Questi appunti riassumono il volume di Aldo Travi su "Lezioni di giustizia amministrativa".
Dopo un breve excursus storico (dal Regno di Sardegna alle riforme legislative) si analizzano i profili principali dell'attività amministrativa, la tutela nei confronti delle parti interessate e i caratteri salienti del processo amministrativo.
Giustizia amministrativa
di Stefano Civitelli
Questi appunti riassumono il volume di Aldo Travi su "Lezioni di giustizia
amministrativa".
Dopo un breve excursus storico (dal Regno di Sardegna alle riforme legislative)
si analizzano i profili principali dell'attività amministrativa, la tutela nei confronti
delle parti interessate e i caratteri salienti del processo amministrativo.
Università: Università degli Studi di Firenze
Facoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto Amministrativo II, a.a 2007/2008
Titolo del libro: Lezioni di giustizia amministrativa
Autore del libro: Aldo Travi1. Gli Istituti della giustizia amministrativa
Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti, non tutti di carattere
giurisdizionale, diretti specificamente ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti
dell’Amministrazione.
Questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito una lesione da un’attività
amministrativa: ancora oggi sono in genere strumenti di tutela “successiva”, che disciplinano la reazione del
cittadino nei confronti di un’azione già svolta dall’Amministrazione.
Una parte della dottrina, nel porre in evidenza gli elementi caratteristici della giustizia amministrativa,
frequentemente ha preso in esame il rapporto fra istituti di giustizia amministrativa e controlli sull’attività
amministrativa.
Anche i controlli sugli atti sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già conclusa.
Si incentrano, in genere, sulla verifica della legittimità dell’atto amministrativo; più raramente sulla verifica
della sua opportunità (c.d. controlli di merito).
La riforma del Titolo V della Costituzione ha soppresso il controllo regionale sugli atti degli enti territoriali
e il controllo statale sugli atti delle Regioni.
In altri ambiti invece i controlli sono rimasti: così è per quelli esercitati dalla Corte dei conti su alcuni atti
dell’Amministrazione statale.
Anche i controlli possono portare all’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo.
Un criterio distintivo fra i controlli e gli istituti tipici della giustizia amministrativa sarebbe identificabile nel
fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia l’interesse alla conformità dell’operato
dell’Amministrazione al diritto),mentre gli istituti di giustizia amministrativa assicurerebbero in modo
specifico l’interesse del cittadino.
Va tenuto presente che gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la tutela
“giurisdizionale”: di conseguenza la distinzione fra i controlli e gli istituti di giustizia amministrativa non
può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale.
Fra gli strumenti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la
contestazione del cittadino è proposta a un organo amministrativo e la decisione è assunta con un atti
amministrativo, senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale.
Ma non si ha l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo: il potere di annullamento è
esercitato in seguito all’iniziativa di un cittadino che fa valere un suo proprio interesse.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 2. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa
Nel nostro ordinamento e nei Paesi dell’Europa continentale gli istituti di giustizia amministrativa si
caratterizzano per la loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino.
Anche gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti dall’evoluzione nei rapporti fra
cittadino, Amministrazione e autorità giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati più
puntualmente condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi.
Uno dei modelli più significativi è senz’altro quello francese.
In Francia è radicato un sistema di contenzioso amministrativo nel quale le controversie fra il cittadino e
l’Amministrazione sono sottratte al giudice ordinario e sono devolute a un giudice speciale.
Si tratta di un giudice con uno stato giuridico ben diverso da quello dei magistrati ordinari: infatti è
inquadrato nel Potere esecutivo e non gode di tutte le garanzie previste per il magistrato ordinario.
La sua giurisdizione è pienamente separata da quella ordinaria, con la conseguenza che non si può ricorrere
al giudice ordinario contro la decisione del giudice speciale, né viceversa.
In Italia si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo modellato su quello francese a un sistema
di giurisdizione unica (1865), e poi a un sistema articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e in una
giurisdizione del giudice amministrativo (1889); negli ultimi anni si è manifestata la spinta a una maggiore
omogeneità fra giudici ordinari e giudici amministrativi.
In estrema sintesi, due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di giustizia
amministrativa: le ragioni di specificità dell’Amministrazione nell’ordinamento giuridico e l’esigenza di una
tutela effettiva del cittadino anche nei confronti dell’Amministrazione-autorità.
Se il primo motivo indirizza particolarmente verso strumenti di tutela diversi da quelli ordinari o, talvolta,
addirittura verso forme di tutela diverse da quelle giurisdizionali, il secondo motivo ha indotto
frequentemente a considerare come modello la giustizia “comune”, nella quale alla parità di posizioni delle
parti corrisponde l’elaborazione delle tecniche più raffinate per la tutela del singolo.
Si tenga presente che è problematica anche l’individuazione dei profili di specificità dell’Amministrazione e
della sua attività che giustifichino l’esclusione della giurisdizione ordinaria.
In alcuni ordinamenti la specificità è identificata nell’assoggettamento dell’attività amministrativa al diritto
pubblico, anziché al diritto privato.
In altri ordinamenti ancora, il criterio della specialità della disciplina non è ritenuto sufficiente e la ricerca
della specificità si incentra nell’analisi delle relazioni fra Amministrazione e cittadino.
La specificità si desumerebbe, così, dalla rilevanza assegnata all’interesse pubblico oppure dalla
configurazione dell’Amministrazione come “autorità”, ossia come soggetto titolare di un potere capace di
incidere unilateralmente su posizioni di terzi.
In alcuni casi, infine, l’Amministrazione opera come soggetto equiordinato agli altri, rispetto al quale
valgono le medesime regole che valgono per i rapporti fra privati.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 3. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema
francese
La concezione dell’Amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si affermò, nelle prime
fasi dello Stato liberale, nel contesto del principio della separazione dei poteri.
Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII secolo e degli anni della Rivoluzione con questo principio si
intendeva che il Potere esecutivo, nel quale si colloca l’Amministrazione, dovesse essere un potere distinto
dagli altri, anche se non superiore agli altri: l’Esecutivo non poteva arrogarsi poteri del giudice ordinario, ma
i suoi atti non dovevano essere soggetti al sindacato dei giudici.
L’amministrazione è un potere autonomo e, quindi, non deve essere limitato dal potere giurisdizionale,
altrimenti il giudice, giudicando l’Amministrazione, avrebbe finito con l’interferire sull’attività
amministrativa.
Tutto ciò non comportava, però, l’esclusione di possibilità di tutela per il cittadino.
Nella Rivoluzione francese di affermò il principio della “responsabilità” dell’Amministrazione nei confronti
dell’assemblea legislativa: il Ministro poteva essere chiamato a rendere conto dell’operato
dell’Amministrazione e ne rispondeva politicamente di fronte ai rappresentanti dei cittadini.
Ma a favore del cittadino era conservato un rimedio specifico, costituito dal c.d. ricorso gerarchico.
Questo ricorso era diretto all’organo gerarchicamente sovraordinato a quello che aveva emanato l’atto lesivo
e comportava la verifica della legalità dell’atto impugnato.
Per rendere più attento e serio l’esame del ricorso gerarchico, l’ordinamento francese prevedeva
frequentemente che i ricorsi venissero decisi dalle autorità competenti dopo aver acquisito il parere di alcuni
organi consultivi.
Fra questi organi il più importante fu senz’altro il Consiglio di Stato.
Tale organo, istituito nel 1799, operava come organo consultivo del Governo e riguardo ai ricorsi esprimeva
solo un parere al Capo dello Stato: in pratica, però, la decisione era sempre conforme al parere e l’intervento
del Capo dello Stato finiva con l’attribuire ancora maggiore autorevolezza al parere dell’organo che lo
proponeva.
Un decreto di Napoleone del 1806 istituì, in seno al Consiglio di Stato, una apposita Commissione del
contenzioso.
Per rafforzarne l’imparzialità, la Commissione fu costituita da consiglieri cui non potevano essere affidati
compiti di amministrazione attiva.
Prima, transitoriamente, con la Costituzione del 1848, e poi, definitivamente, con una legge del 1872, al
Consiglio di Stato fu riconosciuta anche formalmente la competenza a decidere il ricorso, senza più la
necessità di una sanzione da parte del Capo dello Stato.
La riforma del 1872 avrebbe, così, attribuito al Consiglio di Stato i caratteri di organo giurisdizionale.
Ciò non significava, però, una deroga o un’attenuazione rispetto al principio della separazione dei poteri.
Il principio era fatto salvo, perché competente a sindacare gli atti dell’Amministrazione era il Consiglio di
Stato, autorità ben distinta dai giudici ordinari e, soprattutto, non inserita nell’ordine giudiziario.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 4. Sistemi di tutela giurisdizionale del cittadino: modelli monistici e
modelli dualistici
È stata proposta la distinzione fra modelli monistici e modelli dualistici, per classificare i diversi sistemi di
tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dell’Amministrazione.
Nei modelli monistici la tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione
viene attribuita in via esclusiva o in via prevalente a un solo giudice: questo giudice in alcuni Paesi è il
giudice ordinario, in altri è il giudice speciale.
Nei modelli dualistici, invece, la giurisdizione nei confronti della Pubblica Amministrazione è assegnata al
giudice ordinario e al giudice speciale su un piano di parità, ossia senza la prevalenza dell’uno o dell’altro: a
questo modelli sarebbe riferibile oggi il sistema italiano, caratterizzato dalla distribuzione delle competenze
fra giudice ordinario (civile) e giudice speciale (Tar e Consiglio di Stato) in funzione delle posizioni
soggettive coinvolte (rispettivamente, diritto soggettivi o interessi legittimi).
Questa classificazione,però, non ha valore assoluto.
I modelli monistici che si ispirano al contenzioso amministrativo francese non contemplano l’esclusione di
ogni competenza del giudice ordinario per controversie fra il cittadino e l’Amministrazione: determinate
controversie con l’Amministrazione sono demandate al giudice ordinario, o perché relative a rapporti in cui
l’Amministrazione compare come soggetto di diritto comune, o perché riguardanti posizioni di libertà o
particolari diritti del cittadino.
I modelli dualistici finiscono così con l’essere circoscritti al sistema italiano, in cui a fondamento del riparto
tra le due giurisdizioni vi è la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi.
Si tenga presente, però, che neppure il modello italiano segue in modo pieno questa classificazione, perché
in alcuni ambiti, oggi più estesi che in passato, la competenza del giudice amministrativo non dipende dalla
configurabilità di una posizione soggettiva come interesse legittimo, ma dipende dalla inerenza della
controversia a una certa materia (c.d. giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
Per questi ambiti non vale la logica del modello dualista, ma vale piuttosto la logica del modello monista.
Inoltre, nei casi in cui si controverta se la giurisdizione sulla controversia spetti al giudice ordinario o al
giudice speciale, dal 1877 è demandato alla Cassazione decidere il conflitto o la questione di giurisdizione.
Pertanto, nel nostro ordinamento, spetta a un giudice ordinario interpretare a definire i limiti della
giurisdizione del giudice speciale.
Appare significativa la soluzione attuata negli ultimi decenni in Spagna.
In questo Paese l’influenza del modello francese del contenzioso amministrativo non ha impedito
l’affermazione di una giustizia amministrativa affidata principalmente a giudici con una competenza a
un’organizzazione particolari, ma appartenenti all’ordine giudiziario e soggetti allo stesso stato giuridico e al
medesimo organo di autogoverno che valgono anche per i giudici dei tribunali civili e penali.
Si tratta, pertanto, non di un giudice “speciale”, ma piuttosto di un giudice “specializzato”: al vertice degli
organi di giustizia amministrativa è collocata una sezione del Tribunale Supremo, organo corrispondente
alla nostra Corte di Cassazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 5. La giustizia amministrativa nel regno di Sardegna
L’ordinamento italiano unitario seguì svolgimenti determinati dai caratteri a dai problemi propri
dell’ordinamento del Regno di Sardegna.
Il modello del contenzioso amministrativo francese fu accolto anche in Italia nell’epoca napoleonica e fu
soppresso quasi ovunque in Italia con la Restaurazione, ma non cessò per questo di rappresentare un
modello significativo.
Nel Regno di Sardegna con editto del 1831, Carlo Alberto costituì un Consiglio di Stato, con funzioni
consultive, articolato in tre sezioni: sezione dell’Interno, sezione di Giustizia, Grazia e affari ecclesiastici,
sezione di Finanza.
Al Consiglio di Stato l’editto assegnava alcune particolari competenze contenziose.
Con le regie patenti del 1842, modificate con un regio editto nel 1847, fu istituito un vero e proprio sistema
di contenzioso amministrativo.
Il sistema di fondava sulla distinzione fra controversie riservate all’Amministrazione (e per le quali era
esclusa qualsiasi tutela avanti a un giudice ordinario o speciale, ed era ammesso solo un ricorso a un’autorità
amministrativa: l’Intendente) e controversie di “amministrazione contenziosa” (per le quali era prevista la
possibilità di un ricorso in primo grado a un Consiglio di intendenza, in secondo grado alla Camera dei
conti).
Alcune controversie erano comunque riservate alla giurisdizione del giudice ordinario (“giurisdizione
giudiziaria”) e fra esse un significato particolare rivestivano le questioni inerenti al diritto di proprietà.
Il ruolo di questi giudici speciali fu però oggetto di vivaci polemiche, soprattutto dopo che lo Statuto
Albertino enunciò come regola la riserva della funzione giurisdizionale al giudice ordinario.
Ciò nonostante, una serie di decreti reali del 1859 accolsero e confermarono il sistema del contenzioso
amministrativo, articolato ora in Consigli di Governo, organi di primo grado, e Consiglio di Stato, organo
principalmente di secondo grado.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 6. Il modello del contenzioso amministrativo nel regno di Sardegna
Alla stregua di questi decreti si delineava il seguente quadro:
a. non ogni attività amministrativa era soggetta a un sindacato giurisdizionale.
In particolare, era esclusa da qualsiasi tipo di sindacato la c.d. amministrazione economica, espressione
allora utilizzata principalmente per designare l’attività amministrativa non puntualmente disciplinata da
norme di legge o di regolamento, o rimessa a valutazioni dell’Amministrazione.
In questi casi, dato che il cittadino non poteva invocare una norma che lo tutelasse, non vi era neppure
spazio per una tutela giurisdizionale: la tutela del cittadino poteva svolgersi solo nell’ambito
dell’Amministrazione stessa, in particolare per mezzo di ricorsi gerarchici;
b. in alcune materie elencate dalla legge, la tutela dei cittadini era demandata ai “giudici ordinari del
contenzioso amministrativo”, ossia al sistema articolato nei Consigli di Governo e nel Consiglio di Stato;
c. in altre materie individuate specificamente da leggi speciali, la tutela dei cittadini era demandata a
“giudici speciali del contenzioso amministrativo” (controversie in materia di contabilità pubblica, alla Corte
dei conti; controversie in materia di pensioni, al Consiglio di Stato).
Il Consiglio di Stato, quindi, era giudice speciale del contenzioso amministrativo, in unico grado, in materia
di pensioni, e giudice ordinario del contenzioso amministrativo, in grado di appello;
d. negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici civili.
Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, che si presentavano quando due
autorità di ordini diversi rivendicavano la medesima competenza (c.d. conflitti positivi), oppure quando
escludevano entrambe la propria competenza (c.d. conflitti negativi).
La disciplina per la loro risoluzione fu introdotta con una legge del 1859: la decisione dei conflitti era
assunta con decreto reale, previo parere del Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’Interno, sentito
il Consiglio dei Ministri.
Il sistema sanciva pertanto una prevalenza dell’autorità amministrativa su quella giurisdizionale.
Ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di annullamento rispetto agli
atti amministrativi dedotti in giudizio: era diffusa la convinzione che l’annullamento costituisse un atto
riservato all’Amministrazione, ma soprattutto non deve sfuggire che il giudizio non aveva un carattere
specificamente impugnatorio e verteva su rapporti in atto fra l’Amministrazione e i cittadini.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 7. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo
A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati particolarmente tre ordini di
considerazioni:
a. la tutela dell’interesse pubblico: era considerato essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico non
fosse ostacolata da un intervento del giudice; attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava
che questa esigenza fosse meglio garantita;
b. l’esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari: la mancanza di
queste garanzie era ritenuta da alcuni un fattore positivo, perché avrebbe consentito di far valere in modo più
efficace la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo;
c. la specialità del diritto dell’Amministrazione: le controversie demandate ai giudici del contenzioso
amministrativo riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune.
Questi argomenti erano vivamente criticati dagli oppositori dei modelli di contenzioso amministrativo.
Essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie fra l’Amministrazione e il cittadino fossero assegnate
al giudice ordinario.
Solo un giudice estraneo all’Amministrazione e dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari
avrebbe potuto assicurare l’imparzialità necessaria per una decisione.
Il giudice ordinario era il giudice della libertà dei cittadini; in ogni giurisdizione speciale sembrava annidarsi
invece il privilegio per l’Amministrazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 8. La legge 20 marzo 1865 n. 2248: abolizione dei giudici ordinari
del contenzioso amministrativo
Alcuni degli argomenti che ricorrevano nel dibattito sul sistema del contenzioso amministrativo conservano
una loro attualità.
Da un lato si afferma l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza specifica in un settore del
diritto diverso da quello comune; dall’altro si teme che l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un
regime processuale privilegiato per l’Amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato liberale.
Le discussioni condissero all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso
amministrativo: la l. 2248/1865 (il cui allegato E è conosciuto come legge di abolizione del contenzioso
amministrativo).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 9. L’allegato D della legge 20 marzo 1865: l’assetto del Consiglio di
Stato
L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato.
Non erano previste particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi
componenti, né per quanto riguardava la loro inamovibilità.
La continuità con l’Amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle sedute
direttamente o attraverso delegati.
Fu confermata l’articolazione nelle tre sezioni precedenti (interno, grazia e giustizia e culti, finanze).
Al Consiglio di Stato erano assegnate tipicamente competenze consultive.
Nella normativa sul Consiglio di Stato si faceva riferimento al ricorso al Re, designato spesso come “ricorso
straordinario” perché poteva essere proposto solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi
gerarchici.
Non rappresentava, però, uno strumento di tutela giurisdizionale e non comportava l’esercizio da parte del
Sovrano di poteri tipici dei giudici speciali, ma si collocava nell’ambito dei rimedi amministrativi.
In alcune ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava, inoltre, funzioni giurisdizionali, come giudice
speciale, per controversie in materia di debito pubblico e di sequestri di beni ecclesiastici, oltre ad altre
previste da leggi speciali.
In questi casi il procedimento aveva carattere tipicamente contenzioso e la decisione poteva comportare
l’annullamento dell’atto amministrativo.
Oltre a tali competenze minori, al Consiglio di Stato come giudice speciale fu conferita una competenza di
particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione dei conflitti fra Amministrazione e autorità giurisdizionale.
Precedentemente, invece, la competenza del Ministro dell’Interno implicava la mancanza di qualsiasi
garanzia giurisdizionale;
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 10. L’allegato E della legge 20 marzo 1865: l'abolizione del
contenzioso amministrativo
L’allegato E viene frequentemente designato come “legge di abolizione del contenzioso amministrativo”,
perché disponeva la soppressione dei c.d. giudici ordinari del contenzioso amministrativo.
Nell’allegato E fu delineato, in estrema sintesi, il seguente assetto della giustizia amministrativa:
a. “tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e
politico” furono assegnate al giudice ordinario (art. 2).
La legge precisava espressamente che la competenza del giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il
fatto che parte in giudizio fosse un’Amministrazione o che fossero coinvolti suoi interessi: nel disegno del
legislatore alla soppressione dei Tribunali del contenzioso amministrativo doveva perciò corrispondere
un’estensione dell’ambito della giurisdizione ordinaria.
b. “gli affari non compresi” nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amministrative (art. 3).
In quest’ambito riservato all’Amministrazione erano introdotte, però, alcune garanzie per i cittadini, segno
che il legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione in un ambito escluso dalla tutela
giurisdizionale.
In primo luogo, infatti, era previsto che le autorità amministrative avrebbero provveduto con “decreti
motivati”, con l’osservanza del contraddittorio con “le parti interessate” e previa acquisizione del parere
degli organi consultivi; tale norma rimase, comunque, senza attuazione pratica.
In secondo luogo nei confronti dei decreti assunti dall’Amministrazione, fu consentito il ricorso in via
gerarchica: a questo ricorso amministrativo fu subito riconosciuta un’operatività molto ampia.
Le disposizioni appena richiamate definivano così, in via generale, il quadro dei c.d. limiti “esterni” della
giurisdizione civile nei confronti dell’Amministrazione, ossia l’ambito delle controversie demandate alla
competenza del giudice ordinario (i limiti “esterni” di una giurisdizione si contrappongono ai limiti
“interni”, cui si farà cenno più avanti, che, con riferimento alle vertenze in cui sia coinvolta
un’Amministrazione, identificano i poteri che il giudice può esercitare verso l’Amministrazione nella
decisione delle controversie di propria competenza).
Fondamentale era la considerazione secondo cui l’espressione “diritto civili e politici” non poteva ritenersi
omnicomprensiva.
Anche se solo successivamente essa fu equiparata alla nozione dei “diritti soggettivi”, era percepito in modo
chiaro che vi erano anche posizioni soggettive di altro genere (chiamate talvolta come “diritti minori” o
“interessi”) che risultavano non protette dalla giurisdizione ordinaria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 11. La tutela dei cittadini nei confronti dell’amministrazione
(allegato D della l. 2248/1865)
La tutela del cittadino nei confronti dell’Amministrazione pertanto risultava così articolata: nelle “materie
nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico” era ammessa la tutela giurisdizionale, davanti al
giudice ordinario; nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito dell’Amministrazione
stessa ed era ammesso per ciò solo il ricorso gerarchico.
In ogni caso, sulla base dell’allegato D, la “legittimità di provvedimenti amministrativi” poteva essere
contestata dai cittadini con il ricorso al Re (ricorso straordinario);
c. nelle controversie di competenza del giudice ordinario, le ragioni della specialità dell’Amministrazione
non scomparivano del tutto, ma trovavano un riscontro nei limiti “interni” della giurisdizione civile (art. 4).
L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri era ricercato in primo luogo
ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo, e non sulla sua
opportunità o convenienza.
Inoltre era riconosciuta al giudice ordinario la competenza a sindacare la legittimità dell’atto amministrativo,
ma non ad annullarlo, revocarlo o modificarlo: un intervento del genere era riservato all’Amministrazione.
Infine, la valutazione del giudice ordinario circa la legittimità di un atto amministrativo poteva rilevare solo
ai fini del giudizio in corso e non poteva produrre effetti generali.
Sempre con riferimento ai limiti interni della giurisdizione ordinaria, la legge introduceva il controverso
istituto della “disapplicazione dell’atto amministrativo” da parte del giudice ordinario;
d. si tenga presente, infine, che l’Amministrazione non era sottratta agli effetti della sentenza: essa era
tenuta a “conformarsi” al provvedimento del giudice (c.d. giudicato), ovviamente nei limiti del caso deciso
(art. 42).
Questa prescrizione fondamentale di ottemperanza al giudicato individuava un criterio del rapporto
istituzionale fra potere amministrativo e potere giurisdizionale, sancendo, sostanzialmente, la prevalenza del
secondo rispetto al primo.
Si trattava, però, non di una prevalenza fra organi, ma solo di una prevalenza fra atti.
Con la disposizione in esame il legislatore aveva voluto garantire meglio la legalità dell’Amministrazione;
tuttavia, non introdusse nessuno strumento per rendere effettivo e coercibile l’obbligo dell’Amministrazione
di conformarsi al giudicato.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 12. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865
Probabilmente la riforma intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei confronti
dell’Amministrazione imperniato sul modello precedente del contenzioso amministrativo, a un altro sistema,
imperniato sul giudice ordinario.
Il sistema delineato nell’allegato E della l. 2248/1865 avrebbe potuto assicurare una efficace tutela del
cittadino nei confronti dell’Amministrazione.
Sarebbe stato necessario, però, attuare in modo adeguato la disposizione sulla tutela del cittadino nel
procedimento amministrativo e attraverso i ricorsi gerarchici.
Tale istituto risultò screditato dalla tendenza dell’Amministrazione a non assumere decisioni imparziali e a
lasciarsi condizionare dai suoi particolari interessi.
Inoltre sarebbe stata necessaria un’interpretazione della legge in grado di assicurare al giudice ordinario tutti
gli spazi di tutela che precedentemente erano stati riconosciuti ai tribunali del contenzioso amministrativo.
Dopo l’entrata in vigore della l. 2248/1865, l’autorità governativa sollevò con grande frequenza dei conflitti,
circa 500 nel solo periodo tra il 1865 e il 1867.
Il Consiglio di Stato, nelle sue decisioni sui conflitti, propose una lettura molto restrittiva dei limiti esterni
della giurisdizione del giudice ordinario: invece dell’eguaglianza dei cittadini e dell’Amministrazione
davanti alla legge si finiva col realizzare un sistema che limitava considerevolmente gli spazi per la tutela
giurisdizionale del cittadino.
Il Consiglio di Stato escludeva la competenza del giudice ordinario quando in questione fosse un
provvedimento emesso a tutela di un interesso pubblico generale, perché all’Amministrazione doveva
ritenersi riservata ogni valutazione in merito; oppure, in presenza di una azione civile per il risarcimento dei
danni, quando il pregiudizio fosse stato provocato da un atto amministrativo discrezionale, perché sulle
valutazioni discrezionali dell’Amministrazione non si doveva ammettere un’interferenza da parte del giudice
civile; ecc…
In conclusione, si notava nelle decisioni del Consiglio di Stato la tendenza ad escludere la competenza del
giudice civile quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa, e ciò anche
quando questi provvedimenti non fossero fondati su valutazioni discrezionali.
La competenza del giudice civile veniva ammessa esclusivamente in presenza di atti dell’Amministrazione
manati non a tutela di un interesse pubblico generale, ma a tutela di un interesse “personale” o patrimoniale
dell’Amministrazione stessa.
Soprattutto, appariva evidente che la soppressione dei Tribunali del contenzioso amministrativo aveva
ridotto lo spazio di tutela giurisdizionale per il cittadino e non aveva per nulla comportato l’estensione della
giurisdizione civile a tutti gli ambiti precedentemente occupati dai giudici soppressi.
L’indirizzo accolto dal Consiglio di Stato appariva in evidente contrasto con la l. 2248/1865, secondo cui
invece la competenza del giudice ordinario non doveva essere limitata né per il fatto che una parte in causa
fosse l’Amministrazione, né tanto meno per il fatto che si discutesse di un atto amministrativo.
L’insuccesso della riforma era perciò addebitato principalmente al Consiglio di Stato che, quale giudice dei
conflitti, conosceva delle controversie insorte tra il cittadino e l’Amministrazione e decideva se vi era, o
meno, lo spazio per una tutela giurisdizionale.
Sembrava perciò necessario che anche i conflitti venissero decisi da un organo indipendente e “super
partes”: solo il giudice ordinario, però, dava queste garanzie.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 13. La legge 3761 sui conflitti del 1877
Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento legislativo sulla materia dei conflitti, con la
l. 3761/1877.
La legge attribuì alla Corte di Cassazione di Roma la decisione sui conflitti, sia positivi che negativi.
Alla Cassazione di Roma fu attribuito, inoltre, il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei
giudici speciali, impugnate per “incompetenza ed eccesso di potere”.
In tutti questi casi la Cassazione di Roma doveva decidere a sezioni unite.
La l. 3761/1877 non produsse l’effetto auspicato da una parte della dottrina: la Cassazione proseguì
nell’indirizzo già prospettato dal Consiglio di Stato, confermandone l’interpretazione sui limiti esterni della
giurisdizione ordinaria.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 14. L’istituzione della Quarta Sezione nel diritto amministrativo
italiano
I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino nei confronti
dell’Amministrazione era tutt’altro che assicurata e l’abolizione del sistema del contenzioso amministrativo
aveva comportato non un perfezionamento, ma un indebolimento delle garanzie offerte al cittadino.
L’esigenza di una revisione presentava due profili fondamentali, fra loro connessi:
a. l’attuazione di una tutela più ampia ed incisiva del cittadino nei confronti dell’Amministrazione;
b. l’individuazione dell’organo cui affidare tale tutela.
Si doveva considerare un fatto compiuto e non più reversibile la giurisprudenza sui conflitti affermatasi col
Consiglio di Stato prima del 1877 e proseguita dalle sezioni unite della Cassazione di Roma dopo il 1877.
Tale giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità fra il diritto soggettivo e il provvedimento
amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti
dell’Amministrazione solo quando essa agiva come soggetto privato; là invece dove interveniva un
provvedimento amministrativo di regola vi erano solo interessi.
Di conseguenza di delineava una contrapposizione fra i diritti, che in quanto tali erano passibili di una tutela
giurisdizionale in forza della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, e gli interessi diversi dai
diritti soggettivi, che erano privi di tutela giurisdizionale.
Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi.
A tale esigenza diede riscontro la l. 5992/1889: gli “interessi” dei cittadini lesi da atti della Pubblica
Amministrazione dovevano essere tutelati con strumenti più efficaci dei ricorsi gerarchici; la garanzia di tali
interessi era perciò demandata a una autorità specifica, con un prestigio paragonabile a quello del giudice
civile, ma dotata di un potere di annullamento e perciò non inquadrata nell’ordine giurisdizionale.
In base alla l. 5992/1889, infatti, la tutela degli “interessi” fu demandata al Consiglio di Stato, con la
precisazione, però, che questa funzione contenziosa era assegnata a una nuova sezione: la Quarta sezione del
Consiglio di Stato.
Ad essa dovevano presentare i loro ricorsi i cittadini che ritenevano di essere stati lesi nei loro “interessi” da
atti dell’Amministrazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 15. La Quarta Sezione: tutela contro il provvedimento
amministrativo
Alla Quarta sezione era demandata la tutela degli interessi, designati genericamente come “interessi
d’individui o di enti morali giuridici”.
La loro distinzione rispetto ai diritti si desumeva dal fatto che la competenza della Quarta sezione non
poteva interferire con quella del giudice ordinario.
La tutela di questi “interessi” si realizzava con “ricorsi contro atti o provvedimenti di un’Autorità
amministrativa”: la tutela del cittadino si configurava, nella l. 5992/1889, come tutela contro il
provvedimento amministrativo.
I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del provvedimento e producevano, come utilità
per il ricorrente, l’annullamento del provvedimento amministrativo impugnato.
La tutela era ammessa solo nei confronti di un atto che fosse già produttivo dei suoi effetti; era perciò una
tutela successiva e non preventiva.
Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi
tassativamente indicati dalla legge: “incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge”:
a. “incompetenza” fu inteso come un vizio degli elementi soggettivi dell’atto amministrativo, che riguardava
principalmente l’insussistenza di una competenza a provvedere in capo all’organo che aveva emanato l’atto
impugnato;
b. “eccesso di potere” non fu inteso dalla Quarta sezione come “straripamento di potere”, ma come un uso
gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione; l’illegittimità dell’atto
consisteva nel contrasto con alcuni principi generali, ritenuti vincolanti per l’Amministrazione (come il
dovere di imparzialità, il principio di ragionevolezza, ecc…);
c. “violazione di legge” fu inteso come il vizio specifico rappresentato dal contrasto fra un elemento del
provvedimento o del suo procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in altra fonte del diritto.
Nei confronti dell’Amministrazione economica, la tutela davanti alla Quarta sezione risultò limitata agli
ambiti corrispondenti alla nozione di eccesso di potere; per gli altri ambiti, che furono poi spesso designati
come merito dell’atto amministrativo, il sindacato sulla discrezionalità rimaneva riservato all’autorità
amministrativa e ai ricorsi gerarchici.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 16. Limiti ed esclusioni della tutela della Quarta sezione
Sulla base di una lettura maturata successivamente, la tutela del cittadino nei confronti della Pubblica
Amministrazione, nel quadro della riforma del 1889, fu ricondotta a uno schema imperniato su una
distinzione tra figure soggettive.
La tutela nell’ambito dei diritti soggettivi era demandata al giudice ordinario e rispetto ad essa non si
riscontravano modificazioni di rilievo nella legge istitutiva della Quarta sezione; ai diritti soggettivi si
contrapponevano però gli “interessi” propri dei cittadini (poi designati come “interessi legittimi”), la cui
tutela sarebbe stata demandata alla Quarta sezione; infine permaneva un ambito dell’attività amministrativa
riservata all’Amministrazione.
La l. 5992/1889 introduceva un rapporto preciso fra il ricorso alla Quarta sezione e il ricorso gerarchico,
perché il ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo contro un provvedimento “definitivo”, ossia contro
un provvedimento per il quale fossero stati esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica.
Se tenga presente che, per quanto riguardava invece il ricorso straordinario al Re, la legge del 1889
introduceva la regola della sua alternatività con il ricorso alla Quarta sezione.
Ad ogni modo, dalla tutela imperniata sulla Quarta sezione erano esclusi gli atti “emanati dal Governo
nell’esercizio del potere politico”.
Questa categoria, dei c.d. atti politici, non aveva confini chiari: il senso della norma era comunque di
sottrarre al sindacato di autorità esterne determinati atti che eppure non avevano carattere legislativo.
Si trattava di atti riconducibili a funzioni superiori di governo.
La competenza della Quarta sezione si incentrava nel sindacato di legittimità sull’atto amministrativo.
In taluni casi particolari, però, la legge del 1889 attribuiva alla Quarta sezione un sindacato “anche in
merito”, con caratteristiche non ben definite.
In questi casi, la Quarta sezione, nel caso di accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad
annullare l’atto impugnato, ma avrebbe potuto assumere una decisione sulla pratica in sostituzione di quella
rappresentata dal provvedimento annullato.
Fra le ipotesi di sindacato “anche in merito” la legge prevedeva quello dei “ricorsi diretti ad ottenere
l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali che abbia
riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico” (c.d. giudizio di ottemperanza).
In questo modo, attraverso l’intervento della Quarta sezione, veniva reso effettivo e giustiziabile l’obbligo
dell’Amministrazione di ottemperare al giudicato dei giudici ordinari.
Con la l. 6837/1890 fu attribuita alla Giunta provinciale amministrativa una competenza modellata su quella
della Quarta sezione, ma limitata alla tutela nei confronti di taluni atti di Amministrazioni prevalentemente
locali.
Contro le pronunce della Giunta provinciale amministrativa era ammesso ricorso alla Quarta sezione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 17. La riforma del 1907: il carattere giurisdizionale della Quarta
sezione
La legge del 1889 non affrontava la questione della “natura” amministrativa o giurisdizionale (come giudice
speciale) della Quarta sezione.
Le pronunce della Quarta sezione non erano designate nella legge come “sentenze”, ma come “decisioni”,
termine che indicava anche pronunce di autorità amministrative.
Alcuni autori sostennero con vigore la tesi del carattere amministrativo dell’attività della Quarta sezione.
Prevalse però nettamente l’indirizzo contrario: la tesi del carattere giurisdizionale della Quarta sezione.
Questa fu accolta, inoltre, dalla Cassazione, alla quale la legge del 1877 assegnava i ricorsi contro le
decisioni dei giudici speciali per motivi di giurisdizione.
La Cassazione, dichiarando ammissibili ricorsi del genere proposti contro le decisioni del Consiglio di Stato,
riconobbe alla Quarta sezione carattere di giudice speciale e alle decisioni di essa valore di sentenze.
Ogni discussione in proposito fu superata dalla l. 62/1907.
Questa legge riconobbe formalmente il carattere giurisdizionale della Quarta sezione, introducendo la
distinzione fra sezioni “consultive” del Consiglio di Stato (le prime tre) e sezioni “giurisdizionali”.
Inoltre istituì la Quinta sezione del Consiglio di Stato, con funzioni giurisdizionali, alla quale erano
demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla Quarta sezione erano riservati i ricorsi nei casi
generali in cui il sindacato era limitato alla legittimità.
Altre innovazioni di rilievo nella legge del 1907 riguardarono la disciplina dell’istruttoria nel processo
amministrativo, la disciplina del procedimento avanti alle Giunte provinciali amministrative (alle quali pure
fu riconosciuto espressamente carattere giurisdizionale) e la disciplina del ricorso straordinario al Re.
In attuazione della l. 62/1907 fu emanato il r.d. 642/1907, con il “regolamento per la procedura dinanzi alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato” (reg. proc. Cons. Stato) che è tuttora in vigore.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 18. La riforma del 1923 e l’istituzione della giurisdizione esclusiva
La legge del 1907 ha orientato decisamente la distinzione fra la giurisdizione amministrativa e quella
ordinaria nei termini di una distinzione fra posizioni soggettive.
Al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non fu assegnato uno spazio nella tutela dei diritti soggettivi
lasciato scoperto dalla legge di abolizione del contenzioso amministrativo.
Al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale era pertanto riconosciuta la competenza per la tutela di
posizioni soggettive particolari: gli interessi legittimi.
Un sistema di questo tipo comportava la necessità di identificare puntualmente i caratteri e i contenuti delle
diverse posizioni soggettive e comportava l’inconveniente che, se le due posizioni soggettive erano tra loro
correlate, diventava necessario esperire due distinti giudizi.
La l. 2840/1923, cui fece seguito il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con r.d.
1054/1924, cercò di porre rimedio a questi inconvenienti attraverso due importanti ordini di innovazioni:
a. al giudice amministrativo, nei giudizi di sua competenza, fu riconosciuta espressamente la capacità di
conoscere “in via incidentale” le posizioni di diritto soggettivo.
La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare che, in un giudizio
amministrativo, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse sempre la
sospensione del giudizio e la rimessione delle parti avanti al giudice civile;
b. in alcune materie particolari elencate dalla legge, fra le quali il pubblico impiego, al giudice
amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare “in via principale” anche in tema di
diritti soggettivi.
In queste materie, pertanto, la tutela giurisdizionale non era articolata fra tutela di interessi legittimi
(demandata al giudice amministrativo) e tutela dei diritti soggettivi (demandata al giudice ordinario), ma era
devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 19. Conseguenze della riforma del 1923 sulla giurisdizione esclusiva
Dalla riforma del 1923 emergeva in modo chiaro che:
- Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria
seguiva il criterio della distinzione per materie: da questo punto di vista la riforma del 1923 comportava un
certo recupero della logica propria del modello di contenzioso amministrativo.
Le materie assegnate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo erano però individuate in via
tassativa.
- Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti soggettivi, il giudice amministrativo
disponeva degli stessi poteri di cognizione e di decisione che gli spettavano nel caso di giurisdizione sugli
interessi legittimi.
Pertanto l’assegnazione di una materia alla giurisdizione esclusiva comportava conseguenze importanti sulla
tutela dei diritti.
- Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela dei diritti era “aggiuntiva” rispetto a quella degli interessi.
Di conseguenza, si potevano avere casi di giurisdizione esclusiva nei quali il giudice amministrativo
esercitava solo una giurisdizione di legittimità (ipotesi normale), ma anche casi di giurisdizione esclusiva nei
quali il giudice amministrativo esercitava una giurisdizione “anche in merito”.
- Anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo poteva conoscere in via incidentale
delle situazioni di diritto soggettivo non inerenti alla materia devoluta alla giurisdizione esclusiva che
fossero però rilevanti per la decisione.
Al giudice amministrativo, invece, era preclusa la cognizione, sia in via principale, sia in via incidentale, di
questioni inerenti allo stato e alla capacità delle persone, o di questioni di falso che erano riservate pertanto
al giudice ordinario.
- Al giudice ordinario, anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
erano riservate “le questioni attinenti a diritti patrimoniali consequenziali alla pronuncia di legittimità
dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre”.
I “diritti patrimoniali consequenziali” furono identificati dalla dottrina successiva e dalla giurisprudenza con
il diritto al risarcimento del danno che assumeva rilevanza in seguito all’annullamento di un provvedimento
amministrativo che avesse inciso su un diritto soggettivo.
Le azioni per il risarcimento dei danni dovevano essere proposte sempre davanti al giudice ordinario anche
se era stato arrecato un danno a un diritto devoluto alla giurisdizione esclusiva (questa riserva di
giurisdizione al giudice ordinario è stata superata solo di recente).
La riforma del 1923-’24 introdusse alcune modifiche anche all’ordinamento del Consiglio di Stato.
Fra esse la più importante è rappresentata dal superamento della distinzione di competenze fra Quarta e
Quinta sezione: la distinzione fra le due sezioni da allora fu di ordine meramente interno.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 20. L’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione dei Tar
Dopo il testo unico 1054/1924, la disciplina della giurisdizione amministrativa e del processo
amministrativo rimase sostanzialmente immutata per oltre 70 anni.
Anche l’entrata in vigore della Costituzione comportò, in un primo tempo, mutamenti limitati.
La Costituzione enunciava principi nuovi sulla funzione giurisdizionale in generale e sulla tutela nei
confronti dell’Amministrazione in particolare, ma a lungo prevalse una lettura prudente.
Nei primi anni dell’ordinamento repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto
organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono condizionate dalla Costituzione.
Con il d.l. 642/1948 era stata istituita una Sesta sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.
Subito dopo, con il d.lgs. 654/1948 venne istituito il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione
siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato: in questo modo, però, divenne problematica la stessa
unitarietà della giurisdizione amministrativa.
Solo nella seconda metà degli anni ’60 l’incidenza dei principi costituzionali fu più evidente, con
riferimento alle norme sull’indipendenza del giudice.
La Corte Costituzionale dovette dichiarare l’illegittimità della composizione della Giunta provinciale
amministrativa in sede giurisdizionale: in seguito a questa pronuncia anche le vertenze che erano demandate
in primo grado alla Giunta provinciale amministrativa divennero di competenza del Consiglio di Stato.
Gli interventi della Corte Costituzionale e l’avvio delle Regioni a Statuto ordinario resero più urgente
l’attuazione dell’art. 125 cost. sulla istituzione, in ogni Regione, di un giudice amministrativo di primo
grado.
Con la l. 1034/1971 furono istituiti nei capoluoghi di ciascuna Regione i Tribunali amministrativi regionali
(Tar).
L’appello contro le sentenze dei Tar andava proposto al Consiglio di Stato, organo che pertanto, dopo la
riforma del 1971, si configura come giudice amministrativo di secondo grado.
L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato, quasi contemporaneamente, dal
d.p.r. 1199/1971, che dettò per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi amministrativi: ricorso
gerarchico, ed altri ricorsi ad esso assimilati (ricorso gerarchico improprio e ricorso in opposizione), e
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 21. La legge 205/2000 e le innovazioni recenti
Le innovazioni successive all’istituzione dei Tar, per quasi un ventennio, furono piuttosto limitate, segno
che sembrava raggiunto un equilibrio di fondo.
Elementi sostanziali di novità emersero invece sempre più spesso a partire dai primi anni ’90.
Gli interventi in genere seguivano due indirizzi: erano introdotte discipline speciali per assicurare uno
svolgimento più veloce del processo amministrativo ed erano previsti nuovi casi di giurisdizione esclusiva.
L’introduzione di discipline speciali in alcuni casi rispecchiava l’importanza riconosciuta dal legislatore a
certi interessi del cittadino: per rendere più efficace la loro tutela dovevano essere introdotte procedure
specifiche e più veloci.
Così la l. 241/90, dopo aver previsto, sul piano sostanziale, il diritto d’accesso ai documenti amministrativi,
a tutela di esso introdusse un giudizio speciale di competenza del giudice amministrativo e caratterizzato da
procedure particolari e accelerate.
In altri casi, invece, emergeva l’esigenza di migliorare l’efficacia dell’attività amministrativa in alcuni
settori nodali: l’adozione di misure cautelari e la stessa incertezza legata alla pendenza del giudizio possono
rallentarne lo svolgimento (le controversie sugli appalti pubblici di lavori).
In molti casi era esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva.
Si andava affermando il disegno di privilegiare il ruolo del giudice amministrativo rispetto alle vertenze con
l’Amministrazione che risultassero più direttamente incisive su interessi generali della collettività.
Il tema della giurisdizione esclusiva assunse un rilievo ancora maggiore con la riforma del pubblico
impiego.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 22. La delega al Governo e la giurisdizione esclusiva in materia di
vertenze amministrative
Per completare e attuare la riforma, la l. 59/97 conferì un ampia delega al Governo; la delega avrebbe
dovuto attuare, fra l’altro, l’assegnazione al giudice ordinario di tutte le controversie dei dipendenti pubblici
con rapporto “contrattuale” e, contestualmente, una estensione della giurisdizione esclusiva.
Il legislatore evidentemente intendeva mantenere un equilibrio complessivo fra le due giurisdizioni,
prevedendo una sorta di “compensazione” al giudice amministrativo per il trasferimento al giudice ordinario
di gran parte del contenzioso dei dipendenti pubblici.
La delega fu esercitata dal Governo con il d.lgs. 80/98 che assegnava alla giurisdizione esclusiva le vertenze
in materia di pubblici servizi e di edilizia e urbanistica, e stabiliva che nelle materie devolute alla
giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo fosse competente a pronunciarsi sul “risarcimento del
danno ingiusto” cagionato dall’Amministrazione con i propri atti.
Quest’ultima disposizione superava la precedente riserva al giudice ordinario delle vertenze sui diritti
patrimoniali “consequenziali”e assunse presto un’importanza notevolissima, dato che nel 1999 la
Cassazione finalmente riconobbe in via generale la possibilità del risarcimento dei danni provocati a
interessi legittimi.
L’estensione della giurisdizione esclusiva fu però ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale, la quale
rilevò che l’ampiezza della giurisdizione esclusiva eccedeva le previsioni della legge di delega.
Quasi contemporaneamente, però, il Parlamento approvava la l. 205/2000, nella quale erano riprodotte le
disposizione del d.lgs. 80/98.
Una volta recepite in una legge ordinaria, queste previsioni erano poste al riparo da contestazioni per
eccesso di delega.
La l. 205/2000 ha esteso la giurisdizione esclusiva ancora a nuove materie; ha assegnato al giudice
amministrativo la competenza a pronunciarsi sui diritti patrimoniali consequenziali, anche nelle materie non
devolute alla sua giurisdizione esclusiva.
Ha innovato sulla disciplina del processo amministrativo: alla tradizionale unitarietà di disciplina del
giudizio amministrativo è subentrato ormai un sistema caratterizzato sempre di più da una varietà di riti e di
pronunce.
Nella sentenza della Corte Costituzionale 204/2004 si richiama l’art. 103 cost. che avrebbe assegnato al
giudice amministrativo il compito fondamentale di tutelare il cittadino nei confronti del “potere”
amministrativo e, pur ammettendo espressamente la giurisdizione esclusiva, non consentirebbe
un’assegnazione indiscriminata al giudice amministrativo di ogni vertenza sui diritti.
Questi criteri non sarebbero stati rispettati nella l. 205/2000.
La sentenza ha limitato l’ambito della giurisdizione esclusiva in tema di pubblici servizi e ha ridotto la
giurisdizione amministrativa in materia di urbanistica ed edilizia alle vertenze su atti o provvedimenti
amministrativi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 23. Definizione di interesse legittimo nel diritto amministrativo
La figura dell’interesse legittimo inerisce alla trattazione del diritto sostanziale in un corso di diritto
amministrativo: in questo capitolo non saranno esaminati puntualmente tutti gli aspetti di questa figura, ma
saranno richiamati solo alcuni profili generali e saranno considerati alcuni aspetti che risultano di maggiore
importanza per la giustizia amministrativa, in particolare per il riparto delle giurisdizioni, o per i caratteri
della tutela dell’interesse legittimo offerta dalla giurisdizione amministrativa.
La nozione di “interesse legittimo” non ha in qualche modo preceduto e reso “obbligate” le scelte del
legislatore o gli indirizzi che storicamente hanno determinato il sorgere e l’affermarsi nel nostro Paese della
nozione in esame.
La figura dell’interesse legittimo trova fondamento, invece, proprio in queste scelte e in questi indirizzi.
L’interesse legittimo è inteso come una posizione diversa e alternativa rispetto al diritto soggettivo, tant’è
che in genere si tende a escludere che, rispetto a un medesimo “episodio della vita”, il cittadino possa essere
titolare contemporaneamente nei confronti dell’Amministrazione di un diritto soggettivo e di un interesse
legittimo.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 24. La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi nel diritto
amministrativo
La distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi può apparire agevole quando si confrontino certe
ipotesi stereotipe di queste posizioni soggettive: si pensi al caso del cittadino interessato a un potere
discrezionale dell’Amministrazione e al caso del cittadino creditore di un’obbligazione pecuniaria nei
confronti della stessa Amministrazione.
Nel primo caso si ritiene pacificamente che possa essere identificato solo un interesse legittimo: al cittadino
l’ordinamento non garantisce neppure la pretesa a un risultato utile; di conseguenza la garanzia della
posizione del cittadino viene concepita solo in correlazione con le modalità di esercizio del potere
dell’Amministrazione.
Nel secondo caso, invece, l’ordinamento riconosce e garantisce la pretesa a un risultato utile predeterminato.
Ma la distinzione appare molto più difficile in altre ipotesi.
Si pensi al caso, molto discusso, di un’attività vincolata dell’Amministrazione.
La distinzione non rileva solo sul piano formale: in passato, tenuto conto dell’indirizzo giurisprudenziale che
negava il diritto al risarcimento dei danni nel caso di lesione di interessi legittimi, alla diversità di
qualificazione delle posizioni del cittadino finiva col corrispondere anche una diversa intensità di tutela.
Veramente irrinunciabile in uno Stato democratico sono la garanzia e l’ampiezza della tutela nei confronti
dell’Amministrazione, e non le nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è stata interpretata.
La ragione di un’attenzione particolare per la tutela nei confronti dell’Amministrazione è costituita
dall’esigenza di una maggiore adeguatezza ed efficacia della tutela, proprio per il carattere pubblico del
soggetto e per il suo porsi, rispetto al cittadino, come “autorità”.
Si noti che, in questa logica, risulta però contraddittorio invocare la nozione dell’interesse legittimo per
giustificare una tutela meno intensa del cittadino rispetto a quella offerta dal diritto comune.
Eppure solo da un decennio la Corte di Cassazione, rivedendo un proprio indirizzo costantemente negativo,
ha ammesso anche per la lesione di interessi legittimi il risarcimento dei danni.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 25. L’interesse legittimo e il “potere” dell’amministrazione
Si riscontra un ampio consenso nell’identificare alcuni elementi come propri dell’interesse legittimo.
Un primo elemento è costituito dal carattere “relativo” (o “relazionale”) dell’interesse legittimo: l’interesse
legittimo non è una posizione soggettiva di tipo “assoluto”, ma è una posizione correlata all’esercizio di un
potere da parte dell’Amministrazione (c.d. potere amministrativo).
Ragionando in questo modo, l’attenzione di sposta sul “potere” amministrativo; questa nozione però è
tutt’altro che univoca.
In passato il potere dell’Amministrazione è stato considerato spesso come un valore che esprimeva la
supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto al cittadino: questa logica però è radicalmente incompatibile
con i principi di un ordinamento democratico.
Oggi sembra affermarsi una concezione opposta come l’assoggettamento del potere dell’Amministrazione a
una disciplina tipica, espressa in particolare nella teoria dei vizi dell’atto amministrativo.
Nei casi dubbi, però, questa diversa concezione appare di aiuto limitato: per stabilire se sia applicabile la
disciplina tipica del potere amministrativo si deve verificare se in gioco sia un potere amministrativo.
Tutte queste difficoltà spiegano perché molte riflessioni si siano concentrate, più che si definizioni astratte e
generali, sull’analisi dei casi in cui sia stata riconosciuta la presenza di un “potere” dell’Amministrazione.
Il potere amministrativo è considerato una situazione esclusiva del diritto pubblico: di conseguenza non è
configurabile un interesse legittimo in presenza di atti unilaterali dell’Amministrazione quando essi siano
riconducibili al diritto privato.
Non vale però la conclusione opposta: l’attività unilaterale dell’Amministrazione disciplinata dal diritto
pubblico non si configura necessariamente come potere amministrativo.
In alcune situazioni l’attività svolta dall’Amministrazione è certamente disciplinata dal diritto pubblico, ma
non vengono riconosciute le caratteristiche del “potere”, tant’è vero che rispetto ad essa sono configurabili
diritti soggettivi: si pensi a vicende come la determinazione dell’indennità di espropriazione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 26. I profili dell’attività amministrativa: autoritarietà o
autoritatività
In passato sono stati presi in considerazione vari profili dell’attività amministrativa nel diritto pubblico, per
definire il potere tipico dell’Amministrazione.
In alcune interpretazioni è presentato, come profilo caratteristico del “potere”, la c.d. autoritarietà o
autoritatività.
Di fronte a un “potere” autoritativo dell’Amministrazione il cittadino non può opporre un diritto soggettivo,
perché l’Amministrazione, attraverso i propri provvedimenti, può legittimamente estinguere i diritti dei terzi.
In riferimento al carattere dell’autoritarietà può avere, però, solo una portata limitata: è difficile configurare
un’autoritarietà dell’Amministrazione in tutti i casi in cui l’attività amministrativa non comporti la
sottrazione di utilità al cittadino.
Il potere dell’Amministrazione, anche in questi casi, ha il carattere dell’unilateralità, ma non il carattere
dell’autoritarietà; eppure anche in questi casi viene identificato un interesse legittimo del cittadino.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 27. I profili dell’attività amministrativa: funzionalità alla
realizzazione dell’interesse pubblico
In altre interpretazioni è considerata come elemento caratteristico del “potere” la sua funzionalità alla
realizzazione dell’interesse pubblico.
Questa ipotesi si verifica sempre nel caso dell’attività discrezionale, perché tale attività comporta la
necessità di una scelta in considerazione dell’interesse pubblico; invece, in alcune ipotesi di attività
vincolata ogni apprezzamento degli interessi è precluso all’Amministrazione e, quindi, la “funzionalità” a
certi interessi dovrebbe ritenersi giuridicamente irrilevante;
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 28. I profili dell’attività amministrativa: infungibilità
Altre interpretazioni assumono come caratteristica del “potere” amministrativo la sua infungibilità: il
“potere” dell’Amministrazione è riservato a uno specifico apparato e solo a tale apparato è consentito
l’esercizio di esso.
La posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizzerebbe per una dipendenza
istituzionale dall’Amministrazione proprio per questa ragione.
Va osservato, però, che il carattere dell’infungibilità non è esclusivo del “potere” amministrativo.
Si configura, per esempio, anche rispetto a talune obbligazioni, nei cui confronti sono configurabili
pacificamente posizioni di diritto soggettivo (si pensi al caso delle prestazioni artistiche).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 29. I profili dell’attività amministrativa: produzione di effetti
giuridici
Alcune interpretazioni, ancora, accolgono argomenti di ordine squisitamente formale e individuano come
elemento tipico del “potere” la produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi.
Pertanto viene accolta come distinzione fondamentale quella fra procedimenti dichiarativi e procedimenti
costitutivi.
I primi si limitano ad accertare o a certificare situazioni già identificate dalla legge e nei confronti di esse
sarebbero identificabili diritti soggettivi; i secondi, invece, hanno un carattere dispositivo perché sono idonei
a produrre effetti giuridici specifici e nei confronti di essi sarebbero identificabili interessi legittimi.
Si tenga presente che l’identificazione del carattere costitutivo di certi provvedimenti amministrativi non è
pacifica;
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 30. I profili dell’attività amministrativa: competenza esclusiva
Un orientamento dottrinale individua come discriminante per la nozione di “potere” il fatto che la legge
riservi all’amministrazione una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando
valutazioni che possono essere compiute solo dall’Amministrazione, e non da altri soggetti (si pensi alla c.d.
discrezionalità tecnica, ma soprattutto alla discrezionalità amministrativa).
Questa situazione di verifica quando l’attività amministrativa sia discrezionale.
L’Amministrazione ha la possibilità di introdurre una regola nuova, determinando, sulla base di una propria
scelta, l’assetto degli interessi nel caso concreto; quando invece l’attività è vincolata, l’Amministrazione si
deve limitare ad applicare una regola già presente nell’ordinamento.
Il cittadino è titolare perciò di un diritto soggettivo, perché anche prima e indipendentemente dall’attività
amministrativa è definito cosa gli spetti.
Invece, se l’attività è discrezionale, il cittadino non può vantare una pretesa giuridica a un determinato
risultato, perché ciò che gli spetta non è determinabile “a priori” in base alla legge, ma dipende da una scelta
dell’Amministrazione.
In questo caso, quindi, si può solo ammettere un interesse legittimo.
Questa tesi non viene accolta dalla giurisprudenza prevalente: essa riconosce la presenza di interessi
legittimi di fronte a un’attività amministrativa discrezionale, ma esclude che quando l’attività sia vincolata
siano configurabili necessariamente diritto soggettivi.
La giurisprudenza, rispetto all’attività vincolata, ammette interessi legittimi quando si possa riconoscere che
l’attività amministrativa è indirizzata a un interesse pubblico specifico; altrimenti identifica invece diritti
soggettivi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Giustizia amministrativa 31. Influsso del diritto comunitario sul diritto amministrativo
Da ultimo si deve tener presente l’influsso sempre maggiore del diritto comunitario.
Esso, per i rapporti tra il cittadino e l’Amministrazione, non discrimina fra diritti soggettivi e interessi
legittimi.
Di conseguenza, per tutta una serie di effetti, prevede una tutela del cittadino che non è condizionata, nei
suoi risultati, dalla configurazione delle posizioni soggettive come interesse legittimo anziché come diritto
soggettivo.
In questi casi anche il legislatore italiano ha dovuto adeguarsi all’impostazione dettata dalle norme
comunitarie, con effetti talvolta singolari: per esempio, prima che la giurisprudenza ammettesse il linea
generale una responsabilità dell’Amministrazione per lesione di interessi legittimi, per alcuni di essi, fondati
sulla normativa comunitaria, il legislatore italiano aveva dovuto introdurre una tutela risarcitoria.
L’incidenza del diritto comunitario potrebbe condurre nel nostro Paese ad attenuare la contrapposizione fra
interesse legittimo e diritto soggettivo, nel senso che, pur rimanendo ferme le specifiche modalità di tutela
(come l’articolazione delle giurisdizioni, ecc…), che sono rimesse all’ordinamento nazionale, i risultati
sostanziali della tutela dovrebbero diventare sempre più vicini.
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Giustizia amministrativa 32. La questione dei diritti “perfetti” in giurisprudenza
La presenza di interpretazioni diverse e di varie incertezze non significa che normalmente l’identificazione
di una situazione soggettiva come interesse legittimo sia controversa: soprattutto ad opera della Corte di
Cassazione si è consolidata una interpretazione comune sulla identificazione della maggior parte delle
situazioni corrispondenti ad interessi legittimi.
Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri; in
questa sede vengono richiamati quelli più significativi, con la precisazione che essi risultano invocati
talvolta in via “cumulativa”, come se l’identificazione dell’interesse legittimo discendesse in definitiva, più
che da un principio univoco, da una serie di “indici” da valutare complessivamente.
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Giustizia amministrativa 33. Distinzione fra norme d’azione e norme di relazione in
giurisprudenza
Alla stregua di questa importante concezione l’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che
disciplinano un potere e il suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo e
i suoi effetti.
A questa coppia di norme corrisponderebbe, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia interesse
legittimo-diritto soggettivo.
La figura dell’interesse legittimo troverebbe così un fondamento positivo, nella norma che fonda quel potere
dell’Amministrazione.
La possibilità e l’utilità della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione sono criticate: anche le
norme che disciplinano un potere, per il solo fatto che ne determinano le condizioni per l’esercizio nei
confronti di altri soggetti, individuano relazioni giuridiche intersoggettive; e anche le norme che concernono
un rapporto intersoggettivo non possono essere esaurite in una logica statica, ma vanno considerate in una
logica dinamica dalla quale emerge più chiaramente che finiscono anch’esse con l’individuare i poteri
rispettivi delle parti.
Anche la giurisprudenza più recente non sembra più riconoscere un peso decisivo alla tesi in esame.
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Giustizia amministrativa 34. Distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e
attività vincolata nell’interesse privato
Come si è già accennato uno dei problemi maggiori è rappresentato dalla valutazione delle posizioni
soggettive di fronte all’attività vincolata dell’Amministrazione.
Secondo la giurisprudenza, l’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse
pubblico.
Di conseguenza se il potere dell’Amministrazione è discrezionale, sarebbe sempre configurabile un interesse
legittimo; se invece il potere è vincolato, allora si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito
nell’interesse del cittadino o nell’interesse dell’Amministrazione, e nel primo caso vi sarebbe un diritto
soggettivo, nel secondo un interesse legittimo.
Il punto più controverso di questa giurisprudenza è rappresentato dal fatto che, sulla base dell’analisi
giuridica, è impossibile capire in quali casi l’attribuzione di un potere vincolato sia funzionale a un interesse
pubblico, ovvero a un interesse privato, poiché la funzionalità di un potere vincolato non si può ricavare
dalla norma giuridica.
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Giustizia amministrativa 35. Distinzione fra cattivo esercizio del potere e carenza di potere
Nel caso di cattivo esercizio di potere (vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere)
l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il provvedimento non sia annullato)
ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo, perché si è pur sempre in presenza dell’esercizio
di un potere dell’Amministrazione.
Invece, nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di
presupposti necessari) il vizio di riverbera sulla stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva
del cittadino rimane quella originaria, come individuabile in assenza dell’intervento dell’Amministrazione.
La Cassazione ha cercato anche di elaborare una casistica completa dei casi di carenza di potere: ha
sostenuto che vi è carenza quando il provvedimento è previsto dell’ordinamento, ma non come esercizio di
una funzione amministrativa; oppure ha sostenuto che vi è carenza quando il potere è attribuito a
un’Amministrazione di ordine diverso rispetto a quella di cui fa parte l’organo che ha emesso il
provvedimento, ovvero quando il provvedimento è assunto dall’Amministrazione che è in astratto titolare
del potere, ma in mancanza di un presupposto concreto prescritto dalla legge.
La sistematica dei vizi dell’atto amministrativo delineata dalla l. 15/2005 (che ha distinto fra ipotesi di
“annullabilità” dell’atto amministrativo e ipotesi di “nullità”) dovrebbe orientare la Cassazione a superare la
distinzione fra “cattivo esercizio del potere” e “carenza di potere” e a dare rilievo piuttosto alla distinzione
fra i casi di “annullabilità” e i casi di “nullità” del provvedimento.
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Giustizia amministrativa 36. La teoria dei diritti “perfetti” in giurisprudenza
Negli ultimi decenni la giurisprudenza e una parte della dottrina hanno proposto una selezione delle
posizioni giuridiche, individuandone alcune come dotate di una protezione giuridica qualitativamente
maggiore e perciò non modificabili per effetto dell’esercizio di un potere amministrativo.
Si tratterebbe dei c.d. diritti personalissimi (diritto all’integrità personale, al nome, ecc…), sui quali
l’Amministrazione non può incidere, dei diritti definiti come tali dal legislatore (diritto all’indennità di
esproprio, diritto del cittadino rispetto a trattamenti sanitari obbligatori; in questi casi l’attività
amministrativa è sempre vincolata), e da ultimo di diritti ritenuti particolarmente importanti sul piano
costituzionale (diritto alla salute, diritto all’integrità dell’ambiente, ecc…).
In questo ultimo caso la rilevanza della posizione soggettiva implicherebbe una sorta di rigidità originaria
della stessa, tale da precludere qualsiasi “compressione” determinata dal potere dell’Amministrazione.
Pertanto anche in presenza di atti dell’Amministrazione si configurerebbero sempre diritti soggettivi, e non
interessi legittimi.
Appare problematica, però, la possibilità di desumere dalla Costituzione la natura di posizione soggettiva e
non è chiaro in base a quale criterio i diritti costituzionalmente rilevanti possano a loro volta essere
discriminati (si pensi al caso del diritto di proprietà).
Alla stregua della giurisprudenza della Cassazione, la categoria dei diritti “perfetti” finisce col rappresentare
comunque un’eccezione rispetto ai criteri generali per l’individuazione dell’interesse legittimo.
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Giustizia amministrativa 37. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e
qualificata
L’interesse legittimo è anzitutto una posizione che identifica un interesse proprio del cittadino: per questa
ragione non può essere considerato come una posizione meramente “riflessa” rispetto al potere
dell’Amministrazione.
L’interesse legittimo non è neppure una posizione “diffusa”, di cui possano essere titolari i cittadini in
quanto tali, ma è una posizione “soggettiva”, cioè di cui sono titolari solo soggetti determinati.
Di fatto è stata la giurisprudenza che ha rivendicato a sé la capacità di individuare in quali situazioni sia
configurabile la titolarità di un interesse legittimo.
Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione soggettiva dovrebbe essere
definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla legge.
A questo proposito vengono considerati comunemente due criteri.
Il primo ed elementare è quello della c.d. “differenziazione”: proprio perché l’interesse legittimo è una
posizione “soggettiva”, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse
“diversa” e più “intensa” rispetto a quella della generalità dei cittadini.
L’interesse legittimo deve essere perciò “differenziato”.
Il criterio della “differenziazione” non viene ritenuto sufficiente perché rischia di essere piuttosto
approssimativo.
È stato perciò proposto, ad integrazione di esso, il criterio della “qualificazione”: perché si possa avere un
interesse legittimo è necessario che il potere dell’Amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale
potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento.
In altre parole, l’identificazione dei soggetti più direttamente interessati dovrebbe essere effettuata non
secondo criteri “quantitativi” o “economici”, ma secondo criteri squisitamente giuridici.
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Giustizia amministrativa 38. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale
In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata particolarmente su un aspetto:
quello delle modalità della tutela nel caso di lesione.
L’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo nell’attribuzione al titolare di un
potere di reazione consistente nella possibilità di impugnare il provvedimento lesivo.
Si rilevava come la tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria.
In questo modo si istituiva un parallelismo fra il carattere costitutivo del potere e il carattere costitutivo della
tutela offerta all’interesse legittimo: da questo punto di vista consentiva di porre su un identico piano, quanto
agli effetti, l’attività amministrativa e l’attività giurisdizionale di sindacato su di essa e pertanto consentiva
anche di assicurare un’incidenza diretta della tutela giurisdizionale degli interessi legittimi rispetto
all’attività amministrativa.
Mentre la tutela del diritto soggettivo soddisfa direttamente la pretesa al bene della vita in cui si sostanzia il
diritto, la tutela dell’interesse legittimo attua solo un soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso
l’eliminazione degli atti amministrativi lesivi.
In passato, quando il diritto positivo sembrava riconoscere uno spazio all’interesse legittimo solo in termini
di reazione a una lesione, l’interesse legittimo sembrava emergere solo in seguito a una sua lesione.
A questo punto la rilevanza dell’interesse legittimo sembrava risolversi interamente nella tutela sul piano
giurisdizionale.
In questo modo era facile finire col sostenere che l’interesse legittimo sarebbe figura di ordine squisitamente
processuale.
Questa concezione oggi sembra recessiva, ma non è stata abbandonata del tutto, e comunque ha
condizionato in profondità la giurisprudenza.
Basti pensare alla rigidità con cui in passato veniva negato il risarcimento dei danni per lesione di interessi
legittimi.
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Giustizia amministrativa 39. La tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo
Innanzi tutto va chiarito che le modalità della tutela non costituiscono di per sé l’elemento caratterizzante
della figura dell’interesse legittimo; il ragionamento va invece capovolto: sono i caratteri dell’interesse
legittimo che condizionano le modalità della tutela.
Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si configura, in genere, come tutela
“successiva”: presuppone che sia già intervenuta una lesione dell’interesse protetto.
Ciò comporta, sul piano della tutela giurisdizionale, una pretesa all’annullamento dell’atto amministrativo
lesivo.
La lesione dell’interesse legittimo può essere determinata, però, anche da altri fattori connessi al potere
amministrativo: in particolare può essere determinata dalla mancanza dell’esercizio di un potere, come nel
caso del silenzio-rifiuto.
In questo caso il giudizio non tende all’eliminazione di un provvedimento (che non c’è), ma tende a
garantire l’adempimento del dovere di provvedere dell’Amministrazione.
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Giustizia amministrativa 40. Natura processuale e sostanziale dell’interesse legittimo
Quanto poi alla questione della natura solo processuale o anche (e principalmente) sostanziale dell’interesse
legittimo, essa può essere affrontata correttamente solo sulla base del diritto positivo.
Il punto è capire se nel nostro ordinamento all’interesse legittimo siano assegnate utilità ulteriori rispetto a
quella della pretesa all’annullamento dell’atto lesivo.
Un argomento importante a favore della soluzione affermativa viene tratto dalla l. 241/90: essa,
introducendo una serie di strumenti di garanzia per gli interessi legittimi a partire dall’inizio del
procedimento amministrativo, ha assegnato rilevanza all’interesse legittimo prescindendo del tutto sia dalla
impugnazione di un provvedimento, sia addirittura dalla configurabilità di una lesione all’interesse del
cittadino.
La partecipazione al procedimento si attua su un piano di diritto sostanziale, attraverso la presentazione di
osservazioni o di altri contributi significativi che consentono all’amministrazione di realizzare una più
completa conoscenza dei fatti e una migliore valutazione degli interessi ai fini dell’adozione dei propri
provvedimenti.
Alla luce di questa disciplina, l’interesse legittimo si presenta come figura “attiva”, caratterizzata da una
serie di prerogative dirette a influire sull’azione amministrativa.
Appare superata così anche la concezione dell’interesse legittimo come figura meramente “passiva”.
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Giustizia amministrativa 41. L’identificazione del “bene della vita” alla base dell'interesse
legittimo
La conclusione che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale consente di precisare meglio alcune
delle affermazioni proposte all’inizio.
L’interesse legittimo non “sorge” per effetto della sua lesione ad opera di un potere dell’Amministrazione e
non assume rilevanza solo quando si verifichino i presupposti per l’impugnativa: è configurabile già nel
momento in cui ha inizio il procedimento amministrativo e forse ancora prima.
All’identificazione dei soggetti titolari di interessi legittimi in un procedimento amministrativo non
corrisponde necessariamente l’identificazione delle parti legittimate a far valere il loro interesse legittimo
nel processo amministrativo.
Questo secondo ambito è più limitato: le parti necessarie nel processo amministrativo vengono individuate
in base agli effetti prodotti dal provvedimento lesivo da impugnare.
Una volta stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale, va però chiarito in che cosa
consista, rispetto ad esso, quel “bene della vita” che costituisce una componente di tutte le posizioni
soggettive di diritto sostanziale.
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Giustizia amministrativa 42. L’utilità dell’interesse legittimo
Il “bene della vita” non può certo identificarsi con un “interesse alla legittimità dell’azione amministrativa”.
L’interesse legittimo è garantito giurisdizionalmente, in genere, solo attraverso la contestazione della
legittimità dell’azione amministrativa.
Tuttavia, se la tutela giurisdizionale si realizza attraverso la contestazione della illegittimità nell’azione
amministrativa, non è detto che l’interesse garantito si risolva in quello alla legittimità dell’azione stessa.
1. Si deve evitare di confondere la modalità della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse.
La legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita forse come l’oggetto di un interesse in
generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata.
2. Se di vuole individuare l’oggetto di una posizione giuridica qualificata è necessario tenere in
considerazione l’interesse specifico del titolare di essa.
Per soddisfare questa esigenza viene prospettata per la figura dell’interesse legittimo una dissociazione fra
due ordini di interessi: infatti, sarebbero configurabili un interesse materiale, che è proprio del titolare
dell’interesse legittimo, ma che esorbita dalla rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’interesse legittimo
stesso, e un interesse diverso (l’interesse legittimo vero e proprio), di cui il primo costituirebbe solo un
presupposto di fatto o il substrato “economico”, e che sarebbe, questo sì, passibile di tutela.
Si pensi al caso di un concorso pubblico: il concorrente che partecipa al concorso è titolare di un interesse
legittimo rispetto agli atti del concorso; ma questo interesse non coinciderebbe con l’interesse materiale del
concorrente all’esito positivo del concorso e all’assunzione, in quanto la tutela dell’interesse legittimi si
attua nella contestazione degli atti illegittimi che abbiano pregiudicato il concorrente.
In questo modo, però, il “bene della vita”, nell’interesse legittimo, rimarrebbe ancora in ombra (perché in
definitiva sarebbe distinto dalla posizione giuridica garantita dall’ordinamento) o, tutt’al più, si tradurrebbe
solo in una serie di utilità secondarie e puramente strumentali (la partecipazione al concorso).
3. È stata avanzata, però, anche una concezione diversa, spesso respinta, ma non per questo meno
interessante.
Secondo questa diversa concezione l’interesse c.d. materiale non va considerato come un elemento
pregiuridico, estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest’ultimo,
perché identifica proprio il “bene della vita” cui l’interesse legittimo è funzionale.
La legge, nel caso dell’interesse legittimo, non garantisce quindi la realizzazione del bene della vita per
iniziativa autonoma del suo titolare (come invece vale, in genere, per il diritto soggettivo): ne garantisce una
tutela modellata sul potere dell’Amministrazione.
L’interesse legittimo, per questo aspetto, può essere accostato a una “chance” che sia riconosciuta
dall’ordinamento.
Ma questo accostamento non significa che manchi un “bene della vita”: significa solo che tale bene riceve,
nel caso dell’interesse legittimo, una tutela giuridica peculiare.
Se mancasse il “bene della vita” non potrebbe esistere neppure l’interesse legittimo, inteso come posizione
giuridica di ordine sostanziale (e non meramente processuale).
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Giustizia amministrativa