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Interessi legittimi e risarcimento del danno fino agli anni ‘90


Fino alla fine degli anni ’90, la giurisprudenza dei giudici civili (ai quali spettava decidere le vertenze risarcitorie) ammetteva una responsabilità civile dell’Amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo, sulla base di una lettura dell’art. 2043 c.c. che identificava il “danno ingiusto” passibile di risarcimento con il danno arrecato a diritti soggettivi.
Solo se il provvedimento illegittimo aveva inciso su un diritto soggettivo preesistente estinguendolo poteva esservi risarcimento dei danni: tutti gli interessi legittimi che non erano riconducibili a vicende di estinzione (o di “degradazione”) di diritti soggettivi non potevano fruire di una tutela risarcitoria.
Inoltre, seguendo lo stesso schema, per il risarcimento sarebbe stato sempre necessario l’annullamento del provvedimento lesivo: solo l’annullamento, infatti, poteva “ripristinare” il diritto soggettivo.
Una volta verificatesi tutte queste condizioni (l’annullamento del provvedimento lesivo, la configurabilità di un pregiudizio a un diritto soggettivo), il risarcimento sarebbe spettato, senza la necessità di verifiche concernenti l’elemento soggettivo (la colpa o il dolo): data l’illegittimità del provvedimento (accertata nella procedura di annullamento), la colpa dell’Amministrazione sarebbe stata in re ipsa.
In questo modo, la giurisprudenza ricavava anche una regola pratica sul rapporto fra le giurisdizioni: se il risarcimento doveva essere preceduto dall’annullamento del provvedimento lesivo, allora risultava necessario esperire l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo prima dell’azione civile per danni.

Tratto da GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA di Stefano Civitelli
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