La cessazione dell’impresa e la morte dell’imprenditore
L’ordinamento sancisce che la cessazione dell’attività o la morte dell’imprenditore non debbono ledere il soddisfacimento dei creditori sorti per l’esercizio dell’impresa e non pagati durante lo svolgimento della stessa. Il mancato soddisfacimento dei creditori, però, non può costituire sintomo di uno stato di insolvenza. dalla previsione per cui la cessazione dell’attività non esclude la responsabilità dell’imprenditore, ne discende che si potrà avere il fallimento di un imprenditore o di una società non più attiva. Così, nel caso in cui le obbligazioni contratte non possano essere soddisfatte regolarmente, si potrà accertare lo stato di insolvenza e dichiarare il fallimento.
Se la tutela dei creditori merita tale previsione, è necessario porre un limite temporale oltre il quale non si possa più invocare tale tutela. In questo senso, l’art. 10 l. fall. fissa un preciso arco temporale oltre il quale non potrà essere chiesto il fallimento di un’impresa cessata così da tutelare anche coloro che entrino in contatto con l’imprenditore cessato.
L’apertura della procedura fallimentare è condizionata dal fatto che l’insolvenza si sia manifestata già prima della cessazione dell’impresa o della morte dell’imprenditore o entro l’anno successivo e che essa sia relativa ad obbligazioni contratte per l’esercizio dell’impresa (artt. 10 e 11 l. fall.). Tuttavia, è importate sapere quando un’impresa deve considerarsi cessata in quanto da quella data decorre l’anno entro cui può essere dichiarato il fallimento. I creditori rimasti insoddisfatti potranno chiedere il fallimento che sarà dichiarato se risulta che l’insolvenza già esisteva, anche se non denunciata o ancora manifestata. In questi casi, si presume che l’insolvenza sia da ricollegarsi alla gestione di quell’impresa. Sotto questo profilo, l’art. 10 l. fall. tutela i creditore dell’impresa che potrebbero essere pregiudicati dall’improvvisa cessazione dell’attività.
Come l’inizio, anche la fine dell’impresa è segnata dal principio dell’effettività. Infatti la qualità di imprenditore si perde con l’effettiva cessazione dell’attività di impresa. Gli avvisi al pubblico, al cancellazione dai registri non determinano la perdita della qualità di imprenditore.
L’esatta determinazione del giorno di cessazione dell’attività di impresa ha rilievo per l’imprenditore commerciale in quanto l’art. 10 legge fall prevede può essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’attività.
A tal proposito è da dire che la fine dell’impresa è preceduta da una fase di liquidazione durante la quale si completano i cicli produttivi già iniziati, si vendono le giacenze di magazzino, si licenziano i dipendenti. Ora la fase di liquidazione non fa perdere la qualità di imprenditore in quanto costituisce ancora attività di impresa. La qualità di imprenditore di imprenditore si perde con la chiusura della fase di liquidazione. Tale chiusura si verifica con la definitiva disgregazione del complesso aziendale anche se non sono stati pagati tutti i debiti.
Quanto alle imprese societarie la situazione è diversa. Per le società, la cancellazione dal registro delle imprese occorre sia la disgregazione dell’azienda, sia l’integrale pagamento delle passività ad opera dei liquidatori. Quindi la cancellazione determina la fine dell’impresa societaria. Dopo la cancellazione ai creditori che esigono una qualche pretesa dalla società, risponderanno gli ex soci ed i liquidatori.
Secondo la giurisprudenza le società, anche se cancellate dal registro delle imprese, erano ritenute ancora esistenti e quindi esposte al fallimento, fino a quando non fosse stato pagato l’ultimo debito. Quindi una società poteva essere dichiarata fallita a distanza di anni dalla cessazione dell’attività e dalla cancellazione. Quindi l’art. 10 legge fall non è valido.
Su questa situazione la Corte costituzionale è intervenuta nel 2000 dichiarando l’illegittimità costituzionale dellàart. 10 l. fall. nella parte in cui prevedeva il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di un’impresa collettiva decorresse dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che dalla cancellazione della società dal registro delle imprese. Tuttavia, intervenendo una seconda volta, la Corte costituzionale affermò l’infondatezza della questione di incostituzionalità dell’art. 10 l. fall. nella parte in cui non prevedeva che la sentenza di fallimento dell’imprenditore individuale potesse essere pronunciata entro un anno dall’iscrizione della cessazione nel registro delle imprese. Questi principi sono stati introdotti anche nella riforma societaria del 2003: a tal proposito, l’art. 24952 cc sancisce che la cancellazione dal registro delle imprese determina l’estinzione della società. Così, oggi, l’art. 10 l. fall. fa decorrere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento per gli imprenditori individuali e collettivi, dalla data dell’iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese. Tuttavia, i debitori possono provare in sede di istruttoria prefallimentare che, nonostante la cancellazione dal registro delle imprese, l’attività non è cessata.
Infine, nell’art. 11 è disciplinata la fattispecie del fallimento dell’imprenditore defunto. La procedura concorsuale può essere dichiarata, su domanda dell’erede o dei creditori, entro un anno dalla morte del soggetto se l’insolvenza si sia già manifestata o si sveli entro quell’arco temporale. L’accettazione dell’eredità, con beneficio d’inventario, non è di ostacolo alla dichiarazione di fallimento. Anzi, nel caso in cui l’erede sia già imprenditore commerciale o lo diventi subentrando nell’impresa del defunto, può aversi, oltre al fallimento del defunto stesso, anche quello dell’erede.
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Autore:
Alessandro Remigio
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- Università: Università degli Studi Gabriele D'Annunzio di Chieti e Pescara
- Facoltà: Economia
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