Riassunto del testo "Imago Maiorum". Nel riassunto viene intrapreso il percorso della nascita della letteratura latina, dei diversi generi nascenti e dei maggiori esponenti.
Lingua e letteratura latina
di Gherardo Fabretti
Riassunto del testo "Imago Maiorum". Nel riassunto viene intrapreso il percorso
della nascita della letteratura latina, dei diversi generi nascenti e dei maggiori
esponenti.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Lingua e letteratura latina
Docente: Giovanni Salanitro
Titolo del libro: Imago Maiorum
Autore del libro: Giovanni Salanitro
Editore: CUECM
Anno pubblicazione: 20101. Livio Andronico e la nascita della letteratura latina
LIVIO ANDRONICO 280 a.C. (?) Taranto – 200 (?) Roma
Fondatore per antonomasia della letteratura latina, la cui data di nascita è convenzionalmente fissata al 240
a.C., data della prima rappresentazione teatrale di LA. La rappresentazione di un'opera eminentemente
sociale come quella teatrale, con un dramma di argomento greco, fatta da un tarantino che era liberto di una
potente gens romana, la dice lunga sui tratti fondamentali della letteratura latina: polifonica e fortemente
incline alla rielaborazione e contestualizzazione.
Di Livio Andronico possediamo solo una traduzione in saturni dell'Odissea e una sessantina di versi
tramandati indirettamente. Le sue linee tematiche si basano sulla professionalizzazione del teatro e
l'ufficializzazione della sua professione di intellettuale. La storia teatrale di Roma inizia con la produzione di
Fescennini, legati alla religiosità agreste e caratterizzati dalla forte mordacità. Di LA ci rimangono invece
molti titoli di cothurnatae (tragedie di argomento greco) che rivelano la sua predilezione per il ciclo troiano e
le figure femminili, e palliatae (commedie di argomento greco). Nulla invece è rimasto del partenio a
Giunone. La maggior parte dei frammenti pervenutici invece riguarda la traduzione in saturni dell'Odissea
omerica.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 2. L'esordio a teatro di Gneo Nevio (235 A.C.)
GNEO NEVIO 275 a.C. (?) Capua – 201 a.C. (?) Utica
Probabilmente milite durante la Prima Guerra Punica (264 – 241 a.C.) fece il suo esordio in teatro nel 235
a.C. circa. Nevio a differenza di Livio Andronico e di altri illustri personaggi dell'epoca rifiutò sempre la
protezione di nomi e famiglie illustri, scagliandosi anzi contro gli Scipioni e i Metelli, questi ultimi
condannandolo al carcere, dal quale uscì solo in seguito all'intervento dei tribuni della plebe, per poi finire in
esilio a Utica. Poliedrico e arrogante, Nevio compose numerose palliatae e alcune cothurnatae ed è
unanimemente riconosciuto come il fondatore del genere della praetexta, cioè della tragedia di argomento
romano, mentre non è riconosciuto plebiscitariamente il suo ruolo di fondatore della togata, commedia di
argomento romano. La memoria storica e mitica di Roma è invece all'origine del suo lavoro più famoso, il
Bellum Poenicum, composto durante gli anni, quelli della Seconda Guerra Punica, in cui si sviluppa a Roma
la riflessione storiografica di forma annalistica.
Il Bellum Poenicum era stato concepito come un carmen continuum, sul modello dei carmina arcaici, ma fu
suddiviso in sette capitoli da un grammatico del secolo successivo, Ottavio Lampadione. Il Bellum
Poenicum doveva essere composto di circa 4.000 versi in saturni, di cui oggi ci rimangono una sessantina di
frammenti che ci permette comunque di farci qualche idea sulla struttura dell'opera.
Essa tratta il racconto delle vicende della Prima Guerra Punica ma offre anche uno squarcio sulle vicende
del ciclo troiano e della fondazione di Roma, sulla cui collocazione all'interno del poema si è molto
discusso: si trovava all'inizio dell'opera (una sorta di passaggio dal mythos al logos) o nel cuore dell'opera
(un flashback che traendo spunto dal gusto alessandrino si rifacesse all'ekphrasis del tempio di Giove ad
Agrigento con la rappresentazione della caduta di Troia?). Il Bellum Poenicum rimane una sorta di
enciclopedia tribale che esplicita valori e modelli di comportamento della Roma arcaica: la virtus non più
come gloria personale ma come dovere verso la collettività; la prima attestazione scritta di pietas, nei
confronti di Anchise. In quest'opera si fondono sapientemente sperimentalismo e ricersa espressiva (tecnica
a ripresa, allitterazioni, assonanza e asindeto).
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 3. Titus Maccius Plauto commediografo
TITO MACCIO PLAUTO 250 a.C. (?) Sarsina – 184 a.C. Roma
Che egli fosse umbro ce lo testimonia un passo della Mostellaria, mentre incerta rimane la sua collocazione
sociale, per molto tempo vincolata all'errata attribuzione di prenome e nome gentilizio, Marco Accio. I tria
nomina nel mondo romano identificavano un cittadino romano e noi non sappiamo con sicurezza se Plauto
lo fosse. L'esatto nome del commediografo, così come risulta dal ritrovamento di un codex vetustissimus da
parte del cardinale Angelo Mai, era Ttitus Maccius Plautus. Maccius sembrerebbe un adattamento di
Maccus, una delle maschere della farsa popolare conosciuta come atellana, mentre Plautus potrebbe
significare “dai piedi piatti”, considerato che gli attori delle farse recitavano a piedi nudi (niente coturni
dunque e niente socco, riservato alle commedie). Il Bruto di Cicerone ci dice che Plauto morì nel 184. Sono
più di 130 le commedie attribuite a Plauto ma Elio Stilone (II – I sec. a.C.) ne riconosce autentiche solo 25;
Varrone, suo contemporaneo, 21. E ventuno sono in effetti quelle attestate dalla tradizione manoscritta, tra le
quali ricordiamo: Amphitruo, Asinaria, Aulularia, Casina, Cistellaria, Menaechmi, Miles Gloriosus,
Mostellaria, Pseudolus.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 4. La commedia Plautina
Plauto si dedica ad un solo genere letterario per tutta la vita: la palliata, commedia di ambientazione greca. Il
rassicurante altrove in cui le vicende si collocavano, permetteva un capovolgimento dei ruoli di tipo
carnascialesco, mettendo in lotta sovente due personaggi per il possesso di un bene (donne o denaro) e fra i
due contendenti, solitamente due uomini, è di solito il giovane – figlio – innamorato a vincere sull'alter ego
vecchio – padre – lenone, spesso grazie all'aiuto di un servus callidus. È questo uno schema spesso
congiunto al tema del doppio o dello scambio di persona che si risolve con l'agnitio. Sono elementi già
presenti in altri commediografi, tutti greci, al cui repertorio Plauto attinge tramite la contaminatio e una serie
caleidoscopica di variazioni sul tema.
Interessante il ruolo del servus, non solo perché spesso e volentieri è lui l'alter ego dell'autore, ma anche
perché a lui è spesso riservato il ruolo meta teatrale che permette di rompere temporaneamente l'illusione
scenica per rivolgersi direttamente al pubblico, evidenziando le analogie tra creazione teatrale e beffa,
entrambe colte nel loro costruirsi, nelle tre fasi dell'invenzione, della preparazione e dell'attuazione (una
divisione che sostituisce quella penta partita della nuova commedia greca) come se, dice intelligentemente
Barchiesi, il teatro meditasse su sé stesso e si rappresentasse. Barchiesi stesso ha individuato i punti fondanti
del modo di fare teatro di Plauto: più che nell'interesse per l'evoluzione psicologica dei personaggi, esso
risiede nel dinamismo e nella coerenza della singola scena, nell'incalzare inarrestabile delle battute, nella
pirotecnica creatività espressiva dei superlativi surreali, dei nomina contortiplicata e delle girandole di
insulti, dei lamenti agli usci di casa e dei mirabolanti autoelogi degli spacconi.
L'elemento linguistico è parimenti straordinariamente innovativo: accanto alle parti recitate in senari
giambici troviamo recitativi con possibilità di accompagnamento musicale (di solito settenari trocaici). Pur
nella rivoluzionarietà carnascialesca delle vicende, la visione di Plauto è una visione ancora incerta per noi,
sospesa tra conservatorismo e democrazia.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 5. Cecilio Stazio a Roma (168 A. C.)
CECILIO STAZIO 230 a.C. Gallia Cisalpina – 168 a.C. Roma
Grande amico di Ennio, accanto al quale fu sepolto, Cecilio Stazio fu attivo a Roma dal 180 a.C. e dopo un
breve esordio all'insegna dell'insuccesso, conquistò i favori del grande pubblico anche grazie all'apporto del
capocomico Ambivio Turpione. Varrone consegnava la palma dell'argumentus proprio a Stazio, mentre dava
quella in sermonibus a Plauto e quella in ethesin (caratterizzazione psicologica) a Terenzio. Oggi rimangono
di Stazio frammenti per circa un trecento versi e una quarantina di titoli.
Ricordiamo il Plocium, ispirata al Plokium di Menandro. La trama sembra articolarsi introno a vicende
articolate secondo gli schemi della nea e della palliata: una moglie ricca, brutta e insopportabile che
tiranneggia i familiari e vuole costringere alle nozze con una parente il figlio, che però ubriaco aveva
violentato la figlia di un vicino, che metterà al mondo un figlio che il ragazzo riconoscerà grazie alla collana
(il plocium). La vicenda si concluderà con le nozze riparatrici. In un primo frammento, uno sfogo del marito,
notiamo il gusto dell'accumulo ma in generale nella forte espressività della commedia si nota il fil rouge di
Plauto, anche se elementi terenziani non mancavano.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 6. Quinto Ennio e le opere principali
QUINTO ENNIO 239 a.C. Rudiae (Lecce) – 169 a.C. Roma
Nato in quella che i Romani chiamavano Calabria, Ennio, secondo Gellio, non smetteva mai di dire che
possedeva tre cuori, messapico, romano e greco poiché tre erano le lingue che sapeva parlare: romano, greco
e osco. Combattè nella Seconda Guerra Punica (219 – 202 a.C.) come alleato di Roma e ivi giunse grazie a
Catone, conosciuto in Sardegna nel 204 a.C. A Roma fece l'insegnante e scrisse per il teatro e non tardò ad
entrare nell'aristocrazia filo ellenica degli Scipioni, desiderosa di sprovincializzare la cultura romana. Come
voleva il costume ellenistico, seguì Marco Fulvio Nobiliore nella spedizione contro la lega etolica per
celebrarne le imprese in una praetexta che prendeva il nome dell'ultima roccaforte conquistata, Ambracia.
Grazie al figlio di Nobiliore, Quinto, Ennio ottenne la cittadinanza romana.
Le opere meno conosciute di Ennio sono l'Hedyphagetica, un poemetto gastronomico in esametri; il Sota,
una composizione in versi sotadei a carattere parodistico e licenzioso; Saturae; Scipio.
Gli Annales
Chiaramente sono gli Annales a segnare una nuova fase nella produzione epica latina, non solo per
l'abbandono del saturnio a favore dell'esametro, ma anche per il rifiuto della struttura del carmen continuum.
Ennio divise invece la sua opera in libri, secondo il costume greco, e ne compose diciotto, nei quali narrava
la storia di Roma dall'archeologia mitica fino ai suoi tempi. L'opera si apre con la tradizionale invocazione
alle muse e nel proemio racconta che Omero, apparsogli in sogno, gli aveva rivelato di essersi reincarnato in
lui. Ennio crede nella metempsicosi e celebra la sua investitura poetica in un modo così forte che rimarrà
indelebilmente impresso nell'immaginario poetico di una latinità che ostinatamente voleva appropriarsi del
patrimonio culturale greco.
Il secondo proemio degli Annales si trova nel settimo libro (e questo ci fa pensare ad una pubblicazione
episodica dell'opera) dove prima prende le distanze dai suoi predecessori che utilizzavano il saturnio, e poi
si definisce dicti studiosus, che ricalca il greco philologos, che riassume i tratti essenziali del letterato
ellenistico, riconosciuti da Ennio nella polimorfia, nello sperimentalismo, nel gusto grammaticale ed erudito,
nell'interesse eziologico.
Un diverso epos
Se Nevio nella costruzione dell'epos nazionale aveva scelto un singolo evento storico, la Prima Guerra
Punica, Ennio scelse di ripercorrere per intero la storia di Roma, sul modello delle cronographiae greche
tralasciando però il precetto callimacheo della brevitas.
Il nesso mito – storia, la prospettiva provvidenzialistica di un'ascesa di Roma voluta dal fato e sostenuta
dalla virtus, costituiscono elementi di continuità rispetto a Nevio anche se l'esaltazione delle grandi
personalità fa riferimento chiaramente al suo legame con gli Scipioni.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina Quella di Ennio non è un'opera fatta di trionfalismi, anzi, egli coglie le dolorose responsabilità, le curae, il
senso dell'officium dovuto alla comunità e la superiorità della sapientia sulla potentia bellica. Il costo tragico
della storia viene spesso messo in luce attraverso la sofferenza femminile, come ad esempio nel caso del
sogno di Ilia, futura madre di Romolo e Remo, che nella sua esperienza onirica prevalgono solitudine e
smarrimento anziché fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”. Il patetismo enniano è anche quello
dell'Adromaca che ci rivela un Ennio che conosce Euripide e Apollonio, che ama le personalità d'eccezionee
e che non è insensibile al fascino dell'orrido.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 7. Marco Porcio Catone e le opere principali
MARCO PORCIO CATONE 234 a.C. Tusculum – 149 a.C. Roma
Della sua vita sappiamo molto grazie alle biografie di Cornelio Nepote e Plutarco, al ritratto idealizzato del
Cato Maior di Cicerone, a quello ammirato e polemico di Livio, e grazie a Catone stesso. Marco Porcio
Catone era nato da famiglia non nobile, e in origine era Priscus il suo cognome, poi mutato in Cato (da
catus, accorto). Svolse il servizio militare nella seconda guerra punica, nel 217 a.C. e si distinse nel 207 a.C.
nella battaglia del Metauro. Fu un homo novus e intraprese la carriera politica sotto la protezione di Lucio
Valerio Flacco, membro dell'aristocrazia conservatrice antiscipionica che faceva riferimento a Quinto Fabio
Massimo. Fu questore nel 204 a.C. e seguì in Sicilia e in Africa Publio Cornelio Scipione, che sancì l'inizio
di una forte ostilità tra i due che si concluderà con il ritiro dello Scipione dalla vita pubblica. Di ritorno dalla
Sardegna portò con sé a Roma Ennio. Edile nel 199 a.C. e poi pretore in Sardegna nel 198 a.C. fu console
assieme a Lucio Valerio Flacco nel 195 a.C. per poi diventare censore nel 184 a.C., carica che esercitò con
tale e tanta convinzione che gli valse l'omonimo soprannome. Morì nel 149 a.C. alla vigilia della terza
guerra punica, conclusasi tre anni dopo. Catone si battè tutta la vita per la difesa di un modello di
comportamento basato sui valori tradizionali della cultura romana e italica (virtus, gravitas, parsimonia,
industria) che faceva riferimento al civis romanus, che si divideva tra le responsabilità del negotium e le
cure della propria terra, alle quali, come ruolo ancillare, si accostava l'otium letterario.
Il De Agri Cultura
Il “De Agri Cultura” è uno scritto, di cui buona parte ci è arrivata intatta, che tratta della coltivazione della
vite, dell’olivo, degli alberi da frutta e dell’allevamento del bestiame, quest’ultimo descritto come attività
economica. È un trattato scientifico – morale. I precetti e gli insegnamenti che vi si trovano si basano
sull’esperienza personale dell’autore e contengono anche varie formule magiche e descrizioni di riti. In
questa opera Catone descrive una serie di comportamenti che il proprietario terriero deve applicare.
L’attività agricola descritta dallo storico latino non è più quello della piccola tenuta a carattere familiare, ma
quello del grande latifondo e dei grandi proprietari terrieri di cui Catone si proclama difensore. Secondo
Catone l’agricoltura è l’attività più sicura e redditizia per l’agricoltore: un’attività che forma buoni cittadini
e buoni soldati. La parsimonia, la duritia e l’industria sono le colonne portanti del buon agricoltore. Egli
deve trarre dall’attività che svolge grossi vantaggi economici, e per far ciò deve aumentare la produttività
degli schiavi, legati indissolubilmente alla realtà rurale. Salta subito all’occhio il fatto che Catone non illustri
un mondo agricolo bonario e patriarcale, fatto di contadini ingenui e incorrotti, ma un mondo dominato
radicalmente dal rigore e dalla pragmaticità. È famoso il consiglio che vi si dà di vendere lo schiavo quando
diventa troppo vecchio per essere utilizzato.
Le Orationes
Opera fondamentale sono invece le Orationes. Esse costituiscono la prima vera opera storica in latino. Essa
trattava le leggende relative alla fondazione di Roma e delle città dell’Italia, insieme alla storia delle ultime
guerre. Redatta i tono discorsivo, fu la prima di questo genere ad essere scritta in lingua latina ( come
sappiamo, infatti, i primi annalisti romani scrissero in greco) dando impulso allo studio della storia e
fondando al tempo stesso lo stile della prosa latina. Le Origines di Catone avevano una forte componente
politica: nell’economia dell’opera avevano largo spazio le preoccupazioni di catone per la dilagante
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina corruzione dei costumi Per opporsi al culto dell’esaltazione di singole personalità emergenti nella vita
politica, catone concepì una storia delle origini di Roma parecchio singolare. Egli insisteva sul lento
processo di formazione dello stato e delle sue istituzioni, processo reso possibile dalla collaborazione
dell’intero popolo romano, con la classe dirigente senatoria. Il suo metodo storiografico non si basava, come
quello aristocratico, sull’esaltazione delle gesta di singoli personaggi, di cui Catone evitava persino di
scrivere i nomi, bensì dell’intero popolo romano. Rievocando le battaglie a cui egli aveva partecipato, si
proclamava campione delle antiche virtù romane, come uomo impegnato nel condurre violente battaglie in
difesa della saldezza dello stato e contro l’emergere di singole figure di prestigio schiave del culto della
propria personalità. Nella sua opera la polemica è esplicita: troviamo interi passi delle orazioni che teneva
durante le sedute del Senato. Nella sua opera lo storico romano tradisce un notevole interesse per la storia
delle popolazioni italiche e anche per quelle straniere, africani e spagnoli per primi, mettendo in rilievo
l’importanza che essi rivestirono durante il processo di espansione di Roma.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 8. Publio Terenzio Afro e il teatro
PUBLIO TERENZIO AFRO 195/185 a.C. Cartagine – 159 a.C. Roma
La principale fonte riguardo alla sua vita è costituita dalla biografia scritta da Svetonio intorno al 100 d.C.,
contenuta nell’opera “De viris illustribus”. Si diceva fosse nato a Cartagine nel 185 a.C., ma le sue origini
più che puniche dovrebbero essere libiche, in quanto era piuttosto improbabile il commercio di schiavi nel
periodo di pace tra la prima e la seconda guerra punica. Terenzio, infatti, giunge a Roma come schiavo. Il
ragazzo entrò sia per la raffinatezza dell’ingegno sia per la bellezza della persona, nelle grazie del suo
padrone –Terenzio Lucano- un senatore. Lucano gli diede un’educazione signorile e presto gli diede la
libertà; Terenzio ebbe così aperte le porte delle più illustri case e visse nella familiarità di molti nobili,
specialmente di Scipione l’Emiliano, suo coetaneo, e di Lelio, di poco maggiore. Le sue opere, molto
elaborate ed eleganti, sono apprezzate negli ambienti aristocratici ma gli precludono un successo di pubblico
pari a quello di Plauto. I Romani preferiscono gli spettacoli sportivi dei giocolieri alla rappresentazione delle
sue commedie; tuttavia Terenzio vive con orgoglio d’artista il suo “insuccesso” popolare, al punto da
vantarsi quando gli spettatori abbandonano il teatro ove si rappresenta La suocera per recarsi a vedere un
equilibrista ed altri giochi gladiatorii. Raggiunta una certa fama, Terenzio, parte per la Grecia allo scopo di
recuperare personalmente gli originali che intende rielaborare, ma durante il viaggio di ritorno, quest’ultime
vanno disperse durante un naufragio, pare, ben trentotto commedie di Menandro già tradotte. Terenzio si
salva, ma muore poco dopo nel 159 a.C., all’età di trent’anni.
Il teatro di Terenzio.
Da fine artista quale era, Terenzio non volle comunicare al suo pubblico per mezzo dei prologhi nulla
dell’opera. Il prologo diventava portavoce e difensore degli ideali artistici del poeta. Quindi, rompendo tra
l’azione ed il prologo ogni legame interiore, preferì sfruttare quest'ultimo - dopo aver annunciato al pubblico
il titolo della commedia e quello dei suoi originali greci- per chiarire il rapporto con i modelli greci originali
e, soprattutto, per la polemica letteraria col vetus e malevolus Luscio Lanuvino, che accusava Terenzio di
avere contaminato molti originali greci e di essere soltanto un prestanome. Le commedie secondo Lanuvino
erano opera degli amici del Circolo degli Scipioni, Terenzio era solo un prestanome. E se questa situazione
da un lato gratificava Scipione e i suoi amici, dall’altro delegittimava la personalità di Terenzio come autore.
Il commediografo latino si limita ad appellarsi al giudizio del pubblico, forse perché preoccupato di
inimicarsi i potenti amici del circolo Scipionico. Ma il prologo terenziano contiene anche alcune
dichiarazioni di poetica di grande interesse; infatti, Terenzio nella sua polemica contro Luscio Lanuvino,
accusa quest’ultimo di avere messo in scena “un servus currens accompagnato da un popolo che gli fa
strada”. Questa critica non è da interpretare come una semplice schermaglia ma come una vera e propria
dichiarazione d’innovazione teatrale; le commedie di Terenzio sono statariae, contenenti in pratica solo
dialoghi.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 9. Le opere e lo stile di Terenzio
Non più le ormai superate commedie motoriae, con scene movimentate e sostanzialmente superficiali, ma
commedie basate sulla parola, sulla trattazione d’argomenti più profondi che richiedevano, di conseguenza,
ritmi di rappresentazione più lenti. Terenzio, insomma, dichiara continuamente la novità del suo teatro, un
teatro senza dubbio impegnato. Di Terenzio ci sono state tramandate sei opere: Andria (166 a.C.), Hecyra
(165 a.C.), Heautontimorumenos (163 a.C.), Eunuchus (161 a.C.), Phormio (161 a.C.), Adelphoe (160 a.C.)
I personaggi terenziani tendono maggiormente al realismo ed alla verosimiglianza propria dei modelli greci.
Non solo, i suoi personaggi hanno una maggiore complessità interiore e sentimentale, animano intrecci e
comportamenti privi d’eccessi: i figli contestano ma conservano un certo rispetto dei genitori; i servi
mugugnano ma rimangono affezionati ai padroni; l’anziano padre abbandonato è tormentato dal pentimento
di non avere compreso in sentimenti del figlio innamorato.
La lingua e lo stile
In merito alla lingua, tre erano gli stili che distingueva Varrone: la ubertas, la mediocritas, la gracilitas. Ed il
principe dello stile medio era per lui Terenzio. La mediocritas di Terenzio non è altro che l’aristocratico
linguaggio del Circolo dello Scipioni passato attraverso il filtro di questo geniale commediografo. Il suo stile
è quieto e temperato, “una via di mezzo fra la tragicità di Pacuvio e la festosità di Lucilio” (Ussani). Il
linguaggio di Terenzio è perfettamente intonato al teatro nuovo di cui si fa innovatore. Giulio Cesare definì
lo stile del commediografo col termine purus sermo, mentre Cicerone lo definì lectus sermo; sono giudizi
che hanno valore ancora oggi e che pongono sull’accento sulla raffinatezza e sull’eleganza del linguaggio
terenziano. Ma i due illustri personaggi romani evidenziano anche un altro aspetto dello stile: la puritas, cioè
la totale assenza di grecismi. Terenzio inoltre evita l’utilizzo di linguaggi scurrili, preferendo invece parole
astratte che meglio esemplificano l’analisi psicologica dei personaggi. Il suo linguaggio è più quotidiano di
quello di Plauto, non è fatto di doppi sensi e di tirate imprevedibili ma, è quello tipico delle classi urbane di
buona cultura, più pacato e selezionato. Particolarmente importanti appaiono i neologismi terenziani, ai
quali la lingua ha attinto, ed ai quali appartiene per esempio il termine iniustitia. Vari versi di Terenzio sono
diventati proverbiali nella lingua italiana: ad esempio il famosissimo detto lupus in fabula del verso 537
degli Adelphoe.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 10. Le satire di Gaio Lucilio
GAIO LUCILIO 180 a.C. Sessa Aurunca – 102 a.C. Napoli
Figlio di agiata famiglia, entra ben presto nel Circolo degli Scipioni, diventando sincero amico di Scipione
Emiliano e Lelio. Con l'Emiliano partecipa alla guerra di Numanzia del 133. a.C. tenendosi poi lontano dalle
cariche pubbliche, preferendo vivere delle rendite fondiarie e impegnarsi esclusivamente nella composizione
di versi. Le sue Satire sono ordinate in trenta libri e contengono attacchi personali e veementi contro
personaggi molto in vista e nemici degli Scipioni: i Metelli ad esempio. Delle Satire rimangono un 1300
frammenti.
Le Satire
In merito ad esse, Orazio collegava il carattere mordace delle satire luciliane alla veemenza politica della
commedia attica antica; Quintiliano invece rivendicava l'autoctonia italica del genere satirico, attribuendone
la paternità a Lucilio, che si sarebbe reso capostipite del genere. Ennio e Pacuvio in realtà si erano già
cimentati nel genere. Quintiliano rivendicò la satura come creazione romana (“satura quidem tota nostra est”
Cfr. Institutio Oratoria) e Livio indica come saturae le prime rappresentazioni drammatiche - in origine
messe in scena per placare gli dei in tempo di pestilenza- che combinavano canto e musica e danza mimica.
Da un lato queste favorirono l’evoluzione della commedia latina, dall’altro diedero origine al genere
letterario misto della “satira”: una sorta di commento da un punto di vista personale, pungente o moralistico
su argomenti del momento, inerenti alla vita sociale, alla letteratura o a difetti di singoli individui.
L’etimologia del nome la ricaviamo da un passo di Varrone che descrive un tipico piatto contadino che
mescola tantissimi ingredienti: – “satura est uva passa et polenta et nuclei pini ex mulso consparsi, ad haec
alii addunt et de malo Punico grana”- Il nome quindi fu inserito per analogia con questo piatto, per
sottolineare probabilmente il notevole miscuglio di generi e di tecniche di composizione che
caratterizzavano la Satura.Il genere con Lucilio si indirizza verso personalità ben individuate della vita del
tempo, con toni diretti e corrosivi. Il suo è uno stile medio, antiepico, che per la sua espressività e i suoi toni
parodistici è stato paragonato a quello plautino.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 11. Le teorie di Tito Lucrezio Caro
TITO LUCREZIO CARO 94 a.C. Campania – 50 a.C. Roma
Notizie certe non se ne possiedono anche se dalla sua unica opera, il De Rerum Natura, un poema
didascalico in sei libri di esametri, è facile capire come egli frequentasse gli illustri personaggi suoi
contemporanei, in particolare Gaio Memmio, pretore nel 58 a.C. e amico di Cinna e Catullo.
Il poema didascalico.
Con quest'opera si inaugura a Roma la stagione del poema didascalico – filosofico che vuole rendere più
accattivante l'incontro dei destinatari con la dottrina epicurea, di cui Lucrezio intende farsi entusiasta
sostenitore, interprete e promotore. Quest'opera si prefigge di emancipare il nuovo uomo romano,
additandogli la via verso la libertà, la verità e la novità. Quello che avviene, in altri termini, è il passaggio
dal mythos al logos, dal momento che l'autore mira a promulgare l'approccio scientifico – razionale a realtà
che avevano prima trovato fondamento nell'ignoranza, nella paura e negli abusi di una religione che si era
fatta instrumentun regni. Lucrezio si fa vessillifero del vero e autentico eroe della reale conoscenza, del
pioniere della nuova indipendenza degli uomini dal mostro delle paure e di una religio vessatoria: Epicuro.
Secondo Lucrezio, che riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro, la religione è la causa dei mali
dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di
realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità. Il poema ha tre argomenti principali: la
lacerante antinomia fra ratio e religio. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della
verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo,
quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza. Indica l'insieme
di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dei e della loro potenza.
Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa.
Le teorie di Lucrezio.
Lucrezio afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di
Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è
perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.
Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la
"parenklisis (che egli ribattezza clinamen, la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni
naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico
ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da
attribuirsi a uno stato di depressione di cui era affetto. Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio,
tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità
originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate
nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari
alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione materialista, antiprovvidenzialista e
storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare
Diderot e La Mettrie.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Lingua e letteratura latina 12. Gaio Valerio Catullo e I Carmi
GAIO VALERIO CATULLO 87 a.C. Verona – 54 a.C. Roma
Nato da famiglia agiata (Svetonio racconta che Cesare fu spesso ospite di suo padre) si trasferisce a Roma
dove conosce esponenti di spicco della politica e della cultura, e dove intreccia una tormentata relazione con
una donna di alto rango, Clodia, sorella del tribuno Publio Clodio Pulcro nonché moglie di quello che nel 60
a.C. sarà console: Quinto Cecilio Metello Celere. Sappiamo che nel 57 a.C. si recherà in Asia Minore con
Gaio Memmio, allora governatore della Bitinia, dove visiterà la tomba del fratello, morto nella Troade, al
quale dedicherà il carme 101.
I Carmi
Il liber catulliano comprende 116 carmi così divisi:
Carmi 1 – 60 polimetri ma con netta prevalenza dell'endecasillabo falecio
Carmi 61 – 68 i carmina docta, tema mitologico e metro vario.
Carmi 69 – 116 distici elegiaci.
Il libro viene poi tripartito in nugae (poesie leggere), carmina docta e epigrammata.
Il cenacolo catulliano fu il primo nella cultura romana e forse l'unico. Esso fu veramente indipendente dal
patronato di un uomo politico, segno del progressivo distacco dei poetae novi dall'impegno civile, politico,
del negotium. Al fallimento della dimensione del civis contrappongono lo spazio privato dei rapporti
d'amore e d'amicizia, e del labor poetico. Questa poesia neoterica lascia che Catullo spicchi tra gli altri
proprio nella sua totale dedizione al mestiere di poeta, che lo porta spesso a ribadire la sua totale assenza dal
mondo politico, a cui si rivolge con fare sfottente (cfr. Cesare e Cicerone l'avvocato di/fra tutti).
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Lingua e letteratura latina 13. L'amore catulliano e lo stile
Catullo ridisegna letterariamente anche il mondo dell'amore. Se prima l'amore eterosessuale letterario era
quello della palliata, e la situazione tipica era quella di un giovane innamorato di una cortigiana che
provvidenzialmente si rivelerà di estrazione libera, qui ora si tratta di un amore appassionato per una donna
che non è solo di alto lignaggio e culturalmente preparata, ma è anche sposata. Lungi poi dall'essere modello
di castità. Il rapporto d'amore tra i due è stabilito ora da un foedus amoris e sancito dalla fides: i valori
tradizionali schiettamente romani appaiono dunque trasposti dalla sfera pubblica a quella privata. Il lessico
che Catullo impiega, e in parte crea, per descrivere le fasi della vicenda amorosa si caratterizza per la
presenza di diminutivi con chiara valenza affettiva, per la presenza di termini del sermo cotidianus, talvolta
espliciti fino alla crudezza (glubo), per la costruzione di un linguaggio dell'interiorità nella distinzione tra
amore sensuale e amore spirituale, tra amare e bene velle. Tutta la poesia di Catullo nasce da un attento
controllo dei mezzi espressivi, dalla sua profonda cultura, nutrita di cultura greca. Egli è seguace della
lezione callimachea che rifiutava il poema epico di ampio respiro e praticava una poesia dichiaratamente
elitaria, breve e raffinatissima, fatta di arguzia ed eleganza. Parallelamente nell'opera si vede una stretta
compenetrazione tra racconto mitico ed esperienza autobiografica.
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Lingua e letteratura latina 14. La nuova storiografia di Gaio Sallustio Crispo
CORNELIO NEPOTE 99 a.C. Mantova – 24 a.C. Roma
GAIO SALLUSTIO CRISPO 86 a.C. Amiterno – 34 a.C. Roma
Gaio Sallustio Crispo nasce ad Amiterno nel 86 a.C., nella regione della Sabina, da famiglia plebea. Homo
Novus, diventa questore nel 54 o nel 53 a.C., poi, schieratosi con i populares, diventa tribuno della plebe nel
52 a.C. Mentre ricopriva questa carica accusò ripetutamente Milone, uccisore di Clodio, e Cicerone, che
provava simpatia per esso. Nel 50 a.C. viene espulso da Roma per decisone del senato, che lo accusa di
indegnità morale. Con lo scoppio della guerra civile torna a Roma e si schiera con i cesariani. Dopo la
vittoria di quest’ultimi, Cesare lo nomina pretore nel 47 a.C. e governatore della provincia di Africa Nova
nel 47 a.C. Contrariamente a quanto Sallustio predica nelle sue opera, il suo fu un governo pessimo. Si
arricchì notevolmente alle spalle dei provinciali, governando con rapacità. Tornato a Roma fu (inutilmente)
accusato di malversazione (= estorsione). Divenne proprietario di eleganti giardini, i cosiddetti horti
Sallustiani nei quali si rifugiò dopo essersi ritirato dalla vita politica, su consiglio di Cesare, il quale temeva
una nuova espulsione. Dedicò il resto della sua vita alla composizione di monografie storiche: il de
coniuratione Catilinae, il bellum Iugurthinum e le Historiae, quest’ultima rimasta incompiuta per la morte
dell’autore, avvenuta nel 35 – 34 a.C.
Una nuova storiografia.
Tutte le opere di Sallustio rivelano un progresso notevole sui suoi predecessori annalisti, sia nell’efficacia
della narrazione sia nel metodo scientifico: egli, infatti, inaugura la monografia come genere letterario. La
monografia rappresenta un passo decisivo della storiografia romana: essa presuppone, infatti, la selezione e
la trattazione approfondita e criticamente fondata di un argomento specifico e delimitato, in genere relativo
ad un periodo breve e abbastanza recente, rispetto all’autore che ne scrive. Fu proprio con Sallustio che la
monografia raggiunse la sua migliore e più completa espressione storiografica: lo storico sentiva, infatti, il
genere monografico come il più vicino alla propria sensibilità e se ne servì come di uno strumento di analisi
che gli permettesse di scoprire le cause della crisi sociale e politica che aveva colpito Roma nel I secolo
a.C. I suoi personaggi, soprattutto Lucio Sergio Catilina, Giugurta, Caio Mario e Lucio Cornelio Silla, sono
tratteggiati a tinte forti e vivaci. Egli scelse questi personaggi, in particolar modo i primi due, perché rimase
influenzato dal loro carattere potenzialmente dannoso delle loro azioni. Tutte le sue monografie hanno un
argomento in comune: la lotta dei populares, in fasi successive, contro i nobiles e tutte le sue opere
contengono un ampio proemio per mezzo del quale Sallustio giustifica il fatto di essersi ritirato dalla vita
politica per dedicarsi alla composizione di opere a carattere storico. Il lato debole di Sallustio sta nella
ricorrente approssimazione e imprecisione in ambito geografico e cronologico e nella sua propensione per i
populares e nella sua ostilità verso i nobiles. Giustificabile se pensiamo che Sallustio era un homo novus.
Egli, comunque, riconosce i valori degli avversari e, quando è necessario, gli errori della sua posizione.
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Lingua e letteratura latina 15. Il "De Coniuratione Catilinae" di Lucio Sergio Catilina
Lucio Sergio Catilina, perse le elezioni per il consolato del 62 a.C., vinte da Cicerone e in seguito a ciò si
dette ad organizzare una rivoluzione facendo leva sull’inquietudine che all’epoca si era diffusa in Italia
presso varie classi sociali e proponendo la cancellazione dei debiti. Cicerone riuscì a farlo arrestare avendo
in mano prove schiaccianti da portare in senato che portarono all’arresto e alla condanna a morte dei capi
della congiura che si trovavano ancora in città. Catilina entrò subito in guerra aperta con Roma: il console
Antonio marciò contro di lui nel 62. Dopo una lunga battaglia lo sconfisse e lo uccise. Sallustio, che fu uno
dei suoi più accaniti detrattori, gli riconobbe coraggio e attitudine al comando; tuttavia, sentenzia lo storico,
alla base del suo operato vi fu soltanto una sfrenata ambizione. Sallustio non vedeva il pericolo della
congiura in sé, ma piuttosto uno dei sintomi più evidenti della lenta decadenza della moralità romana. In due
lunghe digressioni egli tratta in maniera approfondita il problema della degenerazione del costume romano.
14.2.1 Le due digressioni.
Nella prima – la cosiddetta archeologia – delinea una rapida storia dell’ascesa e della lenta decadenza della
città di Roma, cominciata – a parer suo – con la distruzione della città di Cartagine e con la conseguente
cessazione del metus hostilis, di quel timore dei nemici che aveva sempre tenuto compatto il tessuto della
cittadinanza romana. Nella seconda digressione, posta al centro dell’opera, rafforza la sua precedente
denuncia rivolta stavolta al periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile tra Cesare e Pompeo.
La condanna dello storico è rivolta sia ai populares – demagoghi che aizzano la plebe con false promesse –
sia ai nobiles – aristocratici che combattono solo per tutelare i propri interessi e salvaguardare i loro privilegi
– . Sallustio insiste sull’abolizione della conflittualità dei partiti, al fine di salvaguardare i ceti possidenti.
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Lingua e letteratura latina 16. I ritratti di Sallustio
Lo storico latino predicava una politica – per certi versi simile a quella di Cicerone – che prevedeva il
ritorno ad un regime autoritario, capace di sedare le rivolte e porre fine alla crisi dello stato ristabilendo la
res publica e rinsaldando i rapporti tra i ceti possidenti e ampliando le file del senato con uomini nuovi,
provenienti dall’élite di tutta Italia. Dico élite perché Sallustio contestò sempre la partecipazione, entro le
file del senato, di uomini dell’esercito, voluta fortemente da Cesare.
Successivamente nel trascrivere il discorso che Cesare, allora pretore, rivolge in “difesa” dei catilinari
(temendo che la congiura potesse offrire l’occasione di un colpo di mano da parte della nobiltà) Sallustio
deforma la personalità del futuro dittatore, purificandola da ogni possibile contatto con i catilinari e
tralasciando di mettere in risalto il suo ruolo di capo dei populares. Anche il discorso di difesa riportato dallo
storico risulta parecchio deformato; esso fa largo appello a considerazioni legalitarie perfettamente coerenti
con la politica sallustiana, politica che in questo modo riceveva una implicita propaganda, i quanto
professata da una figura di rilievo come Cesare.
I ritratti di Cesare e Catone.
In seguito Sallustio traccia i ritratti di Cesare e Catone, personaggi che durante il processo rivestirono
cariche opposte: Cesare difensore e Catone accusatore. Egli è il primo che cerca di conciliare le figure di
questi due importantissimi personaggi. Di Cesare viene messo in rilievo, per un verso, la liberalità, la
mugnificentia, la misericordia e, per l’altro, la sua brama di gloria, sorretta da un inesauribile energia.
Catone viene lodato invece per le virtù tipiche del mos maiorum, di cui egli si fece sempre garante:
integritas, severitas, innocentia. Ma, è in questo sta la genialità di Sallustio, differenziando i costumi dei due
uomini, egli affermava che entrambi erano positivi per lo stato romano e, anzi, presentavano numerosi punti
di contatto, soprattutto per i principi etico – politici, ritenuti i fondamenti della res publica.
I ritratti di Cicerone e Catilina.
Altri due personaggi sono degni di menzione all’interno dell’opera: Marco Tullio Cicerone e Lucio Sergio
Catilina. Del primo Sallustio tratta un ritratto piuttosto ridimensionato se pensiamo alle grandiose
descrizioni di Cesare e Catone. Egli non viene rappresentato come un politico capace di dominare gli eventi
grazie alle sue straordinarie capacità ma, piuttosto, un normale magistrato che, facendo fronte alle proprie
inquietudini e debolezze, compie il proprio dovere.
Di Catilina, invece, lo storico latino mette in evidenza la sua grandezza, malefica s’intende, delineandone un
ritratto a tinte forti e controverse. Da una parte Catilina viene descritto come un uomo dall’energia
indomabile e, dall’altra, come uomo preda di ogni forma di depravazione. Il suo è un ritratto moralistico:
mentre tratteggia i contorni del suo carattere, Sallustio lo giudica. Non solo, i discorsi che Catilina pronuncia
nell’opera esplicitano i motivi profondi della crisi che attanaglia lo stato romano, dominato da pochi potenti
che monopolizzano cariche e ricchezze sfruttando i poveri e insidiato da una massa di poveri senza una vera
prospettiva futura, fomentati dal desiderio di una vita migliore.
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Lingua e letteratura latina 17. Il Bellum Iugurthinum di Sallustio
La seconda opera monografica di Sallustio rappresenta la sua aperta opposizione antinobiliare. Lo storico,
infatti, mette largamente in luce le responsabilità dell’aristocrazia nella crisi dello stato romano. Quando, nel
118 a.C. morì il re cliente di Numidia, Micipsa, egli lasciò il regno ai due figli Aderbale e Iempsale ed al
nipote Giugurta. Quest’ultimo fece assassinare Iempsale e fece fuggire Aderbale, che, invocando il ruolo
patriarcale che Roma rivestiva verso la Numidia, chiese a quest’ultima aiuto per sconfiggere Giugurta. Gli
ambasciatori mandati al re Giugurta furono facilmente corrotti col denaro, denaro che, in buona parte, finì
nelle tasche del senato romano. La vicenda divenne uno scandalo sfruttato dai populares per mettere sotto
accusa l’aristocrazia, rimproverandole di subordinare l’interesse collettivo a quello privato e di non essere
più legittimata a governare. Fu allora ordinato a Quinto Cecilio Metello di comandare l’esercito che avrebbe
combattuto contro il re di Numidia; Metello affidò questo compito al suo luogotenente Caio Mario. Egli
concluse la guerra nel 104 a.C. riportando a Roma Giugurta incatenato, tradito da Bocco, re di Mauritania.
Il lavoro di Sallustio
Tutta l’opera costituisce un brillante atto d’accusa verso l’aristocrazia romana. La guerra, infatti, era in
realtà un gigantesco caso politico, un caso che segnò il ritorno dei populares all’iniziativa politica e che
trasformò radicalmente l’equilibrio istituzionale romano. Sallustio, con la sua opposizione antinobiliare,
rivendica i meriti della politica espansionistica indicando nel regime dei partiti la causa della rovina della res
publica e nella nobiltà, un accozzaglia di uomini guidati da un gruppo corrotto. Radicalmente diverso è
invece il suo giudizio sui populares. Attraverso i discorsi di Memmio e Mario, Sallustio traccia le linee
guida della politica dei populares: entrambi i discorsi sono rappresentativi dei migliori valori della
democrazia romana contro la nobiltà. Memmio, elencando tutti i difetti della politica aristocratica, invita il
popolo alla riscossa; Mario incita alla formazione di una nuova aristocrazia, non più basata sulla nascita ma
sulla virtus, sulle potenzialità che ogni uomo possiede e che deve sviluppare con tenacia e saggezza, le
stesse potenzialità che hanno permesso a Roma di diventare la prima potenza del Mediterraneo.
I personaggi
I personaggi dominanti dell’opera sono due: il generale Caio Mario e il re numida Giugurta. Del primo
Sallustio riporta un giudizio per certi versi parecchio contrastante. Se da un lato lo storico vede in Mario
l’uomo che ebbe il coraggio di opporsi allo strapotere nobiliare, dall’altro lo identifica nell’uomo che, con
l’arruolamento dei capite censi, ha gettato le basi per la formazione degli eserciti personali e professionali,
rei di aver distrutto la repubblica. La stessa aristocrazia della virtus che Mario predica nel suo discorso
sembra, agli occhi dello storico, inquinata dall’affermarsi del proletariato militare.
Giugurta è degno di ammirazione agli occhi di Sallustio per la sua energia indomabile, segno di virtus, virtus
corrotta s’intende. La sua personalità, a differenza di quella di Catilina, non è corrotta sin dall’inizio, ma
subisce una lenta evoluzione. Lo storico comunque non spende parole in difesa del re numida: una volta
corrotto il suo carattere egli è solo un piccolo tiranno, perfido e senza scrupoli
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Lingua e letteratura latina 18. Le Historiae di Sallustio
Le Historiae è la maggiore opera storica di Sallustio, rimasta incompiuta per la morte dell’autore. È l’unica
opera dello storico dove compare il metodo annalistico e che ebbe grande importanza per la cultura dell’età
augustea. Possediamo solo frammenti di questa portentosa opera: quattro discorsi, due lettere e parecchi
frammenti di carattere geografico e etnografico. La lettera che Sallustio immagina scritta da Mitridate è
degna di nota in quanto, dalle parole del re del Ponto, affiorano esplicitamente i motivi del malcontento dei
popoli assoggettati da Roma. “Cupido profunda imperi et divitiarum” diceva Mitridate, indicando nella sete
di ricchezza e di potere i veri motivi delle guerre che scatenavano i Romani. I frammenti a carattere
geografico e etnografico confermano l’interesse che Sallustio provava verso popoli e luoghi diversi. Il
Sallustio che scrive le Historiae è affetto da un inguaribile pessimismo, segno che la corruzione e la
decadenza del mos maiorum era arrivata ormai al termine. Dopo l’assassinio di Cesare (13 marzo 44 a.C.) e
la delusione delle aspettative che lo storico aveva riposto in quest’ultimo, lo storico non sa più con chi
schierarsi.
Lo stile.
Sallustio può essere considerato, a buon diritto, il fondatore dello stile storiografico latino. L’inconcinnitas,
il rifiuto di un discorso ampio e regolare, assieme all’uso frequente di arcaismi, alla brevità ai limiti
dell’oscurità, al lessico innovativo, ai grecismi rappresentano i caratteri salienti dello stile di Sallustio.
L’insieme di questi fattori conferiva alle sue opere un effetto di austerità e gravità sconosciuto negli autori
precedenti. Anche i personaggi (vedi Catilina e Giugurta), in funzione di questa gravitas, sono personaggi
“tragici”, dotati di grande drammaticità, come le opere di cui sono protagonisti.
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Lingua e letteratura latina 19. Caio Giulio Cesare : biografia
CAIO GIULIO CESARE 100 a.C. - 44 a.C.
Caio Giulio Cesare nasce a Roma il 13 luglio del 100 a.C. da una gens patrizia di antichissime radici.
Essendo imparentato con il generale Mario e con Cinna, fu cacciato da Roma dai sillani. Dopo la morte di
Silla, nel 78 a.C., fece ritorno a Roma e percorse le diverse tappe del cursus honorum diventando questore
nel 68 a.C., edile nel 65, pontifex maximus nel 63, pretore nel 62, propretore della Spagna Ulteriore nel 61.
Nel 60 a.C. formò, assieme a Pompeo e Crasso, il “primo triumvirato” e nel 59 a.C. rivestì il primo
consolato assieme a M. Calpurnio Bibulo. Nel 58 a.C. ottenne il proconsolato in Illiria e nella Gallia
Cisalpina e Narbonese, all’interno delle quali avviò una lunga opera di sottomissione che durò sette anni. In
seguito, cercando con vari pretesti di impedirgli il passaggio diretto dal proconsolato in Gallia al secondo
consolato, entrando in contrasto con Pompeo, varcò il Rubicone e invase l’Italia con le sue truppe,
scatenando la guerra civile, scoppiata il 10 gennaio 49 a.C. Dopo aver sconfitto Pompeo nella battaglia di
Farsàlo del 48 a.C. e aver soffocato gli ultimi focolai pompeiani in Africa e in Spagna, divenne padrone
assoluto di Roma, proclamandosi dittatore. Il 15 marzo del 44 a.C. fu ucciso da un gruppo di senatori
repubblicani, preoccupati per le tendenze autocratiche di Cesare.
Le opere: quadro generale.
Fu Cesare stesso a definire i propri scritti con il nome di commentarii. L’equivalente italiano di commentarii
può’ essere appunti, promemoria ma anche ricordi. I commentarii sono proprio questo: una raccolta di dati e
di fatti di cronaca da rielaborare in tempi successivi. Essi si proponevano come raccolta di materiali da cui
altri avrebbero potuto prendere le mosse per la stesura di una vera opera storica. Cesare intendeva senza
dubbio inserirsi in questa tradizione, ma, per motivi diversi, non vi furono mai storiografi che si ispirassero
alle opere cesariane. Il motivo di ciò ce lo fornisce Cicerone, che sosteneva che nessuno si sarebbe
cimentato a riscrivere ciò che Cesare aveva scritto con tanta semplicità. In effetti Cesare scrisse con una
sobrietà ed un efficacia ineguagliabile; evitava i pesanti artifici retorici e impiegava sempre l’uso della terza
persona, distaccandosi dalla narrazione e ponendosi come personaggio autonomo all’interno della
narrazione.I commentarii di Cesare sono “nudi….,recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste
detracta” semplici, schietti e pieni di grazia, privi di ogni artificio retorico come [un corpo] senza abito. Le
opere comunque rivelano un intento apologetico: Cesare infatti voleva difendere e giustificare la sua azione
politica e militare. Ad esempio vuole avvalorare come guerra difensiva in Gallia quella che in realtà una
guerra di aggressione imperialistica. Esalta comunque sempre i suoi soldati ed i suoi ufficiali,
riconoscendone lo spirito di sacrificio, la disciplina, il coraggio e la fedeltà.
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Lingua e letteratura latina