Appunti ben strutturati delle lezioni tenute dalla Prof.ssa Rita Martella, a.a. 2008/09. Diritto Fallimentare - corso di laurea: Servizi Giuridici per L'impresa.
Diritto Fallimentare
di Alessandro Remigio
Appunti ben strutturati delle lezioni tenute dalla Prof.ssa Rita Martella, a.a.
2008/09. Diritto Fallimentare - corso di laurea: Servizi Giuridici per L'impresa.
Università: Università degli Studi Gabriele D'Annunzio di
Chieti e Pescara
Facoltà: Economia1. Lo stato di insolvenza come condizione oggettiva per la
dichiarazione di fallimento: ART. 51 L. F.
L’art. 51 l. f. stabilisce che “l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito.
Lo stato di insolvenza si configura come la condizione oggettiva necessaria per la dichiarazione di
fallimento dell’imprenditore commerciale non piccolo. Si denota come la dichiarazione di fallimento sia
subordinata alla sussistenza di una duplice condizione: una di carattere soggettivo (la qualità di imprenditore
commerciale non piccolo) ed una di carattere oggettivo (la sussistenza dello stato di insolvenza). L’art. 51 è
chiaro: in presenza dello stato di insolvenza riferito ad un imprenditore commerciale non piccolo, il
tribunale dovrà procedere alla dichiarazione di fallimento salvo che l’imprenditore non intenda presentare ai
creditori una proposta di concordato preventivo (artt. 160 ss) ovvero raggiunga con i creditori un accordo di
ristrutturazione dei debiti (art. 162 bis) ovvero presenti i requisiti per l’ammissione alla procedura di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese (dlgs 270/99).
Ciò premesso occorre fornire una qualche nozione di stato di insolvenza.
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Diritto Fallimentare 2. La nozione di insolvenza di cui all’art. 52
L’art. 52 stabilisce che “l’insolvenza si manifesta con inadempimenti ed altri fatti esteriori, i quali
dimostrino che l’imprenditore non è più in grado di far pronte regolarmente alle proprie obbligazioni”.
Analizzando l’articolo in proposito, viene naturale fare alcune precisazioni. In via preliminare, il concetto di
insolvenza deve essere riferito necessariamente ad un soggetto qualificato, l’imprenditore commerciale. Per
alcuni aspetti, questa definizione tecnica di insolvenza sembra diversa dalla definizione civilistica di
insolvenza fornita dagli artt. 1186 e 1299. L’insolvenza civile è un fenomeno assolutamente statico che si
concretizza nel momento in cui il peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore gli impedisce
l’adempimento delle obbligazioni assunte, in quanto l’attivo non è sufficiente a soddisfare il passivo.
Viceversa, l’insolvenza commerciale è fenomeno dinamico in quanto si riferisce ad una condizione
patrimoniale dell’impresa, realtà costantemente variabile e dinamica, che si riflette inevitabilmente sulla
situazione patrimoniale.
Lo stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale non piccolo è finalizzato a spostare la composizione
del conflitto tra debitore e creditore dal piano individuale a quello collettivo concorsuale. Per capire meglio
il concetto, è necessario ricordare che il concetto di stato di insolvenza come condizione oggettiva
necessaria per la dichiarazione di fallimento di un imprenditore commerciale non piccolo è stato introdotto
solo con la legge fallimentare del 1942. Fino ad allora, la condizione oggettiva per la dichiarazione di
fallimento del “commerciante” era costituita dalla semplice “cessazione dei pagamenti”. Da ciò ne deriva
che, da un lato, poteva accadere che il mero inadempimento potesse comportare il fallimento del
commerciante; dall’altro, il commerciante poteva evitare il proprio fallimento se continuava ad adempiere
alle proprie obbligazioni, ancorchè l’adempimento avvenisse con mezzi rovinosi o fraudolenti.
Per porre fine a questa situazione iniqua pericolosa per lo sviluppo economico, si arrivò all’introduzione
della nozione di insolvenza dell’art. 52 l. f.
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Diritto Fallimentare 3. Il significato dell’espressione “stato di insolvenza”: lo stato del
dibattito e le tendenze evolutive
Pur in presenza di una nuova formulazione che sembrava eliminare ogni dubbio sulla definitiva
cristallizzazione del presupposto oggettivo del fallimento nello stato economico-patrimoniale di impotenza
al regolare adempimento delle proprie obbligazioni, alcuni autori sembravano non condividere tale processo
di cristallizzazione. Negli anni ’60 alcuni autori elaborarono teorie che continuavano ad attribuire una
rilevanza decisiva all’inadempimento ai fini della dichiarazione di fallimento (teoria personalistica).
La risposta a tali posizioni veniva formulata dai sostenitori della teoria patrimonialistica che distinguono
l’inadempimento valutato come “fatto”, riferito ai rapporti obbligatori singolarmente considerati,
dall’insolvenza considerata invece come uno “stato” del patrimonio del debitore.
Le differenze tra le due teorie hanno messo in evidenza che la relazione tra gli elementi che compongono
l’art. 5 richiede maggior coesione per dare una risposta completa alle questioni lasciate aperte anche dalle
teorie personalistiche (ritardo nell’apertura del fallimento, debole tutela dei creditori in caso di insolvenza
derivante dalla volontà di non adempiere, etc…).
Recentemente è stato proposto un tentativo di sintesi tra le due teorie. La tesi presenta alcuni aspetti
interessanti: in primo luogo, l’aver ribadito che nella struttura dell’art. 5 il nucleo centrale è dato dal “non
essere più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” ed al riconoscimento dell’atipicità
dei “fatti esteriori”, costituisce una conferma della “struttura aperta” dello stesso articolo; inoltre, un punto
di forza della tesi sta nell’affermazione secondo cui il dissesto dell’impresa non ha necessariamente origine
nell’insufficienza patrimoniale, potendo anche essere determinato da fattori pertinenti all’attività
considerata. Così il patrimonio non è più un elemento sufficiente per l’individuazione dello stato di
insolvenza. Maggiore attenzione va riconosciuta all’attività, elemento che assume un ruolo centrale
nell’attuale fase del processo di trasformazione del concetto di stato di insolvenza.
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Diritto Fallimentare 4. Gli elementi indicatori nella definizione di stato di insolvenza
Rispetto alla precedente nozione di “cessazione dei pagamenti”, la nozione di insolvenza contenuta nell’art.
5 risulta molto più complessa. Essa appare configurabile come una “norma concetto”, una norma “aperta”,
che ha indotto molti interpreti a giudicarla una “definizione che non definisce”.
Dall’analisi del contenuto della norma sembra emergere l’esistenza di un vero e proprio modello, con un
struttura composita e complessa, che si articola mediante diversi elementi tra loro strettamente correlati:
a. La manifestazione;
b. Gli inadempimenti e gli “altri fatti esteriori”;
c. La dimostrazione del fatto che il debitore-imprenditore commerciale non è più in grado di soddisfare le
proprie obbligazioni;
d. Il significato da attribuire all’avverbio “regolarmente”.
A) LA MANIFESTAZIONE
Per essere rilevante ai fini della dichiarazione di fallimento lo stato di insolvenza deve essere manifesto. Il
legislatore affronta la questione dell’insolvenza dell’imprenditore commerciale non piccolo scegliendo un
approccio particolare che può essere sintetizzato in tre punti:
- Non considera il fenomeno dell’insolvenza fino a quando esso non diventa manifesto e come tale ritenuto
pericoloso, lasciando libero sino a quel momento l’imprenditore di gestire l’eventuale situazione di difficoltà
senza interventi pubblicistici;
-Considera irrilevanti le cause che hanno determinato l’insolvenza;
-Considera irrilevante la riferibilità all’imprenditore delle cause che l’hanno determinata.
La scelta di ricollegare la rilevanza dell’insolvenza alla sua manifestazione esteriore può apparire
condivisibile sotto il profilo del rispetto dell’autonomia dell’imprenditore nella gestione dell’impresa anche
in situazione di difficoltà, ma può apparire dubbiosa in merito alle conseguenze di tale scelta sul piano della
tempestiva diagnosi dello stato di insolvenza. Infatti, l’esperienza insegna che l’imprenditore, che è il
soggetto che per primo dovrebbe rendersi conto della crisi della propria impresa, è spesso restio a prenderne
atto e, di conseguenza, ad assumere iniziative per renderla manifesta. Ne consegue che, essendo la
dichiarazione di fallimento correlata alla manifestazione dello stato di insolvenza, il ritardo che
inevitabilmente si crea tra il momento dell’insorgere dell’insolvenza e quello della sua esteriorizzazione
spesso impedisce quella tempestività nella dichiarazione di fallimento che viceversa renderebbe più efficace
l’intera procedura concorsuale.
B) GLI INADEMPIMENTI
Gli inadempimento, alla luce di quanto detto sin ora, hanno un valore presuntivo ai fini dell’accertamento
della sussistenza dello stato di insolvenza. Si può persino ritenere che l’insolvenza possa prescindere,
almeno in una prima fase, dalla presenza di inadempimenti.
Secondo la giurisprudenza, il mancato adempimento di un’obbligazione non costituisce elemento di giudizio
univoco per ritenersi integrata la prova dell’esistenza dello stato di insolvenza. Dall’altra parte, invece, il
mancato pagamento dell’IVA, è di per sé un atto sintomatico della situazione di insolvenza, non rilevando
l’impugnazione del ruolo, salvo che il debitore dimostri che l’esecutività dell’atto impugnato è stata sospesa.
Non è necessario, ai fini della sussistenza dello stato di insolvenza, l’esistenza di una pluralità di
inadempimento, essendo sufficiente anche un solo inadempimento, qualora si manifesti in modo idoneo da
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Diritto Fallimentare dimostrare l’esistenza di un patrimonio in dissesto e l’oggettiva impossibilità del debitore di soddisfare
regolarmente con mezzi normali gli obblighi assunti.
C) GLI “ALTRI FATTI ESTERIORI”
Ai sensi dell’art. 52 l’insolvenza può manifestarsi, oltre che mediante inadempimenti, anche con “altri fatti
esteriori”, che si configurino come sintomi dello stato di insolvenza. Lo stato di insolvenza può essere
dedotto da qualsiasi manifestazione esteriore che riveli in modo univoco l’impossibilità per il debitore di
adempiere le proprie obbligazioni. Tra gli “altri fatti” che possono rivelare il dissesto dell’imprenditore sono
da segnalare i fatti elencati dall’art. 7 (fuga, irreperibilità o latitanza dell’imprenditore, chiusura dei locali
dell’impresa, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore). A
questi vanno aggiunti il suicidio del debitore, l’alienazione in blocco dei beni di proprietà dell’imprenditore,
la presenza di uno sfratto per morosità e la mancata esecuzione di una sentenzia in materia di lavorio.
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Diritto Fallimentare 5. Il fulcro della nozione di “stato di insolvenza”: l’incapacità di far
fronte regolarmente alle obbligazioni
Alla luce delle considerazioni sin qui formulate, per integrare lo stato di insolvenza non occorre
necessariamente la materiale cessazione dei pagamenti. In particolare, il fallimento può essere dichiarato
anche qualora l’imprenditore adempia alle proprie obbligazioni, ma i relativi pagamenti siano stati effettuati
con mezzi rovinosi o fraudolenti.
Il fulcro della nozione di insolvenza fornita dall’art. 52 è costituito dall’incapacità dell’imprenditore di far
fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.
È proprio in riferimento a questo concetto che acquista significato la distinzione tra insolvenza civile ed
insolvenza commerciale, la prima statica e la seconda dinamica.
Inoltre, assume rilevanza il significato da attribuire al concetto di regolarità nell’adempimento. A tal
proposito le posizioni sono differenti. Secondo alcuni interpreti, potrebbero trovare applicazione i principi
sull’adempimento delle obbligazioni in generale che definiscono “l’esatto adempimento”.
Secondo altri, la regolarità consisterebbe nell’impiego di mezzi tratti dall’ordinario esercizio dell’impresa.
Infine, alcuni affermano che la regolarità andrebbe valutata in relazione all’idoneità del patrimonio del
debitore al soddisfacimento delle ragioni dei creditori.
Le diverse posizioni non sembrano compatibili tra loro, ma tutte idonee a contribuire alla formulazione di
una adeguata valutazione complessiva della regolarità.
Una considerazione particolare merita la relazione che vi è tra stato di insolvenza e squilibrio patrimoniale.
La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’escludere l’applicabilità della tesi della corrispondenza
automatica ai fini probatori tra sbilancio patrimoniale e stato di insolvenza. Si sostiene che l’eccedenza del
passivo sull’attivo ha solo valore indiziario di una situazione di insolvenza e, quindi, non costituisce un
sintomo univoco di una situazione di definitivo dissesto (es: un’impresa con uno sbilancio cronico ma che
dispone di un consistente credito bancario e commerciale). Viceversa, si sostiene che l’eccedenza dell’attivo
sul passivo non sia di per sé idonea ad escludere la sussistenza dello stato di insolvenza.
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Diritto Fallimentare 6. Casistica
Al fine di rendere più agevole la comprensione del procedimento di verifica della sussistenza dello stato di
insolvenza, si ritiene opportuno riferire in merito ad alcune tra le frequenti situazioni affrontate dalla
giurisprudenza.
Non si considera integrata la prova dello stato in insolvenza qualora l’inadempienza risulti giustificata dalla
“contestazione del credito” o dalla “pendenza della lite” in relazione a quel credito, sempre che i motivi
della contestazione non siano palesemente infondati.
L’esistenza di procedure esecutive o di numerosi protesti non sono indici assoluti dello stato di insolvenza,
ma hanno valore solamente presuntivo.
Lo stato di insolvenza può essere escluso in presenza di un accordo stragiudiziale che contempli un “pactum
de non petendo” (atto di rinuncia al credito del creditore), ove esso risulti idoneo a rimuovere l’incapacità di
adempimento delle obbligazioni con riferimento al momento del giudizio circa la dichiarazione di
fallimento, a conclusione dell’indagine sull’entità e scadenza delle posizioni creditorie residue rimaste
estranee all’accordo dilatorio.
La cessione d’azione accompagnata dalla liberazione da parte dei creditori a favore del debitore cedente non
elimina l’insolvenza di quest’ultimo.
La capacità di conseguire un profitto non esclude l’insolvenza in presenza di un’esposizione debitoria che
detto profitto non è in grado di ripianare.
Infine, la Corte di Cassazione ha di recente affermato che la dichiarazione di fallimento non può essere la
conseguenza di una “condotta abusiva” da parte di un singolo creditore ed è preclusa qualora lo stato di
insolvenza sia stato determinato causalmente da un suo comportamento improntato a malafede.
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Diritto Fallimentare 7. L’insolvenza delle società e dei gruppi di imprese (rinvio)
In relazione all’accertamento dello stato di insolvenza di un’impresa organizzata in forma di società trova
applicazione la medesima disciplina illustrata fin qui. È evidente che in considerazione della struttura
organizzativa tipica dell’impresa societaria (delle società di capitali in particolare), potrà essere più agevole
provare la sussistenza dello stato di insolvenza ricorrendo allo strumento del bilancio d’esercizio.
Va infine precisato che l’appartenenza dell’impresa ad un gruppo non assume particolare rilevanza ai fini
dell’accertamento dello stato di insolvenza, che deve avvenire con esclusivo riguardo all’impresa
singolarmente considerata, non essendovi nell’ordinamento una nozione di “insolvenza di gruppo”.
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Diritto Fallimentare 8. Rapporto tra “stato di insolvenza” e “crisi” dell’impresa
La riforma della legge fallimentare ha introdotto, accanto al concetto di “stato di insolvenza”, quello di
“stato di crisi”. Il nuovo art. 160, in materia di concordato preventivo, riconosce la legittimazione a
formulare ai creditori una proposta concordataria all’imprenditore “che si trova in stato di crisi”. L’ultimo
comma del suddetto articolo precisa che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
Le ragioni di tale scelta sono da ricondurre alla necessità di consentire l’accesso alle procedure concorsuali
alternative al fallimento anche all’imprenditore che si trovi in una situazione meno grave rispetto allo stato
di insolvenza al fine di agevolare l’emersione dello stato di crisi, con anticipo rispetto a quanto si verifica
con la dichiarazione di fallimento.
Dunque, tra crisi ed insolvenza si crea un rapporto che tende a configurare l’insolvenza come una forma più
grave di crisi lasciando irrisolte le questioni interpretative sul significato da attribuire al concetto di
“temporanea difficoltà” , che costituiva il presupposto oggettivo per l’accesso all’amministrazione
controllata. Quest’ultima, abrogata con dlgs 5/2006, consentiva la conservazione dell’impresa ed il suo
risanamento. Ad oggi, questa funzione è svolta sia da nuovo concordato preventivo sia dalla nuova
procedura introdotta dall’art. 182 bis in tema di ristrutturazione del debito.
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Diritto Fallimentare 9. Il presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento:
l’imprenditore assoggettable al fallimento e al concordato
preventivo
Secondo l’impostazione accolta dalla nostra legge fallimentare è sottoponibile ad una delle procedure
concorsuali, esclusivamente chi eserciti un’impresa (commerciale). Quindi è da escludere dall’ambito di
applicazione la categoria dei liberi professionisti che non è ritenuto “imprenditore” dal nostro ordinamento.
Chi non è imprenditore non potrà essere così sottoposto ad alcuna delle procedure concorsuali ed i creditori
potranno esercitare azione esecutive individuali per la soddisfazione dei propri crediti. L’art. 11 l. fall.
Afferma che può essere dichiarato fallito, o essere ammesso al concordato preventivo, l’imprenditore
commerciale non piccolo di natura privata. L’imprenditore agricolo non può essere assoggettato, quindi, alle
procedure concorsuali. Va precisato che è sottoponibile al fallimento l’imprenditore individuale tanto quanto
le società e, in particolare, nelle società di persone, il fallimento della società produce il fallimento dei
singoli soci illimitatamente responsabili.
In base a quanto disposto dall’art. 11, non sono sottponibili alle procedure concorsuali né il piccolo
imprenditore, né l’ente pubblico, né l’imprenditore agricolo. Comunque, non tutti gli imprenditori
commerciali sono assoggettabili alle suddette procedure (fallimento e concordato preventivo).
Secondo il legislatore alcune imprese, per la loro rilevanza per l’economia nazionale e per la molteplicità
degli interessi che coinvolgono, non devono, in caso di insolvenza, essere dichiarate fallite. Ai sensi dell’art.
2 l. fall. sono sottratte al fallimento le imprese che, sulla base di leggi speciali di settore, sono soggette in via
esclusiva alla liquidazione coatta amministrativa (es: banche, cooperative edilizie, imprese di assicurazione,
consorzi agrari). Le imprese escluse dal fallimento sono tuttavia sottoponibili al concordato preventivo (art.
3 l. fall.).
Ai sensi dell’art. 196 l. fall. vi sono imprese che possono essere assoggettate, in caso di insolvenza,
indifferentemente ad una delle due procedure (fallimento o liquidazione coatta amministrativa). In
quest’ultimo caso, la procedura aperta per prima esclude l’altra (c.d. principio della prevenzione). Queste
imprese possono essere ammesse sia al concordato preventivo, che potrà essere convertito sia in
liquidazione coatta amministrativa sia in fallimento. Tra le imprese assoggettabili a tale regime vi sono le
società cooperative che esercitano attività commerciale, i consorzi di cooperative, ecc…
Un’altra categoria di imprese sottratte al fallimento è costituita dalle grandi e grandissime imprese. Per esse,
quando vi è uno stato di insolvenza, il nostro ordinamento prevede l’amministrazione straordinaria.
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Diritto Fallimentare 10. La nozione di imprenditore. Il requisito della professionalità
L’art. 1 l. fall. dispone l’assoggettabilità dell’imprenditore commerciale al fallimento e concordato
preventivo ma, allo stesso tempo, non indica alcuna autonoma configurazione di tale soggetto. È necessario
quindi far riferimento alla nozione civilistica fornita dall’art. 2082 cc, secondo cui è imprenditore chi
esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di
beni o di servizi, e all’art. 2195 cc che fornisce l’elenco delle attività commerciali.
Rispetto a ciò, il requisito della professionalità è individuato sulla base di un’attività abituale, stabile e
sistematica. L’attività esercitata occasionalmente, a meno che l’affare non appaia di particolare complessità
in relazione sia agli strumenti utilizzati sia al risultato economico, non costituisce impresa e quindi non è
assoggettabile al fallimento. Il requisito della professionalità sussiste anche quando vi è attività stagionale in
quanto ripetuta con una cadenza temporale fissa presentando i caratteri dell’abitualità, stabilità e
sistematicità.
Inoltre, la professionalità non implica che quell’attività sia l’unica svolta dal soggetto in quanto si possono
esercitare più attività, tutte o meno configurabili come imprese.
Se l’attività è diretta al compimento di un unico affare, si esclude la qualifica di impresa a meno che la
consistenza e la complessità dell’affare abbiano comportato un’organizzazione rilevante che ha operato per
un lungo periodo al fine di ottenere la produzione di quell’unico prodotto.
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Diritto Fallimentare 11. La nozione di imprenditore. L’esercizio di un’attività economica
È imprenditore chi esercita un’attività economica. È tale l’attività produttrice in senso ampio, potendovi
ricomprendere anche lo scambio inteso come spostamento nello spazio e nel tempo di beni. Vi è attività di
mero godimento, e non attività economica, ogni volta che vi sia un soggetto che si limita a percepire i frutti
di un bene (locazione di beni immobili da parte del proprietario). Se alla locazione si affianca un’attività di
produzione di servizi rivolta al mercato, allora chi l’esercita assume la qualifica di imprenditore.
Essenziale per l’attività economica è l’offerta al mercato diretta o indiretta dei beni e servizi prodotti.
Tuttavia non è impresa l’attività che produce beni o servizi ad un certo costo in vista dell’ottenimento di un
certo ricavo. Non è quindi impresa la c.d. impresa per conto proprio, quando il soggetto produce un bene che
va a soddisfare esclusivamente bisogni propri.
La qualifica di imprenditore non legata al tipo di bene o di servizio offerto al pubblico né alla particolare
configurazione giuridica del bene.
Talvolta è intervenuto il legislatore stesso ad escludere che lo svolgimento di certe attività, che pur
costituendo prestazione di servizi, attribuisca la qualifica di imprenditore. L’art. 22382 cc esclude
l’applicazione al professionista delle disposizioni relative all’imprenditore. Per scelta legislativa, la
prestazione del libero professionista non è servizio nel senso dell’art. 2082 cc in quanto si tratta di attività
intellettuale. Ovviamente, il coordinamento dell’attività di vari professionisti stipendiati e l’offerta sul
mercato delle loro prestazioni o del frutto delle loro prestazioni realizza un’attività di impresa e chi la
esercita diviene imprenditore.
Per orientamento consolidato, è riconosciuta la qualifica di impresa alla holding che gestisce le
partecipazioni nelle società del gruppo, concepisce e impartisce le linee gestionali per una politica unitaria,
effettua finanziamenti e concede garanzie. Da queste attività, si può riconoscere alla holding la natura di
impresa nonostante non svolga direttamente attività di produzione di beni o di servizi.
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Diritto Fallimentare 12. La nozione di imprenditore. L’impresa è “attività organizzata”
L’art. 2082 cc indica tra le caratteristiche dell’attività svolta dall’imprenditore quella dell’organizzazione.
Da un lato deve trattarsi di un’attività che risulta dal compimento di una serie di atti, di varia natura,
coordinati tra loro e finalizzati al raggiungimento di uno stesso risultato. Da un altro lato il soggetto dovrà
organizzare tra loro anche diversi strumenti di produzione per ottenere quel certo prodotto o servizio.
L’attività, per essere organizzata, occorre che l’imprenditore crei un complesso produttivo composto da
persone e da beni strumentali (macchinari). Infatti si parla di azienda come il complesso dei beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (2555).
Tuttavia è imprenditore anche chi opera senza l’aiuto delle prestazioni lavorative altrui. (come un gioielliere
che gestisce da solo la gioielleria). La conclusione è che l’organizzazione può essere anche solo
organizzazione di soli capitali e del proprio lavoro.
Inoltre non è necessario che l’attività organizzativa si concretizzi in un’azienda, cioè un apparato composto
di beni strumentali coordinati per cui sono imprenditori anche coloro che esercitano l’attività senza l’ausilio
di collaboratori.
Per alcuni la semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata
organizzazione di tipo imprenditoriale e in mancanza di un coefficiente minimo di eteroorganizzazione deve
negarsi l’esistenza d’impresa. Per altri l’imprenditore è anche il lavoratore autonomo. In conclusione un
minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è necessario per aversi impresa. In mancanza si avrà
semplice lavoro autonomo non imprenditoriale.
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Diritto Fallimentare 13. La nozione di imprenditore. Lo scopo di lucro
L’art. 2082 cc non indica lo scopo di lucro come elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di
imprenditore. Gli interpreti confrontano la nozione codicistica con quella economica. Innanzitutto ci sono
diverse accezioni di “lucro”. Per lucro può intendersi quella somma che residua una volta che con le entrate
sono stati coperti i costi di produzione e che può essere impiegata a discrezione dell’imprenditore per
remunerare l’attività svolta e per rischio o per reinvestirla nell’impresa. Più in senso stretto, l’attività
lucrativa è quella che copre i costi con i ricavi.
Se ci si fermasse a queste interpretazioni, dovrebbe negare la qualifica di imprese ad attività nel cui esercizio
non si ravvisa alcuno scopo di lucro (come nelle società cooperative). Da questo punto di vista, le società
cooperative dovrebbero essere escluse dall’ambito di applicazione delle procedure concorsuali. Tuttavia,
l'art. 2545 cc prevede la sottoponibilità delle cooperative, in caso di insolvenza, a liquidazione coatta
amministrativa mentre dispone un c.d. doppio binario (fallimento o liquidazione coatta amministrativa), che
si risolve in base al principio di prevenzione, per le cooperative che svolgono attività commerciale.
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Diritto Fallimentare 14. La liceità come requisito essenziale perchè ad un attività
economica sia riconosciuta natura di impresa
La qualità di imprenditore deve essere riconosciuta anche quando l’attività venga considerata illecita.
Le imprese illecite si dividono in due grandi categorie:
a. imprese illegali (con fine illecito) cioè quelle esercitano attività svolte irregolarmente (cc. dd. Attività
abusive) perché gestite senza autorizzazione o licenze ma che comunque consentono di essere considerati
imprenditori e, quindi, assoggettabili alle procedure concorsuali in caso di insolvenza (banca che esercita
attività senza le prescritte autorizzazioni);
b. imprese immorali cioè quelle in cui l’oggetto dell’attività è illecito come il contrabbando di sigarette o
spaccio di droga. Queste non consentono il riconoscimento di imprenditori;
c. attività che hanno oggetto lecito durante la cui gestione vengono posti in essere singoli atti illeciti. Questa
è certamente un’impresa e per gli atti illeciti sarà chiamato a rispondere l’imprenditore.
In questo caso, la giurisprudenza ha cercato di riconoscere la natura di impresa a certe attività illecite ma
sempre al limitato fine della dichiarazione di fallimento mentre ha negato che il soggetto che le abbia
compiute possa usufruire delle norme componenti lo statuto dell’imprenditore commerciale favorevoli nei
confronti dei terzi.
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Diritto Fallimentare 15. L’imprenditore commerciale. Il c.d. imprenditore civile
Dalla lettura dell’art. 1 l. fall. emerge che il “soggetto” delle procedure concorsuali è l’imprenditore
commerciale. La norma, sottraendo al fallimento chi non è imprenditore commerciale, impone la
delimitazione dell’ambito di applicazione e, quindi, l’esatta individuazione della categoria “imprenditore
commerciale”. In questo senso, il codice civile non è di aiuto in quanto non contiene una definizione vera e
propria di imprenditore commerciale ma fornisce un elenco di attività da considerarsi commerciale. A tal
proposito, l’art. 2195 cc considera attività commerciali:
- attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi;
- attività intermediaria nella circolazione dei beni;
- attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
- attività bancaria o assicurativa;
- altre attività ausiliarie alle precedenti.
Dall’articolo emerge che il soggetto che esercita una di queste attività è sottoposto all’obbligo di iscrizione
nel registro delle imprese e, parte della dottrina ha ritenuto che la nozione di imprenditore commerciale
fosse aderente a quanto disposto.
Tuttavia, l’art. 2195 n° 1, che fa riferimento all’attività di produzione di beni o di servizi, prende in
considerazione solo quell’attività svolta in forma industriale. Per attività di produzione industriale si intende
quella non agricola. Lo stesso articolo, al n° 5, considera solo le attività ausiliarie alle “precedenti”. In
questo modo, sono escluse dalla categoria delle imprese commerciali le attività di produzione di servizi in
forma non industriale (scuole, imprese di spettacoli, etc…) e le attività ausiliarie di attività non commerciali
(il mediatore agricolo). Questo tipo di attività potrebbero costituire un terzo genere di imprese: le cc.dd.
imprese civili di cui la disciplina dell’impresa non tratta. Tuttavia, l’opinione maggioritaria è tendente a
negare l’esistenza di tale categoria di imprenditori né commerciali, né agricoli.
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Diritto Fallimentare 16. Come si identifica l’imprenditore
L’esercizio di attività di impresa può dar luogo ad un fenomeno in cui vi è dissociazione tra il “soggetto cui
è applicabile la disciplina dell’imprenditore” ed il “reale interessato”.
Questo è il fenomeno dell’esercizio dell’impresa interposta persona.
Altro è il soggetto che compie in nome proprio gli atti di impresa, cioè l’imprenditore palese o prestanome.
Altro è il soggetto che somministra all’imprenditore prestanome i mezzi finanziari necessari, dirige di fatto
l’impresa e fa propri i guadagni (dominus dell’impresa) e che non appare come imprenditore nei confronti
dei terzi. Quest’ultimo è detto imprenditore occulto.
Questo sistema consente di aggirare un divieto di legge (divieto per gli impiegati di Stato di esercitare
attività di impresa) e per non esporre al rischio di impresa l’intero patrimonio personale. Così si costituisce
assieme ad un amico compiacente una società per azioni dotandola di un modesto capitale. Gli atti saranno
decisi dagli amministratori della società e compiuti in nome della società (imprenditore palese) ma in
sostanza sono decisi dal socio di maggioranza, ovvero l’imprenditore occulto.
Questo apparato non crea problemi fino a quando gli affari vanno bene e i creditori sono soddisfatti
regolarmente dall’imprenditore palese.
I problemi sorgono quando l’imprenditore occulto sia una persona nullatenente. È normale che i creditori
potranno far fallire il prestanome che, agendo in nome proprio, ha acquistato la qualità di imprenditore
commerciale. Tuttavia dal fallimento i creditori potranno ricavarne ben poco e quindi il rischio di impresa
dell’imprenditore occulto viene trasferito sui creditori.
Per porre un rimedio parte della dottrina ha affermato di poter bloccare i pericoli per i creditori. Questa ha
affermato che nel nostro ordinamento giuridico vige il principio dell’inscindibilità potere-responsabilità: chi
esercita il potere di direzione di un impresa se ne assume anche il rischio e, delle obbligazioni contratte con i
terzi, rispondono sia il prestanome sia il dominus (imprenditore occulto). Quindi quest’ultimo acquista la
qualità di imprenditore e può fallire qualora fallisca anche il prestanome.
La teoria dell’imprenditore occulto ha riscontrato però scarsi consensi. Fondandosi sul collegamento potere-
responsabilità non ha né un fondamento normativo, ma inoltre è smentita dai principi che regolano le società
di capitali.
In queste vi è un gruppo di soci che di fatto controlla e dirige la società. Ma gli azionisti non sono chiamati
dal legislatore a rispondere dei debiti della società. Ciò conferma che il dominio di fatto di un’impresa
individuale o società di capitali non é condizione di responsabilità e fallimento e di acquisto della qualità di
imprenditore.
Sono state proposte diverse tecniche per affermare la responsabilità ed il fallimento di chi abusi della
posizione di dominio su una società di capitali.
Secondo la giurisprudenza è frequente che il socio di comando di una società di capitali non si limiti solo ad
esercitare i poteri riconosciuti dalla legge, ma consideri la società una cosa propria adottare alcuni
comportamenti come finanziare sistematicamente la società mediante prestiti o con la concessione di
garanzie a proprio favore, sistematica ingerenza negli affari sociali, ecc…
A tal punto la giurisprudenza considera che questi comportamenti possano dar vita ad un’autonoma attività
di impresa (società fiancheggiatrice). Pertanto chi abusa in questo senso è titolare di un’autonoma attività
commerciale e risponde delle obbligazioni da lui contratte nello svolgimento dell’attività fiancheggiatrice e
potrà sempre fallire.
Questa tecnica offre una tutela ai creditori che hanno il diritto di agire contro il titolare della società
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare fiancheggiatrice. Infatti, in seguito a fallimento, la società di capitali potrebbe chiedere alla società
fiancheggiatrice denaro per far fronte alle obbligazioni contratte nel suo interesse.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 17. L’inizio dell’attività d’impresa
Nel nostro ordinamento vige il principio dell’effettività. Secondo questo principio la qualità di imprenditore
si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa. Quindi non è sufficiente l’intenzione
di dare inizio all’attività, né gli atti preparatori per l’esercizio dell’attività. Tuttavia, secondo un indirizzo
giurisprudenziale prevalente, potrà fallire, se insolvente, solo chi abbia iniziato a produrre beni e non chi
abbia, per esempio, acquistato i macchinari, i mobili per gli uffici, locato un capannone…
La dottrina, con una giurisprudenza minoritaria, ha eccepito l’incongruità di questa soluzione che distingue i
creditori di chi è già imprenditore e chi sta per diventarlo affermando che gli atti organizzativi posti i essere
sono analoghi a quelli che l’imprenditore compierà nel corso dell’impresa quando amplierà l’organizzazione
esistente. In quest’ultima ipotesi, nessuno nega a quegli atti la qualifica di atti d’impresa ed al soggetto che li
ha posti in essere la qualifica di imprenditore. In verità, l’impresa si compone di atti di organizzazione e di
gestione, che non possono esservi ove manchino i primi. L’orientamento giurisprudenziale che nega la
qualifica di imprenditore a chi ha predisposto l’organizzazione senza aver iniziato la gestione dell’impresa
appare insoddisfacente.
Il principio dell’effettività non crea problemi per le persone fisiche. Diverso è il discorso per le società. Le
società commerciali sono sottoponibili alle procedure concorsuali solo se gli viene riconosciuta la qualifica
di imprenditore. Si è discusso se la qualifica di imprenditore sia acquistata dal momento della costituzione o
se è necessario l’esercizio effettivo dell’attività commerciale.
È opinione comune che le società acquisterebbero la qualità di imprenditori dal momento della loro
costituzione e quindi prima dell’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa in quanto l’atto
costitutivo da iscrivere nel registro delle imprese viene considerato come atto di organizzazione e, in quanto
tale, come atto di impresa che sancisce l’inizio dell’impresa commerciale.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 18. La cessazione dell’impresa e la morte dell’imprenditore
L’ordinamento sancisce che la cessazione dell’attività o la morte dell’imprenditore non debbono ledere il
soddisfacimento dei creditori sorti per l’esercizio dell’impresa e non pagati durante lo svolgimento della
stessa. Il mancato soddisfacimento dei creditori, però, non può costituire sintomo di uno stato di insolvenza.
dalla previsione per cui la cessazione dell’attività non esclude la responsabilità dell’imprenditore, ne
discende che si potrà avere il fallimento di un imprenditore o di una società non più attiva. Così, nel caso in
cui le obbligazioni contratte non possano essere soddisfatte regolarmente, si potrà accertare lo stato di
insolvenza e dichiarare il fallimento.
Se la tutela dei creditori merita tale previsione, è necessario porre un limite temporale oltre il quale non si
possa più invocare tale tutela. In questo senso, l’art. 10 l. fall. fissa un preciso arco temporale oltre il quale
non potrà essere chiesto il fallimento di un’impresa cessata così da tutelare anche coloro che entrino in
contatto con l’imprenditore cessato.
L’apertura della procedura fallimentare è condizionata dal fatto che l’insolvenza si sia manifestata già prima
della cessazione dell’impresa o della morte dell’imprenditore o entro l’anno successivo e che essa sia
relativa ad obbligazioni contratte per l’esercizio dell’impresa (artt. 10 e 11 l. fall.). Tuttavia, è importate
sapere quando un’impresa deve considerarsi cessata in quanto da quella data decorre l’anno entro cui può
essere dichiarato il fallimento. I creditori rimasti insoddisfatti potranno chiedere il fallimento che sarà
dichiarato se risulta che l’insolvenza già esisteva, anche se non denunciata o ancora manifestata. In questi
casi, si presume che l’insolvenza sia da ricollegarsi alla gestione di quell’impresa. Sotto questo profilo, l’art.
10 l. fall. tutela i creditore dell’impresa che potrebbero essere pregiudicati dall’improvvisa cessazione
dell’attività.
Come l’inizio, anche la fine dell’impresa è segnata dal principio dell’effettività. Infatti la qualità di
imprenditore si perde con l’effettiva cessazione dell’attività di impresa. Gli avvisi al pubblico, al
cancellazione dai registri non determinano la perdita della qualità di imprenditore.
L’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività di impresa ha rilievo per l’imprenditore
commerciale in quanto l’art. 10 legge fall prevede può essere dichiarato fallito entro un anno dalla
cessazione dell’attività.
A tal proposito è da dire che la fine dell’impresa è preceduta da una fase di liquidazione durante la quale si
completano i cicli produttivi già iniziati, si vendono le giacenze di magazzino, si licenziano i dipendenti. Ora
la fase di liquidazione non fa perdere la qualità di imprenditore in quanto costituisce ancora attività di
impresa. La qualità di imprenditore di imprenditore si perde con la chiusura della fase di liquidazione. Tale
chiusura si verifica con la definitiva disgregazione del complesso aziendale anche se non sono stati pagati
tutti i debiti.
Quanto alle imprese societarie la situazione è diversa. Per le società, la cancellazione dal registro delle
imprese occorre sia la disgregazione dell’azienda, sia l’integrale pagamento delle passività ad opera dei
liquidatori. Quindi la cancellazione determina la fine dell’impresa societaria. Dopo la cancellazione ai
creditori che esigono una qualche pretesa dalla società, risponderanno gli ex soci ed i liquidatori.
Secondo la giurisprudenza le società, anche se cancellate dal registro delle imprese, erano ritenute ancora
esistenti e quindi esposte al fallimento, fino a quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. Quindi una
società poteva essere dichiarata fallita a distanza di anni dalla cessazione dell’attività e dalla cancellazione.
Quindi l’art. 10 legge fall non è valido.
Su questa situazione la Corte costituzionale è intervenuta nel 2000 dichiarando l’illegittimità costituzionale
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare dellàart. 10 l. fall. nella parte in cui prevedeva il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di
un’impresa collettiva decorresse dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che
dalla cancellazione della società dal registro delle imprese. Tuttavia, intervenendo una seconda volta, la
Corte costituzionale affermò l’infondatezza della questione di incostituzionalità dell’art. 10 l. fall. nella parte
in cui non prevedeva che la sentenza di fallimento dell’imprenditore individuale potesse essere pronunciata
entro un anno dall’iscrizione della cessazione nel registro delle imprese. Questi principi sono stati introdotti
anche nella riforma societaria del 2003: a tal proposito, l’art. 24952 cc sancisce che la cancellazione dal
registro delle imprese determina l’estinzione della società. Così, oggi, l’art. 10 l. fall. fa decorrere il termine
annuale per la dichiarazione di fallimento per gli imprenditori individuali e collettivi, dalla data
dell’iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese. Tuttavia, i debitori possono provare in sede di
istruttoria prefallimentare che, nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, l’attività non è cessata.
Infine, nell’art. 11 è disciplinata la fattispecie del fallimento dell’imprenditore defunto. La procedura
concorsuale può essere dichiarata, su domanda dell’erede o dei creditori, entro un anno dalla morte del
soggetto se l’insolvenza si sia già manifestata o si sveli entro quell’arco temporale. L’accettazione
dell’eredità, con beneficio d’inventario, non è di ostacolo alla dichiarazione di fallimento. Anzi, nel caso in
cui l’erede sia già imprenditore commerciale o lo diventi subentrando nell’impresa del defunto, può aversi,
oltre al fallimento del defunto stesso, anche quello dell’erede.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 19. L’imprenditore incapace
È imprenditore colui al quale l’impresa è imputabile. Perché un’impresa si possa ritenere imputabile ad un
soggetto occorre che egli abbia la capacità di agire in quanto l’esercizio dell’attività commerciale
presuppone il compimento di una serie di atti giuridici.
Inoltre, la legge dispone che l’impresa imputabile al minore, all’inabilitato o all’interdetto sia però gestita
dal legale rappresentante nominato dal tribunale.
La disciplina in materia è rivolta da un lato ai minori, agli inabilitati e agli interdetti i quali potranno essere
autorizzati dal tribunale a proseguire (ma non ad iniziare) l’impresa loro pervenuta, e dall’altro ai minori
emancipati che, viceversa, potranno essere autorizzati ad iniziare un’attività economica.
Se l’impresa dell’incapace autorizzato alla continuazione cada in stato di insolvenza e sia sottoposta al
fallimento, vi sarà una diversificazione della produzione degli effetti che tale sentenza determina in capo al
debitore. Gli effetti di natura patrimoniale ricadranno sull’imprenditore (ovvero l’incapace cui è imputabile
l’attività) mentre quelli di natura personale colpiranno chi ha gestito l’impresa, ovvero il legale
rappresentante. La soluzione sembra giuridicamente comprensibile. Infatti, da un lato all’incapace non
possono essere ricondotte le conseguenze dannose derivanti da atti e negozi posti in essere dal gestore e,
logicamente, è corretto che gli effetti di natura personale propri del fallimento ricadano solo su chi ha gestito
l’impresa; dall’altro lato, però, i creditori debbono, secondo la disciplina fallimentare, potersi soddisfare su
tutto il patrimonio dell’imprenditore e, in questo caso, il titolare dell’impresa è senza dubbio l’incapace che
fallisce e sopporta gli effetti di natura patrimoniale prodotti dal fallimento.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 20. L’impresa familiare
La gestione di un’impresa può essere svolta o da un solo individuo o da più individui: nel primo caso si
parla di impresa individuale, nel secondo caso di impresa societaria. L’imprenditore potrà, comunque,
sempre avvalersi dell’ausilio di altri soggetti legati a lui o da rapporti di lavoro subordinato o da vincoli di
parentela. In entrambi i casi, il rischio di impresa ricade solo sull’imprenditore. I soggetti collaboratori non
sono imprenditori e, quindi, potranno rischiare solo che l’impresa cessi per scelta dell’imprenditore o per lo
stato di insolvenza che determina l’apertura di una procedura concorsuale liquidativa.
Particolarmente interessante è la fattispecie dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230 bis cc introdotto
dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
E’ impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai
nipoti) e gli affini fino al secondo (fino ai cognati) dell’imprenditore (famiglia nucleare).
La riforma del diritto di famiglia del 1975 è stata utile per eliminare quegli abusi sul lavoro familiare
considerando offerto a titolo gratuito. Così il legislatore ha voluto offrire una tutela minima al lavoro
familiare riconoscendo ai membri della famiglia che lavorino in modo continuato nell’impresa una serie di
diritti patrimoniali e diritti amministrativi.
E’ impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai
nipoti) e gli affini fino al secondo (fino ai cognati) dell’imprenditore (famiglia nucleare).
Secondo l’indirizzo prevalente, essa è un’impresa individuale riferibile soltanto all’imprenditore che opera
scelte e ne sopporta il rischio e, in caso di insolvenza, la procedura concorsuale che sarà instaurata colpirà
solo l’imprenditore e non il familiare che, secondo la disciplina prevista dall’art. 230 bis cc, non può
considerarsi socio dell’imprenditore.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 21. L’impresa coniugale
L’art. 178 cc, introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975, disciplina l’appartenenza dei
beni destinati all’esercizio dell’impresa, costituita dopo il matrimonio e di cui è titolare un solo coniuge. La
norma stabilisce che tali beni, assieme agli incrementi dell’impresa, anche se costituita prima del
matrimonio, confluiscano nella comunione legale in quanto sussistano al momento dello scioglimento di
questa. La norma è diretta a disciplinare specifici aspetti economici della comunione legale quando uno dei
due coniugi sia imprenditore. Ci si trova davanti ad un’impresa individuale il cui rischio ricade su chi la
gestisce. Quindi, solo il coniuge imprenditore sarà sottoposto, in caso di insolvenza, a fallimento.
L’art. 177 cc disciplina il contenuto della comunione legale tra coniugi ed individua due fattispecie. Si tratta
di due ipotesi di gestione congiunta. Nel caso previsto dall’art. 177 cc, lett. D, l’azienda è stata costituita
dopo il matrimonio da entrambi i coniugi e, così, cade in comunione insieme agli utili e agli incrementi.
Nell’altro caso previsto dall’art. 1772 cc, l’azienda è stata costituita da uno dei due coniugi prima del
matrimonio e, pertanto, cadranno in comunione solo gli utili e gli incrementi.
In questo senso, il legislatore del 1975 non introduce alcuna regolamentazione tipica sul fronte del diritto
dell’impresa e delle società. L’art. 177, lett. D, prevede le conseguenze sul piano del diritto di famiglia, della
gestione collettiva di un’impresa: i coniugi hanno costituito tra loro una società per la gestione di
quell’impresa; entrambi sostengono il rischio della società che sarà sottoponibile, se insolvente, al
fallimento; se vi è una società di persone, i coniugi hanno responsabilità illimitata e, di conseguenza,
potranno fallire assieme alla società.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 22. Il fallimento dell’imprenditore fallito
Al fallito non è precluso di esercitare, durante il fallimento, un’altra attività d’impresa quando abbia a
disposizione beni personali sottratti allo spossessamento.
Se il fallito diventa nuovamente insolvente rispetto alla “nuova” attività, potrà essere dichiarato fallito in
quando non vi è alcuna norma che lo escluda. Piuttosto, questa seconda procedura potrebbe avere a
disposizione una minima massa attiva. Il fallimento aperto per primo avrà, infatti, appreso tutte le attività
conseguite da quell’esercizio.
Davanti a questo fenomeno, la giurisprudenza tende a negare l’avvio di una seconda procedura per la
mancanza di un patrimonio del fallito e, quindi, di convenienza per i creditori concorsuali. Secondo la
soluzione più soffi sfacente, per aprire una seconda procedura è necessario attendere la conclusione della
prima.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 23. Gli imprenditori esclusi dal fallimento: l’imprenditore agricolo
L’art. 1 l. fall. esclude l’imprenditore agricolo dall’ambito di applicazione del regime concorsuale.
Il testo originario dell’art. 2135 cc stabiliva che “è imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano
connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano
nell’esercizio normale dell’agricoltura”.
Così le attività agricole possono distinguersi in due grandi categorie: attività agricole essenziali e attività
agricole per connessione. Tale distinzione è stata mantenuta anche dal nuovo art. 2135.
Coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame hanno subito una profonda evoluzione dal
1942 in quanto si passa da un’agricoltura naturale fondata sulla lavorazione della terra ad un’agricoltura
industrializzata in cui vengono utilizzati prodotti chimici per accelerare i cicli biologici. Così il progresso
tecnologico consente di ottenere prodotti agricoli con metodi che prescindono totalmente dallo sfruttamento
della terra (coltivazioni artificiali, allevamenti in batteria).
Prima della riforma del 2001 con dlgs vi erano due teorie:
- una estensiva che affermava che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali ed
animali indipendentemente dalle modalità di produzione;
- una restrittiva che affermava che i modi di produzione dovevano essere necessariamente collegati allo
sfruttamento della terra e, chi produceva specie vegetali o animali in modo svincolato dallo sfruttamento
della terra, doveva essere considerato imprenditore commerciale.
Al momento della riforma il legislatore adottò la prima tesi.
Così l’attuale art. 2135 stabilisce che “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:
coltivazione diretta del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Nel secondo comma
si specifica che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamenti di animali si intendono le
attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di
carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre
o marine”.
In base alla nuova nozione, la produzione di specie vegetali ed animali deve essere considerata attività
agricola essenziale anche se realizzata con metodi svincolati dallo sfruttamento della terra.
Nella coltivazione del fondo rientrano l’orticoltura, le coltivazioni in serra o in vivai, la floricoltura.
Quanto alla selvicoltura occorre che il bosco sia curato per ricavarne i relativi prodotti.
Quanto all’allevamento di animali è da ricordare che il vecchio art. 2135 usava la parola “bestiame” in
quanto è attività agricola anche l’allevamento di cavalli da corsa, animali da pelliccia, di gatti, da cortile.
Infine l’imprenditore agricolo è stato equiparato all’imprenditore ittico che esercita “l’attività di pesca
professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci”.
Il vecchio art. 2135 stabiliva che le attività agricole per connessione sono quelle dirette alla trasformazione
ed all’alienazione di prodotti agricoli e tutte le altre attività esercitate in connessione alla coltivazione del
fondo, alla silvicoltura e l’allevamento del bestiame.
Nel nuovo art. 2135 questa distinzione è scomparsa ed il terzo comma estende i tipi di attività connesse
- le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione
di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;
- le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse
impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare rurale e forestale e le attività agrituristiche.
Un’attività, per essere qualificata come agricola per connessione, occorre che vi siano due tipi di
connessione:
- connessione soggettiva: quando il soggetto che esercita l’attività connessa eserciti già quella essenziale;
- connessione oggettiva: quando l’attività ha per oggetto beni derivanti prevalentemente dalla coltivazione
del fondo, dalla selvicoltura e allevamento di animali. In breve è sufficiente che le attività connesse non
prevalgano sull’attività agricola essenziale.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 24. Gli imprenditori esclusi dal fallimento: gli enti pubblici
Ai sensi dell’art. 1 l. fall. è assoggettabile al fallimento l’imprenditore commerciale non piccolo di natura
privata. Ne consegue, allora, l’esclusione dal fallimento degli enti pubblici (elencati nell’art. 2093 cc)
esercenti imprese commerciali. Tuttavia, questi sono da distinguere dalle cc.dd. società in mano pubblica in
cui l’ente pubblico detiene la maggioranza o totalità delle azioni e che sono sottoponibili al fallimento.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 25. Gli imprenditori esclusi dal fallimento: il piccolo imprenditore
L’art. 11 l. fall. dispone l’esclusione dal fallimento del piccolo imprenditore.
Individuare chi sia piccolo imprenditore è un problema in quanto esistono due nozioni di piccolo
imprenditore: una del codice civile (art. 2083) ed una dettata dal diritto fallimentare (art. 1).
L’art. 2083 del codice civile stabilisce che “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli
artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
Così per aversi piccola impresa occorre che:
- l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa;
- il suo lavoro e quello dei suoi familiari prevalgano sul lavoro altrui e sul capitale investito nell’impresa.
L’art. 2083 fissa come segno distintivo del piccolo imprenditore la prevalenza del lavoro proprio e familiare.
Comunque la prevalenza deve essere intesa in senso qualitativo-funzionale nel senso che i beni prodotti
dall’impresa devono essere caratterizzati dall’apporto dell’imprenditore e dei suoi familiari.
L’art. 1 della legge fallimentare stabilisce che “sono considerati piccoli imprenditori, gli esercenti un’attività
commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile,
titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta
di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale
nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire 900000”. Infine stabilisce che
“in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”.
Che una società non possa essere titolare di una piccola impresa è già desumibile dall’art. 2083 in quanto il
criterio della prevalenza può essere applicato all’imprenditore persona fisica. Quindi non ci sono problemi
da questo punto di vista.
I problemi sorgono in relazione al piccolo imprenditore individuale. Nella legge fallimentare il piccolo
imprenditore individuale è individuato in base a parametri monetari quali il reddito o il capitale investito e
quindi non in base al criterio della prevalenza funzionale del lavoro familiare citato dall’art. 2083 del codice
civile. Così non si sapeva se considerarlo piccolo imprenditore e quindi esercente attività con prevalenza
nell’impresa del lavoro familiare; o non riconoscerlo in quanto titolare di un reddito di ricchezza mobile
superiore a lire 480000 o di aver investito un capitale superiore a lire 900000.
Tuttavia questo problema è stato risolto grazie a due modifiche: l’imposta di ricchezza è stata soppressa nel
1974 e sostituita dall’Irpef; il criterio del capitale investito non superiore a lire 900000 è stato dichiarato
incostituzionale nel 1989 in quanto non più idoneo in seguito a svalutazione monetaria.
In assenza di un intervento legislativo diretto a fissare nuovamente i criteri per l’individuazione del piccolo
imprenditore, il giudice ha utilizzato, fino ad oggi, l’art. 2083 cc. chiedendosi, però, rispetto a che cosa
debba prevalere il lavoro dell’imprendtiore:la giurisprudenza ha utilizzato come parametro di comparazione
il capitale investito, altre volte l’ammontare dell’indebitamento anche se la quantificazione del debito o del
capitale investito non può avvenire sulla base di un criterio uniforme ma adatto all’area geografica, alla
condizione del settore, al momento economico, etc…
Inoltre, La riformulazione dell’art. 12 l. fall. ha introdotto un sistema di individuazione del piccolo
imprenditore, ai fini della sottoposizione al fallimento, secondo criteri fissi, ma aggiornabili. L’art. 12 l. fall.
prevede che “ai fini del primo comma non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in
forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a. hanno effettuato investimenti nell’azienda per
un capitale di valore superiore a € 300000; b. hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare
complessivo annuo superiore a € 200000. I limiti di cui alle lettere a. e b. del secondo comma possono
essere aggiornati ogni 3 anni con decreto del Ministro della Giustizia sulla base della media delle variazioni
degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di
riferimento”.
Dall’analisi della norma, si ricava che la dimensione dell’azienda, e non quella del dissesto, individua il
piccolo imprenditore. Nella scelta dei parametri, il legislatore non si è discostato dal modello precedente
mentre non ha adottato il criterio della dimensione dell’insolvenza utilizzato, invece, per individuare la
grande impresa al fine della sua sottoposizione ad amministrazione straordinaria.
Altre osservazioni sul riformato art. 12 l. fall.: rispetto alla formulazione originaria dell’art. 12 l. fall. in cui i
parametri (dell’imposizione fiscale e del capitale investito) erano direttamente funzionali all’individuazione
del piccolo imprenditore, l’attuale disposizione consente di individuare direttamente chi, sulla base degli
investimenti e dei ricavi, è soggetto al fallimento e, solo indirettamente, chi è piccolo imprenditore e, quindi,
non fallibile; inoltre, l’art. 12 l. fall. adesso fissa parametri valevoli sia per l’impresa individuale che per
quella collettiva che legittima il riconoscimento di una società di tipo commerciale anche come piccola
impresa ai fini dell’esenzione dal fallimento.
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare 26. Gli imprenditori esclusi dal fallimento: l’artigiano
Il compito del tribunale fallimentare diventa più delicato quando si trova dinanzi un artigiano, per il una
vasta disciplina speciale ha creato una figura con confini più ampi rispetto a quelli posti dall’art. 2083 cc.
La legge quadro 443/1985 detta alcuni criteri necessari per l’individuazione dell’artigiano.
Sulla falsa riga dell’art. 2083 cc, la legge quadro dispone che l’artigiano, per essere tale, deve svolgere “in
misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”. Inoltre, la legge quadro
specifica che è imprenditore artigiano chi esercita professionalmente un’attività organizzata al fine della
produzione di beni o servizi purchè non si tratti di attività agricola, di prestazioni di servizi commerciali, di
intermediazione nella circolazione dei beni o di somministrazione al pubblico di alimenti o bevande.
Inoltre, la legge quadro sembri dilatare la dimensione di questa attività riconoscendole, comunque, ai fini
dell’iscrizione all’Albo, natura artigiana. È il caso dell’artigiano che si avvalga di un numero rilevante di
dipendenti o che utilizzi anche processi produttivi automatizzati. La legge quadro aveva anche consentito
l’esercizio dell’attività artigiana in forma di Società cooperative e s.n.c., dapprima, poi anche s.r.l.
unipersonali, s.a.s. e, più di recente, anche s.r.l. pluripersonali a condizione che la maggioranza dei soci,
ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo
produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
L’iscrizione all’Albo, previa verifica dei requisiti richiesti per il riconoscimento della qualifica artigiana
dell’attività, non ha pero natura costitutiva a tutti gli effetti di legge e, quindi, non conferisce all’iscritto
l’esenzione dal fallimento. Quindi, il tribunale dovrà accertare di volta in volta se l’artigiano è o non è
piccolo imprenditore agli effetti della legge fallimentare. A tal proposito, la giurisprudenza sembra orientata
a valutare la natura dell’attività in base al ruolo dell’imprenditore nel processo produttivo, facendo ricorso al
criterio previsto dall’art. 2083 cc.
Il problema dell’individuazione da parte del tribunale fallimentare dell’artigiano piccolo imprenditore è più
gravoso quando l’attività sia esercitata in forma societaria in quanto, mentre la legge quadro del 1985
considera artigiana l’impresa esercitata secondo uno dei tipi societari consentiti se il lavoro personale del
socio o dei socie è determinante nel processo produttivo, prima della riforma, la legge fallimentare (all’art.
12) disponeva che in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali. Dinanzi a
questo contrasto normativo , la giurisprudenza aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 l. fall. in relazione all’art. 3 Cost nella parte in cui tale disposizione assoggetta a
fallimento l’impresa artigiana, anche piccola, se esercitata collettivamente, in quanto deve ritenersi abrogato
il principio normativo secondo cui le società artigiane non possono essere considerate piccoli imprenditori.
Tuttavia, il problema rimaneva per le piccole società commerciali in quanto, o si riteneva l’art. l. fall.
inapplicabile anche a queste fattispecie o poteva sorgere il dubbio di un contrasto della norma fallimentare
con la Costituzione per la disparità di trattamento che veniva a riservarsi da un lato alle piccole società
commerciali (che possono fallire) rispetto alle piccole società artigiane (sottratte al fallimento), dall’altro al
piccolo imprenditore individuale rispetto alla piccola società.
Successivamente, la Corte costituzionale (sentenza 54/91) ha confermato l’assoggettabilità al fallimento
delle società commerciali, anche di piccolissime dimensioni ed ha respinto le eccezioni di illegittimità
costituzionale della disciplina in questione, basate sulla disparità di trattamento tra piccoli imprenditori
individuali e piccole società commerciali, nonché tra queste ultime e le società artigiane.
Mentre da queste sentenze discendeva che soltanto la società artigiana, se piccola, era sottratta al fallimento
e tutte le altre società, indipendentemente dalla dimensione, erano sottoponibili alla procedura concorsuale,
Alessandro Remigio Sezione Appunti
Diritto Fallimentare