.p.c. è quella in cui il terzo faccia valere nei confronti di una sola
delle parti del processo originario è una domanda connessa con quella originaria e identità di oggetto e di
titolo; faccia valere cioè in giudizio lo stesso diritto già oggetto del processo originario.
Per comprendere quando questo possa verificarsi occorre fare riferimento a tutte le ipotesi di deduzione in
giudizio di un rapporto plurisoggettivo che non diano luogo a fenomeni di litisconsorzio necessario
(litisconsorzio unitario o quasi necessario).
Il terzo, ove non sperimentasse l’intervento sarebbe soggetto solo all’efficacia favorevole, ma non anche a
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte quella sfavorevole della sentenza pronunciata tra le parti del processo originario; come tale intervento si
atteggia come un rimedio facoltativo posto a favore del terzo per prevenire il formarsi di giudicati
praticamente contraddittori; l’intervento non determina un allargamento oggettivo del processo, ma solo la
capacità della sentenza di produrre effetti sfavorevoli anche a danno del terzo intervenuto; al terzo sono da
riconoscere tutti i poteri propri di chi propone domanda giudiziale.
Lo svolgimento del processo litisconsorti e sarà disciplinato alla stregua di quanto già rilevato
precedentemente.
Sul piano terminologico la prima ipotesi di intervento è tradizionalmente indicata con l’espressione
intervento principale, mentre le altre due sono spesso accomunate sotto l’espressione di intervento autonomo
o intervento adesivo autonomo o intervento litisconsortile.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 32. L’intervento adesivo dipendente ex art. 1052 c.p.c.
Esaurita l’interpretazione del primo comma dell’art. 105 possiamo iniziare l’esame del secondo comma.
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che:
con il termine interesse, adoperato dall’art. 105(2) c.p.c., il legislatore abbia inteso riferirsi alla situazione
sostanziale legittimante all’intervento, non all’interesse processuale ad agire di cui all’art. 100 c.p.c.;
la situazione legittimante all’intervento sia data dalla titolarità da parte del terzo di un diritto o rapporto
giuridicamente dipendente dal diritto o rapporto del processo originario;
il rapporto giuridicamente dipendente del terzo costituisca situazione legittimante all’intervento, ma non è
dedotto in giudizio dal terzo; con l’intervento, cioè, non si propone alcuna domanda relativa al diritto
dipendente del terzo e non si allarga l’ambito oggettivo del processo originario.
L’intervento adesivo semplice o dipendente affonda le sue radici nella relazione di
pregiudizialità/dipendenza tra rapporti sostanziali.
Come si è visto esaminando i limiti soggettivi di efficacia della sentenza, il nostro ordinamento presenta
soluzioni differenziate in ordine al problema relativo al se la sentenza pronunciata sul rapporto pregiudiziale
esplichi o no efficacia riflessa nei confronti del terzo titolare del rapporto giuridico dipendente rimasto
estraneo al processo: a volte esclude del tutto il manifestarsi di tale efficacia (se sfavorevole), a volte
ammette il manifestarsi di tale efficacia, ma consente al terzo, nel secondo processo che abbia ad oggetto il
rapporto dipendente, di contestare la giustizia della prima decisione; a volte, infine, ammette il manifestarsi
di tale efficacia e consente al terzo di dolersi della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale solo negli stretti
limiti in cui lo consente l’opposizione di terzo revocatoria.
La flessione dell’intervento adesivo dipendente muta radicalmente a seconda che si consideri il terzo
soggetto o no all’efficacia riflessa della sentenza pronunciata sul rapporto pregiudiziale oggetto del processo
originario:
- nelle ipotesi in cui il terzo titolare del rapporto dipendente sia considerato sempre soggetto all’efficacia
riflessa della sentenza relativa al rapporto pregiudiziale, l’intervento adesivo dipendente assolve la funzione
di assicurare al terzo una tutela preventiva consentendogli di partecipare al procedimento di formazione del
provvedimento giurisdizionale alla cui efficacia riflessa sarebbe comunque soggetto;
- nelle ipotesi, invece, in cui il terzo titolare del rapporto dipendente non sia considerato soggetto
all’efficacia riflessa della sentenza relativa al rapporto pregiudiziale, l’intervento adesivo dipendente assolve
la funzione di consentire che rapporto pregiudiziale sia accertato fra i legittimi contraddittori con efficacia
vincolante anche nei confronti del terzo.
L’interesse che, in ipotesi di tale specie, può sollecitare il terzo a spiegare l’intervento è dato, non già dalla
soggezione all’efficacia riflessa nella sentenza, bensì sullo opportunità di prevenire il formarsi di un mero
precedente giurisprudenziale favorevole.
Estremamente delicata è l’analisi volta ad individuare i poteri processuali dell’interveniente adesivo
dipendente:
- se l’interveniente poteva mettere in moto il processo sul rapporto pregiudiziale in forza di una sua
legittimazione straordinaria, allora ha tutti i poteri propri delle parti, ivi compreso il potere di autonoma
impugnazione della sentenza;
- se l’interveniente non poteva mettere in moto il processo sul rapporto pregiudiziale in quanto non fornito di
legittimazione straordinaria ad agire, allora è munito di una mera legittimazione ad intervenire in una causa
che non avrebbe potuto proporre.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte Per l’individuazione dei suoi poteri processuali occorre distinguere:
- in ogni caso nell’ambito del processo di primo grado ha pieni poteri istruttori, nonché il potere di allegare
al processo fatti posti a fondamento di eccezioni rilevabili d’ufficio;
quanto al potere di impugnare, la giurisprudenza è afferma nel negare la legittimazione ad impugnare
all’interveniente adesivo dipendente.
Nella sua radicalità questa soluzione non convince.
Poiché l’esperimento dell’intervento non può privare il terzo di quei poteri di impugnazione di cui godere
del nell’autonomo processo relativo al rapporto dipendente, ove non fosse intervenuto nel processo relativo
al rapporto pregiudiziale, è da riconoscergli la legittimazione ad impugnare la sentenza resa su questo
rapporto; ove, però, le parti di tale rapporto non impugnino a loro volta, la relativa sentenza è destinata a
passare in giudicato tra di esse, e l’eventuale accoglimento dell’impugnazione proposta dal terzo varrà solo
ai fini della ricaduta che il rapporto pregiudiziale può avere sull’esistenza o modo d’essere del rapporto
dipendente di cui è parte il terzo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 33. La chiamata in causa su istanza di parte
Ai sensi dell’art. 106 c.p.c. “ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la
causa o dal quale pretende di essere garantita”.
Della chiamata in garanzia si è già trattato; in questa sede ci si può limitare all’esame della chiamata in
causa pura e semplice.
Il problema interpretativo preliminare che pone l’art. 106 c.p.c. è l’individuazione del significato
dell’espressione “comunanza di causa”.
L’interpretazione è oggi accolta dalla giurisprudenza è quella secondo cui la comunanza di causa sussiste
ogni qual volta sussista un ipotesi di connessione oggettiva.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 34. Connessione per identità degli elementi oggettivi del petitum o
per alternatività
Tale ambito va distinto nelle due figure della chiamata in causa del terzo pretendente e della chiamata in
causa del terzo obbligato:
- chiamata in causa del terzo pretendente: è possibile che il convenuto contesti non l’esistenza oggettiva del
suo obbligo, ma la titolarità attiva dell’attore.
In tal caso si potrà avere chiamata in causa del terzo pretendente sia da parte dell’attore sia da parte del
convenuto (allo scopo di evitare il rischio di essere condannato a pagare due volte, prima nei confronti
dell’attore originario e poi del terzo pretendente).
Attraverso la chiamata in causa si fa valere in giudizio una domanda di accertamento su un diritto od
obbligo proprio, domanda connessa con quella originaria per identità degli elementi oggettivi del petitum,
per identità oggettiva del bene;
- chiamata in causa del terzo obbligato: è possibile che il convenuto si difenda contestando la titolarità
passiva del rapporto ed indicando in un terzo il vero obbligato.
In tal caso si potrà avere il chiamata in causa del terzo solo da parte dell’attore, non anche il convenuto, il
quale sarebbe privo di legittimazione ad agire al riguardo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 35. Connessione per identità di titolo (causa petendi, fatto
costitutivo)
Il creditore attore, a seguito della contestazione da parte del convenuto del fatto costitutivo comune del
credito, chiama in causa gli altri condebitori;
Il debitore convenuto chiama in causa gli altri concreditori per vedere respinte tutte le domande proponibili
sulla base dello stesso titolo.
È invece da escludere, per difetto di legittimazione ad agire, la chiamata in causa da parte del concreditore
attore degli altri concreditori, nonché la chiamata in causa da parte del condebitore convenuto degli altri
condebitori.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 36. Connessione per identità di oggetto e di titolo (causa petendi,
fatto costitutivo)
È il settore dei rapporti più soggettivi che non danno luogo al litisconsorzio necessario, bensì solo unitario:
- l’obbligato di una obbligazione solidale o indivisibile a causa comune, convenuto in giudizio da un
concreditore, chiama in causa gli altri concreditori proponendo domanda di accertamento negativo nei loro
confronti, allo scopo di ottenere una sentenza di rigetto che abbia efficacia anche contro di loro;
- il creditore che, a seguito della contestazione del fatto costitutivo da parte del condebitore solidale
convenuto, chiama in causa gli altri condebitori allo scopo di ottenere una sentenza che abbia efficacia anche
contro di loro;
- il condebitore solidale che chiama in causa agli altri condebitori predetti e accertata, anche nei loro
confronti, l’esistenza del credito ed ottenere in tal modo una sentenza spendibile contro di loro in una futura
azione di regresso.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 37. Chiamata in causa di terzi titolari di diritti giuridicamente
dipendenti da quello oggetto del processo originario
- la chiamata in causa del venditore o del terzo datore di ipoteca o acquirente dell’immobile ipotecato: in tali
casi la mera chiamata in causa di terzi assolve la funzione di rendere loro opponibile il giudicato sul
rapporto pregiudiziale;
- la chiamata in causa di terzi titolari di diritti dipendenti che non sarebbero, altrimenti, soggetti ad alcuna
efficacia della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale: in questi casi la mera chiamata in causa dei terzi
assolve la funzione di rendere loro opponibile il giudicato sfavorevole, cui altrimenti non sarebbero soggetti;
- la chiamata in causa di quei terzi che in ogni caso sarebbero soggetti al giudicato formatosi sul rapporto
pregiudiziale: in tal caso la mera chiamata in causa serve a privare questi del potere di impugnare la
sentenza tramite l’opposizione di terzo revocatoria.
L’area coperta dall’art. 106 c.p.c. copre lo stesso settore dell’art. 105 c.p.c.; di conseguenza molti dei rilievi
svolti riguardo all’intervento volontario, specie per quanto concerne i poteri processuali dell’interveniente,
potranno essere trasposti riguardo alla chiamata in causa ex art. 106 c.p.c.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 38. La chiamata in causa su ordine del giudice
L’art. 107 c.p.c. disciplina la chiamata in causa di un terzo per ordine del giudice.
A differenza di quanto accade per la chiamata in causa disciplinata dall’art. 106 c.p.c.:
- la chiamata in causa è subordinata alla preventiva valutazione da parte del giudice dell’opportunità che il
processo si svolga anche nei confronti del terzo “al quale la chiamata è comune”;
- se nessuna delle parti originarie provvede alla chiamata in causa del terzo, la mancata ottemperanza
all’ordine del giudice è sanzionata dalla cancellazione della causa dal ruolo;
- la chiamata in causa di un terzo per ordine del giudice può “essere ordinata in ogni momento dal giudice
istruttore”, cioè non è soggetta alle rigide preclusioni per la chiamata in causa di un terzo su istanza di parte.
La chiamata in causa per ordine del giudice assolve la funzione di evitare che la complessità delle situazioni
sostanziali determini un cattivo funzionamento del processo in danno del cittadino che chiede giustizia
nonché di assicurare il corretto funzionamento del principio del contraddittorio ove per ciò si renda per
necessario un aumento delle parti del processo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 39. Ambito di applicazione dell’art. 107 c.p.c.
Esaminiamo quali sono le figure sintomatiche cui l’art. 107 c.p.c. è stato applicato:
Connessione per identità degli elementi oggettivi del petitum o per alternatività
Sia in ipotesi di contestazione della titolarità passiva del rapporto, stante il rischio che a seguito della
trattazione separata delle controversie l’attore risulti soccombente nei confronti del primo e del secondo
convenuto, sia in ipotesi di contestazione della titolarità attiva del rapporto, stante il rischio opposto di una
doppia soccombenza del convenuto.
Ovviamente, perché sorga l’opportunità di disporre la chiamata in causa per ordine del giudice occorre che
l’esigenza della chiamata in causa del terzo sia sorta dopo la scadenza dei termini per la chiamata su istanza
di parte.
Connessione per pregiudizialità: al rapporto dedotto in giudizio è pregiudiziale altro rapporto di cui è
titolare il terzo
Il creditore agisce contro il fideiussore: al rapporto creditore/fideiussore è pregiudiziale il rapporto
creditore/debitore principale;
l’istituto previdenziale agisce o contro il datore di lavoro per omissione contributiva: al rapporto
previdenziale è pregiudiziale il rapporto di lavoro subordinato del terzo.
Secondo l’opinione prevalente in dottrina, a seguito della chiamata in causa del terzo, il rapporto
pregiudiziale di cui egli è titolare è accertato con autorità di cosa giudicata.
Connessione per pregiudizialità: chiamata in causa del terzo titolare di un rapporto giuridicamente
dipendente da quello oggetto del processo originario
È possibile che nel corso del processo il giudice avverta che le parti, o una sola di esse, facciano un cattivo
uso dei poteri che attribuisce loro il principio del contraddittorio e subodori il rischio che un simile
comportamento sia frutto di dolo o collusione a danno di terzi che sarebbero soggetti all’efficacia riflessa
forte della sentenza.
In tal caso si rivela estremamente opportuna la partecipazione del terzo al processo, a garanzia
dell’effettività del suo diritto di difesa, allo scopo di prevenire l’emanazione di una sentenza ingiusta viziata
da dolo o collusione.
A differenza delle due ipotesi precedentemente esaminate, in questa la chiamata in causa per ordine del
giudice non determina alcun allargamento oggettivo del processo originario.
Connessione per identità di oggetto e di titolo (causa petendi, fatto costitutivo)
Chiamata in causa di contitolari del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo originario.
In tal caso, allo scopo di prevenire l’emanazione di una sentenza ingiusta e di far funzionare meglio il
principio del contraddittorio, può essere opportuno disporre la chiamata in causa di un contitolare,
confidando sulle sue iniziative in punto di allegazioni e di prove.
Anche in questa ipotesi la chiamata in causa per ordine del giudice non determina alcun allagamento
oggettivo del processo originario.
È da escludere un qualsiasi uso dell’art. 107 c.p.c. riguardo ad ipotesi di connessione per mera identità di
titolo (causa petendi, fatto costitutivo): l’esigenza di economia processuale e di evitare il formarsi di
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte precedenti giurisprudenziali contraddittori non è tale da giustificare il prezzo della compressione del
principio della domanda.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 40. La possibile compressione del principio della domanda
La compressione del principio della domanda è minima nelle ipotesi indicate sopra ai punti 3 e 4, poiché,
rimanendo inalterato l’oggetto del processo originario, la chiamata in causa per ordine del giudice incide
solo sulla qualità degli effetti della sentenza nei confronti del terzo.
Riguardo alle ipotesi indicate al numero 2, la compressione del principio della domanda è molto tenue
perché il rapporto pregiudiziale di cui è parte il terzo doveva già essere conosciuto, sia pure in via
incidentale, dal giudice, ciò che cambia a seguito dell’intervento è la qualità degli effetti di tale
accertamento.
La compressione del principio della domanda è invece notevolissima nelle ipotesi indicate al numero 1; la
compressione è tale che la chiamata in causa per ordine del giudice sia subordinata:
- alla esplicita domanda della parte che era decaduta dal potere di chiamare in causa il terzo in base all’art.
106 c.p.c.;
- alla valutazione da parte del giudice che il mancato esercizio tempestivo del potere di chiamata in causa ex
art. 106 c.p.c. derivi da fatto non imputabile alla parte stessa.
Quanto ai poteri processuali del terzo chiamato in causa, nelle ipotesi di terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente da quello dedotto in giudizio dalle parti originarie, essi saranno del tutto
corrispondenti a quelli dell’interveniente volontario; nelle ipotesi, invece, di chiamata in causa per ordine
del giudice di un terzo nei cui confronti il giudice ritenga debba proporsi una domanda connessa con quella
originaria, i poteri processuali del terzo saranno quelli propri di ogni soggetto nei cui confronti è proposta
una domanda giudiziale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 41. L’intervento “iussu iudicis” nel corso del giudizio di secondo
grado
La dottrina e la giurisprudenza sono pressoché unanimi nel ritenere che la chiamata in causa su ordine del
giudice possa essere disposta unicamente nel corso del giudizio di primo grado.
La soluzione della dottrina e della giurisprudenza dominante è da accogliere con riferimento a tutte le ipotesi
nelle quali, attraverso la chiamata in causa su ordine del giudice, si propone una vera e propria domanda
giudiziale nei confronti del terzo: in queste ipotesi, infatti, le esigenze che sono alla base dell’art. 107 c.p.c.
cedono il passo di fronte all’esigenza di garantire il doppio grado di giurisdizione.
La chiamata in causa iussu iudicis di terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti dal rapporto dedotto
in giudizio nel processo originario, potrà, invece, a mio avviso essere disposta anche dal giudice di secondo
grado; e ciò perché:
- attraverso la chiamata in causa non viene proposta alcuna domanda nei confronti del terzo, e pertanto non è
ipotizzabile alcuna violazione del principio del doppio grado di giurisdizione;
- la chiamata in causa è diretta ad evitare l’emanazione di una sentenza affetta da dolo o collusione a danno
del terzo e tale esigenza può essere avvertita anche nel corso del giudizio di secondo grado;
- il terzo in esame è titolare di una posizione che lo legittima alternativamente all’intervento volontario e
all’opposizione di terzo revocatoria, cioè ad un rimedio che comporta la perdita di un grado di giurisdizione;
- in quanto legittimato all’opposizione di terzo revocatoria, il terzo in esame potrebbe intervenire in appello
onde prevenire la possibilità di emanazione di una sentenza viziata da dolo o collusione a suo danno:
sarebbe pertanto assolutamente incongruo privare il giudice di secondo grado del potere di chiamarlo in
causa, onde realizzare la medesima esigenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 42. I riflessi della l. 353/90 sugli interventi
La novella del 1990 è destinata a fare sorgere problemi riguardo alla disciplina degli interventi:
Riguardo all’intervento volontario l’art. 268 c.p.c., dopo aver stabilito al primo comma che il termine ultimo
per l’intervento è quello della precisazione delle conclusioni (manifestando con ciò un chiaro favor nei
riguardi dell’intervento), al secondo comma dispone: “il terzo non può compiere atti che al momento
dell’intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte”.
Allo scopo di evitare che un intervento “tardivo” del terzo stravolga il regime di preclusioni previsto per le
parti, l’art. 268 c.p.c., se da un lato consente in astratto che il terzo possa intervenire volontariamente
durante tutto il corso del giudizio di primo grado, dall’altro lato costringe il terzo ad accettare il processo
nello stato di avanzamento in cui si trova.
Ciò significa che lo stato di avanzamento del giudizio di primo grado:
- può impedire l’intervento al terzo che, affermando di essere titolare di un diritto autonomo e incompatibile
con quello oggetto del processo originario, voglia far valere tale suo diritto allo scopo di prevenire il
formarsi di un giudicato inter partes che, pur non potendo avere efficacia giuridica nei suoi confronti, possa
pregiudicarlo a causa della situazione di oggettiva incertezza in cui pone il diritto di cui egli si afferma
titolare o a causa dell’eventuale esecuzione;
- non impedirà ai terzi creditori e aventi causa soggetti all’efficacia riflessa della sentenza che va ad essere
emanata nel processo pendente inter partes, di intervenire nel corso del giudizio di primo grado, ma potrà
impedire loro l’esercizio di qualsiasi attività difensiva diversa dalla proposizione di eccezioni rilevabili
d’ufficio; in particolare potrà impedire loro esercizio di qualsiasi potere istruttorio;
- può impedire, nel caso che un diritto sia stato legittimamente fatto valere da alcuni contitolari, l’intervento
degli altri contitolari, i quali intendano far valere in giudizio, contro il convenuto originario, lo stesso diritto
allo scopo di prevenire il rischio (ed i danni) derivanti anche dalla mera possibilità del formarsi di giudicati
praticamente contraddittori sullo stesso diritto di cui si affermano contitolari;
- può impedire l’intervento al terzo che, affermandosi titolare di un diritto connesso per mezzo entità di fatto
costitutivo (un fatto costitutivo o causa petendi) con il diritto oggetto del processo originario, voglia far
valere tale suo diritto in via di intervento nei confronti di una sola delle parti originarie, in funzione
prevalente di economia di attività processuali (solo in questa ipotesi le limitazioni del potere di intervento
non sembrano porre problemi).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 43. Chiamata in causa su istanza di parte: artt. 167 e 269 c.p.c.
Riguardo alla chiamata in causa su istanza di parte gli artt. 167 e 269 c.p.c. prevedono che la chiamata in
causa da parte del convenuto debba avvenire al momento della sua costituzione in giudizio; l’attore invece
può chiedere nella prima udienza di essere autorizzato a chiamare in causa terzi, ma solo ove l’esigenza
della chiamata sia sorta dalle difese del convenuto (di qui la necessità dell’autorizzazione del giudice).
L’art. 269 c.p.c. e l’art. 271 c.p.c. prevedono che il terzo chiamato deve costituirsi a norma dell’art. 166
c.p.c. e, se intende chiamare a sua volta un terzo, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella
comparsa di risposta.
Nell’udienza di prosecuzione della prima udienza di trattazione, fissata per la comparizione del terzo
chiamato, restano ferme per le parti originarie le preclusioni ricollegate alla prima udienza, ma le parti stesse
potranno esercitare liberamente tutti i poteri processuali che siano conseguenza delle difese svolte dal terzo
ed essere autorizzate altresì dal giudice a modificare le domande e le eccezioni originariamente proposte.
La chiamata su istanza di parte rende più complesso il processo e la sua fase preparatoria, ma non altera in
modo alcuno il regime di preclusioni.
Le cose cambiano, e notevolmente, in ipotesi di chiamata in causa per ordine del giudice: questa chiamata in
causa, infatti, può essere ordinata “in ogni momento dal giudice istruttore”, quindi anche dopo che si e
chiusa la fase preparatoria e sono maturate per le parti originarie le preclusioni.
A differenza di quanto previsto riguardo all’intervento volontari, il terzo chiamato per ordine del giudice
non vede limitati i suoi poteri dallo stato di avanzamento del processo: egli può, quindi, con la comparsa di
risposta, proporre domande riconvenzionali ed eccezioni non rilevabili d’ufficio, può nel corso dell’udienza
fissata per la sua comparizione modificare domande ed eccezioni già proposte e chiedere la fissazione dei
termini di cui all’art. 184 c.p.c. per le deduzioni istruttorie; lo svolgimento di queste attività da parte del
terzo costituisce causa oggettivamente non imputabile alle parti originarie e quindi consentirà ad esse di
esercitare tutti quei poteri processuali che siano conseguenza delle attività svolte dal terzo.
Col che, a differenza di quanto accade in ipotesi di chiamata in causa su istanza di parte, la struttura del
processo risulterà nella sostanza stavolta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 44. Caratteristiche generali delle impugnazioni
I mezzi di impugnazione costituiscono il rimedio tipico e pressoché unico attraverso cui provocare il
controllo sulla validità e sulla giustizia delle sentenze.
Essi costituiscono uno sviluppo del diritto di azione e del diritto di difesa costituzionalmente garantiti.
I mezzi di impugnazione delle sentenze mirano non solo ad eliminare la sentenza ingiusta o invalida, ma
anche a sostituirla con altra sentenza che si pronunci sull’esistenza o no del diritto azionato dall’attore (con
la sola eccezione delle ipotesi in cui, alla presenza del difetto di un requisito extraformale insanabile, il
processo deve chiudersi con una pronuncia di rito).
Sul piano tecnico giuridico i mezzi di impugnazione elencati dall’art. 323 c.p.c. (appello, ricorso per
cassazione, revocazione, opposizione di terzo, regolamento di competenza su istanza di parte) si
caratterizzano per i seguenti motivi:
- a differenza della domanda giudiziale, si dirigono contro un provvedimento del giudice;
- il provvedimento del giudice verso cui si dirigono è la sentenza, non l’ordinanza; nel caso in cui il giudice
abbia erroneamente attribuito la forma dell’ordinanza ad un provvedimento che doveva avere la forma della
sentenza, l’ordinanza sarà soggetta ad impugnazione solo se abbia definito il giudizio;
- legittimati ad impugnare normalmente sono solo coloro che hanno assunto la qualità di parte nel grado di
giudizio conclusosi con la sentenza che si intende impugnare; eccezionali sono le ipotesi in cui legittimato
ad impugnare è un terzo o il pubblico ministero che non abbia partecipato al giudizio;
- la legittimazione (o l’interesse) ad impugnare deriva dalla soccombenza; normalmente la nozione di
soccombenza che rileva è la soccombenza pratica, intendendosi per questa l’essere rimasto totalmente o
parzialmente soccombente rispetto alla domanda.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 45. Classificazione dei mezzi di impugnazione
I mezzi di impugnazione si possono distinguere a seconda che:
- legittimato a proporre sia una parte, come è di regola, o un terzo: a tale riguardo l’opposizione di terzo
ordinaria e revocatoria e la revocazione del pubblico ministero si contrappongono a tutti gli altri mezzi di
impugnazione;
- giudice competente a conoscere dell’impugnazione sia un giudice diverso da quello che ha emanato la
sentenza impugnata o invece sia lo stesso giudice: nella prima categoria rientrano l’appello, il ricorso per
cassazione e il regolamento di competenza, nella seconda categoria la revocazione che l’opposizione di
terzo;
- i motivi di impugnazione siano tipici dati dal legislatore, o invece siano a carattere illimitato: esemplare a
tale riguardo è la contrapposizione fra l’appello, mezzo di impugnazione a motivi illimitati (o a critica
libera), e il ricorso per cassazione o la revocazione, mezzi di impugnazione a motivi limitati (o a critica
vincolata);
- il singolo mezzo di impugnazione sia formalmente strutturato o no in due fasi: la prima, rescindente, diretta
a verificare la fondatezza dei motivi e, in caso positivo, ad eliminare la sentenza impugnata; la seconda,
rescissoria, diretta a sostituire la sentenza rescissa con altra sentenza che si pronunci sul merito della
controversia; la distinzione tra le due fasi continua ad essere nettissima nel ricorso per cassazione nel quale
la fase rescissoria si svolge normalmente davanti a un giudice diverso da quello innanzi al quale si è svolta
la fase rescindente (la Corte di Cassazione); sussiste in modo alquanto netto nella revocazione; manca del
tutto, o si verifica solo in ipotesi eccezionali, nell’appello;
- si atteggino come mezzi di impugnazione ordinari, come tali soggetti al termine annuale di decadenza,
decorrente dalla pubblicazione della sentenza o ai termini cosiddetti accelerati, decorrenti dalla notificazione
della sentenza, o invece con mezzi di impugnazione straordinari non soggetti al termine annuale di
decadenza, ma o non soggetti ad alcun termine o soggetti a termini decorrenti dal giorno in cui la parte, o il
terzo, ha avuto conoscenza del vizio.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 46. I termini per impugnare la sentenza
Il legislatore distingue, innanzitutto, i mezzi di impugnazione a seconda che siano soggetti o no al termine
annuale di decadenza.
I mezzi di impugnazione soggetti al termine annuale di decadenza sono il regolamento di competenza,
l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi previsti dall’art. 395 nn. 4 e 5 c.p.c.: tali
mezzi di impugnazione sono detti ordinari in quanto la pendenza dei termini per la loro proposizione, o la
loro proposizione, impedisce il passaggio in giudicato formale della sentenza.
I mezzi di impugnazione non soggetti al termine annuale di decadenza sola revocazione per i motivi di cui
all’art. 395 nn. 1, 2, 3 e 6 c.p.c., la revocazione del pubblico ministero, l’opposizione di terzo ordinaria e
revocatoria: tali mezzi di impugnazione sono detti straordinari perché è proponibile anche dopo il passaggio
in giudicato formale della sentenza; questo non vuol dire che la loro proposizione non soggetta ad alcun
termine: con la sola eccezione dell’opposizione di terzo ordinaria, sottratta a qualsiasi termine, tutti gli altri
mezzi di impugnazione straordinaria vanno proposti entro il termine di 30 giorni decorrente dal giorno in cui
la parte, il terzo o il pubblico ministero hanno avuto conoscenza del vizio.
Si impongono due precisazioni:
- fermo restando il termine massimo costituito dalla decorrenza dell’anno dalla pubblicazione, ove la
sentenza sia stata notificata inizia a decorrere (a danno della parte a cui è stata effettuata la notifica e a
danno della parte notificante) un termine breve di 30 giorni (per l’appello e la revocazione) o 60 giorni (per
il ricorso per cassazione), termine breve che pone fuori gioco il termine annuale di decadenza e accelera il
momento dell’impugnazione o invece del passaggio in giudicato formale della sentenza;
- eccezionalmente, il termine annuale di decadenza (ma non i termini brevi) non si applica al convenuto che
sia rimasto contumace in primo grado e che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo a causa
della nullità della citazione o della notificazione di essa.
In tali ipotesi il termine annuale di decadenza entro cui proporre appello, ricorso per cassazione o
revocazione inizierà a decorrere a danno del contumace involontario solo dal giorno in cui questi abbia
avuto conoscenza della sentenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 47. I vizi della sentenza e l’evoluzione dei rimedi attraverso cui fare
valere le invalidità della sentenza
Secondo una ripartizione tradizionale, i vizi della sentenza si distinguono in errores in procedendo e in
errores in iudicando:
Gli errores in procedendo, o vizi di attività, determinano l’invalidità della sentenza.
Essi possono consistere:
- nella mancanza di requisiti extraformali non sanati o non sanabili: difetto di giurisdizione, di competenza,
di legittimazione ad agire, di litisconsorzio necessario, di interesse ad agire, ecc…;
- in nullità formali non sanate che in forza del principio della estensione delle nullità agli atti dipendenti si
siano riverberate sulla sentenza;
- in vizi attinenti immediatamente alla sentenza, cioè nel difetto di condizioni extraformali o di requisiti
formali propri della sentenza.
Gli errores in iudicando, o vizi di giudizio, determinano l’ingiustizia della sentenza.
Essi inquinano direttamente l’operazione logica destinata a determinare quale è la volontà concreta di legge
nel caso concreto.
Possono consistere:
- in errori nella individuazione e/o nella interpretazione della norma sotto cui si assumere il diritto fatto
valere in giudizio: cioè relativi alla quaestio iuris;
- in errori commessi nell’accertamento dei fatti controversi: cioè relativi alla quaestio facti.
È opportuno a questo mondo svolgere alcuni cenni di carattere storico.
Gli strumenti attraverso cui far valere l’invalidità della sentenza si sono evoluti secondo questa
progressione:
- inizialmente il rimedio esperibile era azione di nullità: imprescrittibile, suscettibile di essere fatta valere da
chiunque vi avesse interesse ed a contenuto esclusivamente rescindente; a successivamente il sistema si è
voluto prevedendo l’istituto della querela nullitatis, rimedio specifico esperibile contro le sentenze invalide:
soggetto a termine, esperibile unicamente dalla parte a cui danno era andato il vizio, ma ancora a contenuto
esclusivamente rescindente;
- l’ultima fase di questa evoluzione è consistita nel prevedere quale unico rimedio attraverso cui fare valere
l’invalidità della sentenza i mezzi di impugnazione: rimedi soggetti a termine, esperibile unicamente dalla
parte praticamente soccombente, diretti non solo all’eliminazione, ma anche alla sostituzione della sentenza.
Risultato di questa lenta evoluzione è il principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di
impugnazione; conversione che si fonda sul presupposto secondo cui qualora il loro difetto non abbia
determinato danno per la parte, questa, in quanto praticamente vittoriosa, non possa far valere.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 48. Azioni di impugnativa e gravami
Sempre allo scopo di agevolare la comprensione del diritto vigente può essere utile distinguere due modelli
ideali desunti dalla storia dei mezzi di impugnazione: le azioni di impugnativa e i gravami.
- le azioni di impugnativa solo i mezzi attraverso cui si denunciano su istanza della parte soccombente vizi
della sentenza: esse mirano innanzitutto ad accertare l’esistenza del vizio e, in caso positivo, ad eliminare la
sentenza viziata, riservando in tal caso ad una seconda fase la sostituzione della sentenza viziata; oggetto
della prima fase delle azioni di impugnativa è unicamente il vizio denunciato e mai il rapporto sostanziale;
rigida è in essi la distinzione tra fase rescindente e fase rescissoria;
- i gravami sono strumenti attraverso cui si realizza il doppio grado di giurisdizione; presupposto per il loro
esercizio è unicamente la soccombenza, non la denuncia di un vizio della sentenza, da cui prescindono del
tutto; la loro funzione è il provocare un nuovo giudizio sul rapporto sostanziale; la sentenza pronunciata a
termine del gravame ha sempre carattere sostitutivo rispetto a quella impugnata ed essa solo è destinata ad
avere efficacia esecutiva; loro oggetto è sempre e solo il rapporto sostanziale e la distinzione tra fase
rescindente e rescissoria è loro del tutto estranea.
L’evoluzione storica mostra la progressiva contaminazione reciproca dei due modelli:
- utilizzazione dei gravami per fare valere i vizi, specie di attività;
- lento ma progressivo stemperamento della distinzione tra fase rescindente e rescissoria nelle azioni di
impugnativa.
Il ricorso per cassazione è modellato sullo schema delle azioni di impugnativa, ma si discosta dal modello
perché la sentenza che dichiara esistente il vizio non ha funzione meramente rescindente, ma anche parziale
carattere rescissorio, sostitutivo là dove enuncia statuizioni positive vincolanti nella fase rescissoria.
L’appello è modellato sullo schema del gravame, ma se ne discosta sia perché richiede che nell’atto
d’appello siano indicati “i motivi specifici di impugnazione”, cioè i vizi di giudizio o di attività denunciati;
sia perché è utilizzato anche per fare valere nullità (errores in procedendo), con la conseguenza che si ha una
modificazione della sua struttura, perché vi sarà necessariamente una fase rescindente, allo scopo di
consentire la rinnovazione degli atti nulli da parte dello stesso giudice d’appello; sia perché la sentenza di
primo grado è esecutiva ex lege; sia perché è in atto una tendenza a limitare le nuove eccezioni e le nuove
prove in appello.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 49. La direttiva dell’unità oggettiva e soggettiva del procedimento di
impugnazione
Gli artt. da 331 a 335 c.p.c. enunciano la direttiva dell’unità oggettiva e soggettiva del processo di
impugnazione.
L’esigenza che sta alla base di tutte queste disposizioni è quella di far sì che, se un processo di primo grado
ha avuto un determinato oggetto o ha avuto determinati soggetti, non si abbia, nell’ambito della fase di
impugnazione, una biforcazione del processo stesso.
In altre parole il legislatore ha avuto di mira la tendenziale identità del processo di impugnazione rispetto
quello impugnato, sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo.
Affermato ciò, occorre distinguere a seconda che il processo di primo grado si sia svolto tra due o più parti.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 50. Giudizio di primo grado svoltosi fra due sole parti
È possibile innanzitutto che il giudizio di primo grado si sia concluso con la soccombenza totale di una delle
due parti; di conseguenza una sola delle due parti sarà legittimata ad impugnare.
In questo caso, avverso la sentenza di primo grado è proponibile impugnazione da parte dell’unico
soccombente nei confronti dell’unico vincitore.
Problemi di coordinamento cominciano a porsi quando, a conclusione del giudizio di primo grado, si
verifichi un fenomeno di soccombenza ripartita; in queste ipotesi entrambi i soggetti sono legittimati ad
impugnare, e l’iniziativa può essere presa sia dall’una sia dall’altra parte, in virtù appunto della
soccombenza, e non dell’iniziativa della controparte.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 51. L’impugnazione incidentale
Il nostro ordinamento risolve il problema della soccombenza ripartita all’art. 333 c.p.c., attraverso la
distinzione fra impugnazione principale e impugnazione incidentale.
L’obiettivo che legislatore persegue è far sì che le due impugnazioni siano proposte nell’ambito di un unico
processo, allo scopo di evitare la riformulazione di un giudizio che in primo grado era stato unitario.
A questo fine, il legislatore definisce impugnazione “principale” quella proposta per prima, mentre definisce
“incidentale” l’impugnazione proposta successivamente; fra le due impugnazioni non vi è differenza quanto
alla natura o alla forza, ma vi è differenza quanto alle forme e ai termini, là dove questa diversità ha proprio
lo scopo di permettere che le due impugnazioni confluiscano nell’ambito dello stesso processo.
Ad esempio, l’appello principale della rito ordinario si propone nella forma dell’atto di citazione; l’appello
incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 52. La riunione delle impugnazioni separate
Nonostante le prescrizioni di legge, è possibile che, avverso la sentenza, siano proposti due appelli in forma
principale; questa è un’ipotesi che non può essere eliminata dalla categoria delle possibilità e che rischia di
vanificare gli sforzi del legislatore.
È un problema che il legislatore ha risolto nell’art. 335 c.p.c., il quale prevede: “tutte le impugnazioni
proposte separatamente contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d’ufficio, in un solo
processo”.
Cosa accade se l’appellato cui sia stato notificato un atto di citazione di appello principale, anziché proporre
appello incidentale, propone appello principale?
La giurisprudenza ha ritenuto che in questa ipotesi patologica è possibile ugualmente la riunione delle
impugnazioni separate, purché il secondo appello, proposto nella forma dell’appello principale, anziché in
quella dell’appello incidentale, sia proposto nel termine previsto dalla legge per la proposizione dell’appello
incidentale; verificandosi in questo modo un fenomeno di convalidazione oggettiva per raggiungimento
dello scopo.
Cosa accade se la riunione delle impugnazioni non si verifica?
In questi casi la giurisprudenza, per evitare biforcazioni di decisioni, ritiene che la decisione di merito
intervenuta su uno dei due appelli, proposti entrambi in via principale, rende improcedibile l’altro giudizio
di appello ancora pendente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 53. L’impugnazione incidentale tardiva
Il discorso svolto fino ad ora concerne unicamente l’impugnazione incidentale che deve qualificarsi come
tempestiva.
Nell’art. 334 c.p.c., però, il legislatore prende in considerazione l’ipotesi dell’appellato il quale, al momento
in cui gli è notificato l’appello principale, abbia perso il potere di impugnazione per decorrenza dei termini o
acquiescenza (ossia accettazione espressa della sentenza, compimento di atti incompatibili con la volontà di
impugnare).
Qualora ciò si verifichi, la notificazione dell’impugnazione vale come rimessione in termini dell’impugnato
nel potere di impugnare (cosiddetta impugnazione incidentale tardiva).
Il legislatore ha effettuato questa scelta allo scopo di favorire l’accettazione della sentenza.
L’esigenza di evitare l’incentivazione delle impugnazioni ha, come contropartita necessaria, la previsione
della rimessione in termini dell’impugnato che abbia perso il potere di impugnare.
Tuttavia, l’impugnazione incidentale tardiva, a differenza di quella tempestiva, si presenta come
impugnazione non autonoma, ma condizionata alla ammissibilità dell’impugnazione principale.
Alla fine degli anni ‘50 la giurisprudenza inaugura un indirizzo che ha resistito fino al 1989, secondo cui
l’impugnazione incidentale tardiva era ammissibile, in quanto si dirigesse contro lo stesso capo della
sentenza oggetto di impugnazione principale, ovvero contro un capo “connesso o dipendente”.
Questa limitazione oggettiva aveva determinato un insuperabile incertezza nella prassi applicativa in ordine
agli effettivi limiti di ammissibilità delle impugnazioni incidentali tardive; la stessa locuzione “capo
connesso o dipendente” era ed è altamente equivoca.
Per fortuna il problema sembra essere stato definitivamente risolto da un intervento delle Sezioni Unite della
Suprema Corte (sent. 4640/89) la quale, modificando il precedente indirizzo giurisprudenziale, ha affermato
con chiarezza assoluta che le impugnazioni incidentali tardive non incontrano alcuna limitazione di carattere
oggettivo.
Venute meno le limitazioni oggettive all’impugnazione incidentale tardiva, restano, però, ad avviso della
giurisprudenza, le cosiddette limitazioni soggettive.
Talune sono assolutamente legittimi, altre sono prive di qualsiasi giustificazione esegetica o logico-
sistematica.
Alla stregua della lettera dell’art. 334 c.p.c., parti legittimate all’impugnazione incidentale tardiva sono
quelle “contro le quali è stata proposta illuminazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a
norma dell’art. 331 c.p.c.”.
Ne segue che le parti alle quali è notificata l’impugnazione a norma dell’art. 332 c.p.c. non sono legittimate
all’impugnazione incidentale tardiva.
Ad avviso della giurisprudenza, però, esisterebbe una seconda limitazione soggettiva alla proposizione
dell’impugnazione incidentale tardiva: la parte impugnata potrebbe a sua volta impugnare in via incidentale
tardiva, oltre che contro la parte impugnante, solo contro le parti “chiamate ad integrare il contraddittorio a
norma dell’art. 331 c.p.c.” e non anche contro quelle cui l’impugnazione va notificata a norma dell’art. 332
c.p.c.
Quindi, l’incasellare la causa nell’ambito dell’art. 331 o 332 c.p.c. si rivela determinante ai fini
dell’ammissibilità o no dell’impugnazione incidentale tardiva.
La conservazione di una simile limitazione soggettiva all’impugnazione incidentale tardiva mi sembra che
costituisca un residuato della previsione di limitazioni oggettive: venute meno queste, è auspicabile che in
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte tempi non troppo lunghi la giurisprudenza elimini anche la limitazione soggettiva cui si è accennato.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 54. L’istituto dell’acquiescenza
L’istituto dell’acquiescenza è regolato dall’art. 329 c.p.c., il quale recita: “l’acquiescenza risultante da
accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla
legge ne esclude la proponibilità. L’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza
non impugnate”.
Quando si verifica un fenomeno di acquiescenza, l’impugnazione si intende esclusa: l’acquiescenza consiste
in una dichiarazione di accettazione espressa della sentenza (acquiescenza esplicita), ma può risultare anche
da comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni (acquiescenza tacita).
L’art. 3292 c.p.c. isola un comportamento particolare, un fenomeno di acquiescenza tacita cosiddetta
qualificata: l’impugnazione parziale comporta acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate.
Occorre però notare che la nozione di “parte della sentenza” non è una nozione con significato univoco,
perché talvolta corrisponde in maniera piena ad una domanda, cioè ad un diritto fatto valere in giudizio,
talvolta invece corrisponde ad una parte della domanda, attraverso cui è stato fatto valere in giudizio un
diritto complesso, a volte corrisponde alle singole questioni risolte nella sentenza.
È altresì da notare che l’impugnazione parziale della parte pregiudiziale della sentenza non è idonea a
determinare acquiescenza in relazione alla parte dipendente: in questa ipotesi è da escludere l’operare
dell’art. 329 c.p.c.
Quindi, in caso di riforma della parte della sentenza riguardante l’esistenza del credito, saranno
automaticamente riformate anche le parti della sentenza relative all’esistenza delle obbligazioni accessorie
(cosiddetto effetto espansivo interno della sentenza).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 55. Giudizio di primo grado svoltosi fra più parti
Il legislatore distingue le ipotesi di giudizio di primo grado svoltosi con pluralità di parti in due categorie,
descritte dagli artt. 331 e 332 c.p.c., a seconda che la causa cui abbiano partecipato sia da qualificare come
inscindibile ovvero come scindibile.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 56. Cause inscindibili
L’art. 331 c.p.c., sotto la rubrica “integrazione del contraddittorio in cause inscindibili”, detta: “se la
sentenza pronunciata fra più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti non è stata impugnata
nei confronti di tutte, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando il termine entro il quale la
notificazione deve essere fatta e, se necessario, l’udienza di comparizione. L’impugnazione è dichiarata
inammissibile se nessuna delle parti provvede all’integrazione nel termine fissato”.
In materia di cause inscindibili, se la impugnazione è proposta nei confronti di una sola delle parti che
avevano partecipato al giudizio di primo grado o di alcune solo delle stesse parti, il legislatore reputa che
questa impugnazione è illegittima, dato che al giudizio di secondo grado debbono partecipare
necessariamente tutte le parti che avevano partecipato al giudizio di primo grado.
Il legislatore prevede che questo vizio possa essere rilevato ad opera del giudice, il quale, nella prima
udienza di trattazione, ha il compito di verificare l’integrità del contraddittorio e, ove rilevi l’esistenza di un
vizio, deve mettere in moto un meccanismo di sanatoria consistente nella fissazione di un termine perentorio
entro il quale le parti devono integrare il contraddittorio.
Se il contraddittorio è integrato, il vizio originario viene sanato con efficacia ex tunc ed il processo
prosegue; se invece il contraddittorio non è integrato nel termine perentorio fissato dal giudice, la
conseguenza è, non l’estinzione del giudizio, ma la dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione,
provvedimento di mero rito che chiude il giudizio e che comporta il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 57. Cause scindibili
L’art. 332 c.p.c., sotto la rubrica “notificazione dell’impugnazione relativa a cause scindibili”, recita: “se
l’impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta soltanto da alcune delle parti
o nei confronti di alcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre, in confronto delle quali
l’impugnazione non è preclusa o esclusa, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se
necessario, l’udienza di comparizione. Se la notificazione ordinata dal giudice non avviene, il processo
rimane sospeso fino a che non siano decorsi i termini previsti negli artt. 325 e 327 c.p.c.”.
Il meccanismo del primo comma prevede che l’impugnazione, proposta solo nei confronti di alcune delle
parti hanno partecipato al giudizio di primo grado, in materia di cause scindibili, comporta che il giudice
fissi un termine per la notificazione dell’impugnazione alle altre parti; ma, a differenza della materia oggetto
di cause inscindibili, per un verso, nei confronti delle altre parti non va proposta impugnazione, ma solo
notificata l’impugnazione già proposta (con funzione di provocatio ad impugnandum), per altro verso la
notificazione va effettuata soltanto nei confronti di quelle parti rispetto alle quali il potere di impugnazione
non è precluso o escluso.
In queste ipotesi, il legislatore vuole assicurare non la partecipazione necessaria al giudizio di impugnazione
di tutte le parti che avevano partecipato al giudizio di primo grado, ma solo la non biforcazione dei giudizi;
ciò è testimoniato dal fatto che sia nei confronti di alcune delle parti del giudizio di primo grado si è formato
un giudicato, queste non debbono partecipare al giudizio di impugnazione.
La differenza rispetto all’art. 331c.p.c. è ancora più netta se si valutano le conseguenze della mancata
ottemperanza all’ordine di notificazione: non la inammissibilità dell’impugnazione, ma semplicemente la
sospensione del processo, l’entrata del processo in una fase di quiescenza, in attesa che siano decorsi i
termini per impugnare, con conseguente formazione del giudicato nei confronti di quelle parti che non erano
state chiamate a partecipare al giudizio di impugnazione.
La disciplina dell’art. 332 c.p.c. mira unicamente ad evitare che il giudizio di primo grado svolto tra più
parti possa biforcarsi in sede di impugnazione in due giudizi separati; ma, una volta eliminato questo rischio
a causa del passaggio in giudicato nei confronti di alcuna di queste parti, le restanti possono tranquillamente
dare corso al giudizio di impugnazione senza incorrere in alcuna conseguenza.
Per tentare una ricostruzione sistematica dell’ambito di applicazione rispettivamente dell’art. 331e dell’art.
332 c.p.c. è opportuno passare in rassegna le ipotesi di connessione tra parti diverse, prospettando
l’inquadramento nell’una o nell’altra disciplina.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 58. Connessione sostanziale e regime processuale
Vi sono due ipotesi radicalmente contrapposte: da un lato quella del litisconsorzio necessario, in cui più parti
devono necessariamente partecipare al giudizio, e dall’altro lato le ipotesi di domande cumulate nello stesso
processo, connesse per mera identità di questioni di diritto o di fatto.
Nella prima ipotesi la connessione è intensissima, mentre nella seconda la connessione si presenta nella più
labile delle forme; si può quindi affermare con sicurezza che oggetto delle cause inscindibili sono
certamente le ipotesi di litisconsorzio necessario, mentre oggetto delle cause scindibili sono certamente le
ipotesi di litisconsorzio facoltativo improprio.
La seconda ipotesi di connessione, in ordine recente di forza, è la connessione per mera identità di titolo
(causa petendi, fatto costitutivo); in questi casi le eventuali domande cumulate nel corso del giudizio di
primo grado rientrano, nella fase di impugnazione, sotto l’ambito di applicazione dell’art. 332 c.p.c.
La terza ipotesi di connessione è quella per identità del diritto fatto valere in giudizio, ipotesi che va sotto
l’etichetta di “litisconsorzio necessario”, o “quasi necessario”.
Essa è caratterizzata dalla circostanza che il diritto a fatto valere in giudizio nelle due domande è lo stesso e
che una eventuale trattazione separata potrebbe dar luogo a giudicati contraddittori.
In questi casi non dovrebbero esistere dubbi circa l’applicazione dell’art. 331c.p.c.; è però da tenere presente
che la giurisprudenza fare entrare sotto l’ambito di applicazione dell’art. 332 c.p.c. importantissimo settore
delle obbligazioni solidali.
Quanto infine alla connessione per incompatibilità, l’applicabilità dell’art. 331 c.p.c. deriva dalla circostanza
che fenomeni di questo tipo, ove la trattazione non sia simultanea, possono dar luogo a giudicati
praticamente contraddittori.
E lo stesso è probabilmente da ritenere riguardo alla cosiddetta connessione per alternatività.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 59. La connessione per pregiudizialità/dipendenza: l’intervento
adesivo dipendente
L’ultima ipotesi di connessione è la connessione per pregiudizialità dipendenza; ad essa si riferisce
esplicitamente l’art. 331 c.p.c. laddove parla di “cause tra loro dipendenti”.
Questo settore non consente risposte unitarie, dovendosi invece scindere e analizzare uno ad uno i vari
fenomeni che vi rientrano.
L’intervento adesivo dipendente
È possibile e che, nel corso del giudizio di primo grado, il terzo titolare di un diritto giuridicamente
dipendente dal rapporto dedotto nel giudizio originario, abbia sperimentato intervento adesivo a o sia stato
chiamato in causa.
Caratteristica di questa ipotesi è che da o contro il terzo non è stata proposta alcuna domanda, così che il
problema vero consiste nel se esso dà luogo o meno al fenomeno della “causa inscindibile”.
Ove il terzo abbia preso parte al processo avente ad oggetto il diritto pregiudiziale, egli sarà soggetto
all’efficacia immutabile della sentenza, cioè all’autorità di cosa giudicata.
Possiamo concludere, dunque, che in ipotesi di intervento adesivo dipendente si applica la disciplina dell’art.
331c.p.c.; se ciò non avvenisse, in caso di riforma della sentenza di primo grado sarebbe arduo stabilire se al
rapporto dipendente debba applicarsi la disciplina dettata dalla sentenza di primo grado, a termine di un
giudizio cui il terzo ha partecipato, o quella dettata dalla sentenza emanata nel giudizio di impugnazione cui
il terzo è rimasto estraneo.
È opportuno ora suddividere l’ampio spettro che le cause tra loro dipendenti in tre sottogruppi, per tentarne
una ricostruzione di ordine generale:
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 60. Primo schema di connessione per pregiudizialità/dipendenza
Il primo schema di pregiudizialità/dipendenza riguarda le cause di garanzia cumulate nel processo instaurato
contro il garantito (rivendicante/compratore/venditore, danneggiato/responsabile del danno/società
assicuratrice, consumatore/dettagliante/produttore).
È opportuno tenere presente che la giurisprudenza opera un distinguo netto tra le fattispecie di garanzia,
qualificandole come “garanzia propria” ovvero come “garanzia impropria”: qualifica come garanzia propria
i fenomeni di garanzia da trasferimento di diritti (e da vincoli di coobbligazione) in cui la domanda di
garanzia si fonda sullo stesso titolo della domanda principale, mentre qualifica garanzia impropria i
fenomeni di garanzia derivante da assicurazioni per la responsabilità civile o da vendite a catena, ecc…, in
cui mancherebbe l’identità del titolo.
Cerchiamo di riflettere su alcune delle molte vicende che possono verificarsi nella pratica:
1. in una prima ipotesi, può verificarsi in primo grado l’accoglimento sia della domanda principale sia della
domanda dipendente di garanzia:
a) successivamente il garantito, soccombente nei confronti dell’attore principale, impugna nei confronti di
questo.
L’ipotesi rientra certamente nell’ambito di applicazione dell’art. 331 c.p.c.; nell’ipotesi ora in esame, ove ciò
non si verificasse, si avrebbe il passaggio in giudicato della sentenza di condanna del garante a prestare la
garanzia a favore del garantito contemporaneamente allo svolgersi in secondo grado del giudizio sul
rapporto pregiudiziale, con l’assurdo che in ipotesi di riforma della sentenza di primo grado a vantaggio del
garantito, questi, per un verso, nulla dovrebbe all’attore originario, per altro verso, lucrerebbe la garanzia
prestata dal terzo.
Questa conclusione è imposta anche dall’art. 336 c.p.c. secondo cui la riforma o cassazione parziale ha
effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata;
b) se, invece, è il garante che impugna contro il garantito, occorre distinguere, poiché l’inserimento di questa
ipotesi nell’ambito della disciplina dettata dall’art. 331 o 332 c.p.c. dipende dal contenuto
dell’impugnazione:
- se il garante nuove contestazioni relative esclusivamente alla porto di garanzia, ben può il giudizio di
impugnazione svolgersi solo tra impugnante e impugnato e quindi la fattispecie in esame ricadere
nell’ambito delle cause scindibili ex art. 332 c.p.c.;
- se il garante si difende censurando la decisione che ha riconosciuto il diritto dell’attore principale, in tal
modo rimette in discussione il rapporto pregiudiziale.
Problematico è dire se in ipotesi di tale specie si applica la disciplina dell’art. 331 c.p.c., con la conseguenza
per un verso che al processo deve partecipare anche l’attore principale oltre al garantito, per altro verso che
l’accertamento del rapporto pregiudiziale a è destinato ad avere efficacia non solo nei rapporti
garantito/garante, ma anche in quelli tra attore originario e garantito; o, invece, si applica la disciplina
dell’art. 332 c.p.c., con la conseguenza che, ove il garantito non impugni a sua volta contro l’attore
originario, l’accertamento del rapporto pregiudiziale sarà effettuato in via incidentale tra i soli garante e
garantito, ed avrà efficacia solo ai fini del rapporto dipendente di garanzia.
La soluzione accolta dalla giurisprudenza sostiene che sarebbe applicabile l’art. 331 c.p.c. in caso di
garanzia propria, e l’art. 332 c.p.c. in caso di garanzia impropria: una simile differenziazione non trova
giustificazione alcuna, poiché il fenomeno di pregiudizialità/dipendenza sussiste in entrambe le ipotesi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte
2. In una seconda ipotesi può verificarsi in primo grado l’accoglimento della domanda dell’attore principale
e la reiezione della domanda di garanzia proposta dal convenuto principale nei confronti del garante:
a) successivamente, il convenuto principale, doppiamente soccombente, impugna soltanto nei confronti
dell’attore; in questo caso, non segue la deduzione automatica in giudizio del rapporto di garanzia, ma
questa segue soltanto all’impugnazione del garantito (cioè è applicabile la disciplina dell’art. 332 c.p.c.);
b) se invece l’impugnazione viene proposta soltanto nei confronti del garante, una cosa è certa:
indipendentemente dall’applicazione della disciplina riservata alle cause tra loro dipendenti ovvero a quelle
scindibili, al garante deve essere consentita la facoltà di rimettere in discussione, in via di impugnazione
incidentale anche tardiva condizionata, il rapporto pregiudiziale per contestare in via subordinata quello
dipendente di garanzia (l’accertamento del rapporto pregiudiziale avverrà con efficacia anche nei confronti
dell’attore originario o solo in via incidentale alla stessa identica stregua di quanto si è affermato in i-2-2).
3. In una terza ipotesi può verificarsi che la domanda principale sia respinta e, di conseguenza, sia dichiarata
assorbita la domanda dipendente di garanzia; dubbio è, in questo caso, se, a seguito dell’impugnazione
dell’attore principale, il rapporto di garanzia segua automaticamente (in applicazione dell’art. 331 c.p.c.),
ovvero, come appare forse più corretto in un processo dominato dall’impulso di parte, soltanto in presenza
della riproposizione della domanda nei confronti del garante.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 61. Secondo schema di connessione per pregiudizialità/dipendenza
Il secondo schema riguarda le fattispecie nelle quali al rapporto di pregiudizialità/dipendenza che lega la
causa principale a quella dipendente si aggiunge l’elemento del legame diretto tra l’attore principale ed il
convenuto della causa dipendente, rapporto che, sua volta, è pregiudiziale rispetto al rapporto principale; i
soggetti possono essere, ad esempio, la triade creditore/fideiussore/debitore principale (in cui il rapporto tra
creditore e fideiussore è pregiudiziale a quello di rivalsa tra fideiussore e debitore, ma è a sua volta
pregiudicato da quello tra creditore e debitore principale).
1) Innanzitutto, può accadere che il creditore vinca nei confronti del fideiussore e questi vinca nella azione
di rivalsa nei confronti del debitore principale;
- se il fideiussore impugna nei confronti del creditore, bisogna ritenere che, per gli stessi motivi visti in i-1,
sia automaticamente devoluto in giudizio anche il rapporto pregiudicato tra debitore e fideiussore;
- se, invece, è il debitore ad impugnare contro il fideiussore, si ripresenta identica la problematica di
consentire o meno all’impugnato l’impugnazione incidentale tardiva contro soggetto diverso
dall’impugnante principale; cosa che dovrebbe essere assicurata indipendentemente dalla applicabilità della
disciplina dell’art. 331 c.p.c. o dell’art. 332 c.p.c.;
- infine, nell’ipotesi che il debitore principale impugni direttamente contro il creditore, cosa che è legittimato
a fare, stante il rapporto diretto che lega creditore e debitore principale, anche in questo caso si deve ritenere
che avvenga la devoluzione automatica dei rapporti dipendenti creditore/fideiussore e fideiussore/debitore ai
sensi dell’art. 331 c.p.c., così da evitare l’assurdo che, in caso di riforma della sentenza di primo grado, sia
accertata l’inesistenza del rapporto base di responsabilità, ma il fideiussore sia ugualmente obbligato verso il
creditore, o il debitore sia egualmente obbligato verso il fideiussore.
2) Può verificarsi, poi, la reiezione della domanda del creditore, con assorbimento della domanda di rivalsa
del fideiussore nei confronti del debitore principale; in questo caso, è dubbio se, a seguito dell’impugnativa
del soccombente, la deduzione del rapporto dipendente tra fideiussore e debitore esegua automaticamente o
su iniziativa del fideiussore.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 62. Terzo schema di connessione per pregiudizialità/dipendenza
Terza specie di connessione per pregiudizialità/di tendenza è quella in cui l’attore è fornito di azione verso
più legittimati passivi e di fatto propone domanda contro tutti (creditore sia contro il debitore principale che
contro il fideiussore, locatore contro conduttore e subconduttore, venditore contro acquirente e
subacquirente).
1. Come prima ipotesi, l’attore può risultare vincitore contro entrambi i convenuti:
- in questo caso, se, per rimanere nell’esempio della fideiussione, è il debitore principale ad impugnare, in
giudizio segue automaticamente il rapporto dipendente, non essendo logicamente possibile che il debitore
principale non sia obbligato, e lo sia, invece, il fideiussore;
- se è quest’ultimo ad impugnare, occorre distinguere:
- se il fideiussore afferma l’autonomia del suo rapporto rispetto al debitore principale, ad esempio negando
l’esistenza dell’accordo fideiussorio, ciò spezza il vincolo di dipendenza, inducendo ad applicare l’art. 332
c.p.c.;
- se, invece, il fideiussore contesta il contenuto dell’accertamento sul rapporto pregiudiziale, si ripropone il
problema relativo al se il giudice di impugnazione, in caso di mancata impugnazione del debitore principale,
dovrà conoscere il rapporto pregiudiziale in via incidentale o, invece, con efficacia anche fra le parti del
rapporto pregiudiziale.
2. Come seconda ipotesi, l’attore può risultare vittorioso nei confronti del debitore principale, ma
soccombente nei confronti del fideiussore:
- in questo caso, se l’attore impugna contro il fideiussore, è di certo possibile una impugnazione, in via
incidentale condizionata anche tardiva, di costui diretta a censurare la parte della sentenza che ha accertato
l’esistenza del rapporto pregiudiziale;
- ove l’impugnazione sia proposta dal debitore principale, l’impugnazione non potrà che essere proposta
contro l’attore originario unico legittimato passivo; questi, a sua volta, potrà, se vorrà, impugnare in via
incidentale, anche tardiva, la parte della sentenza che lo ha visto soccombente rispetto al fideiussore, ma,
ove non effettui tale impugnazione, il passaggio in giudicato della relativa sentenza sarà idoneo ad escludere
qualsiasi dipendenza (e quindi ad escludere l’applicabilità dell’art. 331 c.p.c.).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 63. Regime di impugnazione delle sentenze non definitive
Il nostro ordinamento discipline regime di impugnazione delle sentenze non definitive in due disposizioni:
gli artt. 340 e 361 c.p.c., per la differente eventualità che la sentenza non definitiva si è emanata in primo
grado o in appello.
L’art. 340 c.p.c. dispone che: “ contro le sentenze previste dagli artt. 278 e 279 c.p.c. (sentenze di condanna
generica e provvisionale e non definitivi in genere), l’appello può essere differito, qualora la parte
soccombente faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la
prima udienza davanti al giudice istruttore successiva alla notificazione della sentenza”.
Se ne deduce che la regola generale in tema di impugnazione di sentenze non definitive è la loro
impugnabilità immediata.
Decorsi i termini per appellare si determina il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva e si
verifica una preclusione da “giudicato interno” sulla questione da essa risolta.
Oltre a questo regime generale, il legislatore ne ha previsto anche uno eccezionale, secondo cui la parte
soccombente può fare riserva di impugnazione entro i termini per appellare e comunque non oltre la prima
udienza che si sia svolta davanti al giudice istruttore per la prosecuzione del processo.
Una volta effettuata tale riserva, è possibile impugnare la sentenza non definitiva unitariamente
all’impugnazione contro la sentenza che definisce il giudizio (o con quella che venga proposta contro altra
sentenza successiva che non definisce il giudizio).
Per individuare la parte legittimata ad impugnare la sentenza non definitiva, solo in ipotesi residuali si farà
ricorso al criterio di soccombenza pratica, mentre di solito (essendo queste sentenze pronunciate su
questioni) si dovrà ricorrere al concetto di soccombenza teorica, si farà, cioè, riferimento al modo in cui è
stata risolta la questione nella sentenza non definitiva.
Un altro dato rilevante che emerge riguarda una inevitabile rottura del principio di integrità oggettiva del
processo di impugnazione rispetto al processo impugnato.
Questo perché in seguito ad impugnazione immediata avremo la contemporanea pendenza di due processi
originati da quell’unica domanda giudiziale proposta all’inizio.
Queste conseguenze hanno causato non poche critiche al regime di impugnabilità immediata.
Il testo originario del codice del 1942 prevedeva che contro le sentenze non definitive era esperibile solo
l’impugnazione differita, purché in precedenza fosse stata effettuata la riserva di impugnazione.
Il regime introdotto dal legislatore del 1950, e tuttora vigente, pone gravi e delicati problemi di
coordinamento tra lo svolgimento del processo nel cui corso è emanata la sentenza non definitiva e lo
svolgimento del giudizio di impugnazione immediata della sentenza stessa.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 64. Effetti della proposizione dell’impugnazione immediata
Il primo problema è risolto a livello di diritto positivo dall’art. 2794 c.p.c., il quale, per evitare un uso
distorto dello strumento dell’appello immediato allo scopo di lucrare l’effetto secondario di sospensione del
giudizio di primo grado, prevede: “il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora ritenga che i
provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza impugnata, può
disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione o la prosecuzione dell’istruttoria sia sospesa sino
alla definizione del giudizio d’appello”.
Quanto agli effetti della sospensione è da dire:
- se il giudizio di appello si conclude con sentenza di conferma della sentenza non definitiva di primo grado,
il giudizio di primo grado sospeso deve riattivarsi nei modi indicati senza dover attendere il passaggio in
giudicato della sentenza d’appello di conferma;
- se invece il giudizio d’appello si conclude con la riforma della sentenza non definitiva di primo grado,
sorgono gravi e delicati problemi circa le sorti del giudizio di primo grado nel periodo intermedio tra la
pubblicazione della sentenza d’appello di riforma e il suo passaggio in giudicato.
In questa sede è solo da osservare che qualora la sentenza d’appello di riforma passi in giudicato non è
necessaria alcuna riattivazione di processo di primo grado, perché la sentenza d’appello di riforma è
decisione definitiva di rigetto della domanda.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 65. Effetti dell’accoglimento dell’impugnazione immediata
Nel 1950 allo scopo di disciplinare tali effetti, fu disposto, per un verso, che la sentenza d’appello di riforma
estendesse i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti della sentenza non definitiva di primo grado
riformata, per altro verso, che tale efficacia caucatoria si manifestasse solo dal momento del passaggio in
giudicato e non da quello della pubblicazione della sentenza d’appello di riforma.
La posticipazione al momento del passaggio in giudicato negli effetti caducatori della sentenza d’appello di
riforma era coerente con l’esigenza di evitare l’assurdo che, ove contro tale sentenza fosse proposto ricorso
per cassazione ed il ricorso fosse accolto, l’attore vittorioso in cassazione fosse costretto ad instaurare ex
novo il giudizio di primo grado.
Allo stesso tempo, consentendo la sospensione del giudizio di primo grado anche su istanza di parte, offriva
al convenuto vittorioso in appello sufficienti garanzie.
A seguito della novella del 1990, il problema si è notevolmente complicato, in quanto il legislatore ha
disposto che la sentenza appello di riforma estende i suoi effetti agli atti o provvedimenti dipendenti dalla
sentenza di primo grado riformata dal giorno della pubblicazione e non più da quello del passaggio in
giudicato della sentenza riformata.
La modifica è stata motivata non dalla volontà di incidere sulla disciplina dei problemi posti dalla
appellabilità immediata delle sentenze non definitive, bensì unicamente dalla volontà di incidere sulla
diverso problema degli effetti della sentenza d’appello di forma di sentenza provvisoriamente esecutiva di
primo grado, in ordine agli atti di esecuzione spontanea o coatta avvenuti sulla base di tale sentenza.
Ne segue, attraverso una non semplice interpretazione, che la soluzione oggi preferibile è quella di
continuare a ritenere che gli effetti della sentenza d’appello di riforma di sentenza di primo grado non
definitiva si producono sugli atti e provvedimenti dipendenti da tale sentenza solo a seguito del passaggio in
giudicato della sentenza riformata.
E fondare tale soluzione sull’art. 129 bis disp. att. c.p.c. che, prevedendo la possibilità di sospensione del
giudizio di primo grado a seguito di ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza d’appello di riforma
di sentenza di primo grado non definitiva, presuppone in modo inequivoco che la sentenza d’appello di
riforma non produce la immediata caducazione degli atti e dei provvedimenti dipendenti della sentenza di
primo grado, ma continua a richiedere che a tale effetto la sentenza di riforma sia passata in giudicato.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 66. Effetti dell’estinzione del giudizio nel corso del quale la sentenza
non definitiva è stata emanata
Centrale, riguardo a tale problema, è l’art. 310 c.p.c. secondo cui la sentenza non definitiva di merito
sopravvive all’estinzione del giudizio.
Occorre ora esaminare che cosa accada qualora, fatta riserva dalla parte teoricamente soccombente, si
verifichi l’estinzione del giudizio di primo grado.
Il legislatore ha disciplinato tale ipotesi nell’art. 129 disp. att. c.p.c.: “se il processo si estingue in primo
grado, la sentenza di merito contro la quale fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal
giorno in cui diventa irrevocabile l’ordinanza, o passa in giudicato la sentenza, che pronuncia l’estinzione
del processo”.
Il legislatore prende in considerazione le sole sentenze non definitive di merito, le uniche cioè aventi
attitudine ad acquistare un’efficacia che sopravviva all’estinzione del processo (ex art. 310 c.p.c.), le uniche
rispetto alle quali si pone un interesse ad impugnare e prevede che la sentenza diventi definitiva e da allora
inizino a decorrere i termini per impugnare.
Se la sentenza non definitiva è relativa ad una causa pregiudiziale, l’applicazione dell’art. 129 disp. att.
c.p.c. non pone problemi.
Se invece la sentenza non definitiva è relativa ad una mera questione ci si può chiedere cosa succeda qualora
sia proposto appello: si ha, infatti, una disciplina bizzarra per cui l’appello contro questa sentenza ha lo
stesso oggetto del giudizio di primo grado con una particolarità: che il giudice d’appello può conoscere della
inesistenza del diritto tramite l’esame di quella sola questione oggetto della sentenza non definitiva e che la
sentenza d’appello, se di riforma, ha piena idoneità ad acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale (di
rigetto della domanda), se di conferma, ha attitudine solo da acquistare efficacia “panprocessuale” o di
“preclusione esterna” sulla questione (valevole, quindi, solo nel secondo eventuale processo alle stesse parti
avente lo stesso oggetto).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 67. La funzione dell'appello
L’appello è il mezzo diretto ad assicurare in modo pieno la garanzia soggettiva dell’impugnazione e a
realizzare il cosiddetto principio del doppio grado di giurisdizione.
Il fondamento razionale dell’appello, fino all’800, è stato rinvenuto nel carattere gerarchico
dell’ordinamento giudiziario.
Con l’abolizione del carattere gerarchico questa base logica è entrata in crisi e è stato affermato non esservi
più nessun motivo per ritenere che la sentenza enunciata dal giudice d’appello sia una sentenza migliore di
quella del giudice di primo grado.
Tuttavia sembra da condividere il pensiero di chi ha individuato la ragione della prevalenza della sentenza
d’appello nella seguente circostanza: il secondo giudice ha minori probabilità di errare in virtù della
possibilità di utilizzare quello che fu “l’insegnamento del primo grado è valutarne i risultati”.
Da ciò si evince che nell’ambito del nostro sistema delle impugnazioni civili l’appello assolve la funzione di
garanzia soggettiva: la parte può provocare il controllo da parte di un altro giudice sulla sentenza.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 68. Le caratteristiche dell’appello
L’appello è un mezzo di impugnazione a motivi illimitati.
A differenza del ricorso per cassazione o della revocazione, nessuna disposizione del codice indica i motivi
dell’appello.
Attraverso l’appello perciò può essere denunciato qualsiasi tipo di errore commesso dal giudice di primo
grado; sia errores in procedendo, sia errores in iudicando.
L’appello è un mezzo di impugnazione riservato a chi è stato parte nel processo di primo grado.
Le parti, di comune accordo, possono ricorrere direttamente in Cassazione e saltare l’appello qualora
intendano denunciare solo errores in iudicando relativi alla erronea o falsa applicazione di norme di diritto
sostanziale, cioè in presenza di una controversia di puro diritto, in aderenza alla funzione istituzionale di
normofilachia della Corte.
Le altre ipotesi di inappellabilità sono direttamente previste dal legislatore.
Sono inappellabili le sentenza pronunciata dal giudice secondo equità; le sentenze emanate a seguito di
controversie individuali di lavoro di valore inferiore a cinquantamila lire; le sentenze pronunciate in materia
di opposizione agli atti esecutivi, di opposizione all’esecuzione, di terzo all’opposizione e in sede di
distribuzione; le sentenze del tribunale che si sono pronunciate unicamente sulla competenza e che sono
suscettibili unicamente di regolamento necessario di competenza proponibile davanti alla Corte di
Cassazione; ecc…
Le conseguenze di questa tendenza a qualificare come inappellabili le sentenze di primo grado emanate in
riferimento a materie considerate di giustizia minore sono estremamente gravi: la Corte di Cassazione
finisce, così, con l’essere sovraccaricata di ricorsi che la distolgono dalla sua funzione istituzionale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 69. L’oggetto del giudizio di appello
Le parti hanno discrezionalmente la possibilità di restringere e talvolta di ampliare l’oggetto del giudizio
d’appello, rispetto all’area di cognizione e decisione che fu propria del giudizio di primo grado.
L’oggetto del giudizio di appello si determina attraverso:
- l’appello principale;
- l’appello incidentale;
- la riproposizione di domande ed eccezioni non accolte in primo grado;
- la proposizione di nuove eccezioni, nuove prove, e le modificazioni della domanda di primo grado.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 70. L’appello principale, l’appello incidentale e la funzione dei
motivi specifici di impugnazione
L’appello principale si propone nei termini previsti dalla legge con atto di citazione; esso deve contenere:
“l’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici dell’impugnazione” (cioè delle censure rivolte alla
sentenza di primo grado).
L’appellante non si può limitare a richiedere in generico riesame della controversia; una prima delimitazione
dell’oggetto del giudizio di appello avviene pertanto tramite tali censure.
I motivi specifici di impugnazione individuano le parti della sentenza impugnata rispetto alle quali la parte
praticamente soccombente vuole provocare un riesame.
Per le restanti parti (o capi) non impugnati, si determina il passaggio in giudicato alla stregua del fenomeno
della cosiddetta acquiescenza tacita qualificata.
L’appellato, se è anch’esso praticamente soccombente, può proporre appello incidentale nella forma della
comparsa di risposta che deve essere “depositata in cancelleria almeno 20 giorni prima dell’udienza di
comparizione fissata nell’atto di citazione”.
L’appello incidentale deve contenere anch’esso i “motivi specifici dell’impugnazione”, i quali permettono
l’individuazione delle parti della sentenza impugnata e quindi delle parti del rapporto sostanziale
controverso sulle quali l’appellato invoca il riesame.
A questo punto è necessario un ulteriore approfondimento sul senso e sulla portata dei motivi specifici di
impugnazione.
Al riguardo emergono soprattutto due possibilità interpretative.
Secondo la prima, i motivi specifici di impugnazione sono anche il veicolo, tendenzialmente esclusivo, per
devolvere al giudice d’appello le questioni tramite il cui esame potere conoscere del rapporto sostanziale
controverso.
Secondo questa prima posizione, il compito dei motivi specifici di impugnazione non è solo l’individuazione
della parte di sentenza impugnata e tramite questa l’individuazione della parte del rapporto sostanziale
controverso in primo grado devoluta al giudice d’appello; le specifiche censure sono necessarie anche per
conoscere quali questioni di fatto o di diritto potranno essere riesaminate in appello.
La seconda interpretazione considera i motivi specifici di impugnazione solo come elementi individuatori
della parte di sentenza appellata e, per tale tramite, della parte del rapporto sostanziale controverso in primo
grado devoluta al giudice d’appello; entro tali limiti al giudice d’appello sarebbero però automaticamente
devolute anche tutte le questioni di fatto o di diritto sollevate, o comunque conoscibili in primo grado, che
costituiscano o possano costituire antecedente logico necessario ai fini della pronuncia sull’esistenza o
inesistenza della parte del rapporto sostanziale controverso devoluta al giudice d’appello.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 71. La riproposizione di domande e di eccezioni non accolte in
primo grado
L’art. 346 c.p.c. dispone che “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non
sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.
È necessario premettere il significato delle espressioni: “domande non accolte” e “eccezioni non accolte”.
Nel primo caso non si tratta di domande respinte sulle quali si è formata soccombenza pratica.
Dall’espressione domande non accolte, si devono espungere anche le domande su cui il giudice ha
illegittimamente omesso di pronunciare, perché in tal caso sussiste un vizio della sentenza che può essere
fatto valere con l’impugnazione vera e propria.
L’art. 346 c.p.c. menzionando le “domande non accolte” si riferisce ad un fenomeno tutto diverso che si
realizza quando il giudice di primo grado, legittimamente, ha omesso di pronunciarsi su una domanda
giudiziale.
Le domande di cui all’art. 346 c.p.c. sono le domande subordinate non accolte, perché assorbite.
Anche il secondo caso necessita di spiegazione; tale espressione ha un duplice significato:
- secondo il primo le eccezioni non accolte sono le eccezioni il cui esame è stato legittimamente omesso in
primo grado perché il giudice ha rigettato la domanda per difetto di un fatto costitutivo o per l’accoglimento
di una eccezione diversa da quella legittimamente non esaminata perché assorbita;
- il secondo significato è “eccezioni non accolte perché respinte”.
Il giudice di primo grado ha respinto l’eccezione tesa a far valere un fatto estintivo, modificativo o
impeditivo, o una questione di rito, ma ha dichiarato inesistente o il diritto fatto valere in giudizio per difetto
di un fatto costitutivo o per accoglimento di un’altra eccezione.
L’appellato praticamente vittoriosa interessato alla riproposizione di domande subordinate o di eccezioni
genericamente non accolte dovrà attivarsi, nel silenzio della legge, secondo modi e tempi che si ricavano
dalle strutture proprie del processo di primo grado:
- poiché ad attivarsi è la parte praticamente vittoriosa, la modalità di proposizione non sarà un atto di
impugnazione come l’appello principale o l’appello incidentale;
- in analogia con la disciplina del primo grado di giudizio, l’ultimo momento utile per riproporre le domande
(assorbite) è 20 giorni prima dell’udienza attraverso la comparsa di risposta;
- lo stesso è da dirsi in ordine alla riproposizione delle eccezioni in senso stretto assorbite;
- le eccezioni respinte, se in senso stretto, devono essere espressamente riproposte nella comparsa di
risposta; se rilevabili anche d’ufficio, probabilmente, in quanto già esaminate dal giudice di primo grado,
perdono la caratteristica della rilevabilità d’ufficio da parte del giudice d’appello, e per essere riesaminate
dovranno essere espressamente riproposte nella comparsa di risposta.
Quanto sinora detto trova piena applicazione solo a fronte di sentenze di primo grado dichiarative
dell’esistenza del diritto.
In ipotesi invece di sentenze di primo grado dichiarative dell’inesistenza del diritto, dato che tali sentenze
rinvengono il loro solo antecedente logico necessario nel singolo fatto modificativo, impeditivo, estintivo
concretamente accertato come esistente o nel singolo fatto costitutivo accertato come inesistente, in appello
si ha questa importante conseguenza: se la censura o le censure fatte valere con l’atto di appello si rivelano
fondate, si avrà la automatica devoluzione al giudice d’appello dei fatti costitutivi che erano stati posti
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte dall’attore in primo grado a fondamento del diritto fatto valere in giudizio.
Per i fatti modificativi, impeditivi, estintivi, invece, ciò non si verifica stante l’art. 346 c.p.c.(“le eccezioni
non accolte se non espressamente riproposte si intendono rinunciate”), salvo quanto già detto rispetto alle
eccezioni rilevabili d’ufficio.
Su questo stesso filo conduttore è infine da osservare che la sentenza di rigetto in rito, se appellata,
comporta, condizionatamente all’accoglimento della censura, l’automatica devoluzione dei fatti costitutivi
sollevati in primo grado.
Riassumendo, è pertanto da dire che l’oggetto in senso lato del giudizio di appello è suscettibile di
restrizione ad opera delle parti:
- per quanto concerne il rapporto sostanziale, in seguito all’impugnazione principale o incidentale e
all’operare dell’acquiescenza tacita qualificata;
- per quanto riguarda le questioni sollevate o comunque conoscibili in primo grado in virtù del carattere non
automatico dell’effetto devolutivo, salvo le precisazioni esposte da ultimo specie in ipotesi di appello
avverso una sentenza dichiarativa dell’inesistenza del diritto o di rigetto in rito.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte 72. La proposizione di nuove eccezioni, nuove prove e la
modificazione della domanda di primo grado (lo ius novorum)
Le parti come hanno il potere di limitare l’oggetto del giudizio d’appello rispetto a quello del giudizio di
primo grado, così possono, anche se entro limiti ristretti, ampliare il thema probandum ed il thema
decidendum del giudizio d’appello (è il cosiddetto ius novorum).
In aderenza al principio del doppio grado di giurisdizione “non possono proporsi domande nuove”, e, se
proposte, il giudice deve dichiarare “inammissibili” d’ufficio, cioè rigettarle per motivi di rito, lasciandone
impregiudicata la riproponibilità in un separato processo.
Per esigenze di economia dei giudizi “possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori
maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”; a
queste deroghe espressamente previste dal legislatore la prassi ne ha aggiunta un’altra: la proponibilità in
appello della domanda di restituzione di quanto corrisposto a seguito di esecuzione provvisoria della
sentenza di primo grado.
Lo ius novorum opera anche sul fronte delle eccezioni: “non possono proporsi eccezioni nuove che non
siano rilevabili anche d’ufficio”; il legislatore segue la stessa regola adottata per le eccezioni nel giudizio di
primo grado e quindi le eccezioni in senso stretto, che in primo grado sono precluse oltre il termine di cui
all’art. 167 c.p.c., sono improponibili anche in appello; invece le eccezioni in senso lato, possono essere
proposte dalle parti, anche per la prima volta in appello, fino al momento della precisazione delle
conclusioni.
In ordine alle nuove prove l’art. 3453 c.p.c. prevede: “non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il
collegio non ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non
avere potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi
giuramento decisorio.”
È opportuno esaminare separatamente le singole parti:
- innanzitutto l’art. 345 c.p.c. tace del tutto quanto alla produzione di documenti.
I dati desumibili dall’iter parlamentare e gli orientamenti giurisprudenziali prevalenti portano a concludere
l’analisi nel senso che nell’appello del nuovo rito ordinario i nuovi documenti devono ritenersi liberamente
producibili;
- la subordinazione dell’ammissibilità di nuovi mezzi di prova la dimostrazione di non averli potuti proporre
nel giudizio di primo grado per causa non imputabile, non è altro che l’applicazione al giudizio d’appello
della rimessione in termini;
- la libera deferibilità del giuramento decisorio non pone il problema alcuno stante la natura tutta particolare
di tale mezzo di prova;
- riguardo alle prove costituende il cuore dell’art. 345 c.p.c. finisce pertanto con essere il requisito
dell’indispensabilità cui è assoggettata la loro ammissibilità.
La dottrina sembra nella sostanza avere rinunciato alla possibilità di individuare un metro unitario alla cui
stregua ridurre la arbitrarietà e la discrezionalità insita nel criterio della indispensabilità.
L’esigenza che il processo sia strumento di giusta composizione delle controversie e quindi che le
preclusioni in materia probatoria non siano tali da impedire un tale risultato ove possibile, inducono ad
attribuire questo significato al requisito della indispensabilità: “un mezzo di prova è indispensabile allorché
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Lezioni di diritto processuale civile - seconda parte