Appunti su testi, articoli ed elaborati durante l'internato presso l'UO di Cardiochirurgia di Milano - A.A. 2000-2001 e 2001-2002.
Appunti di cardiochirurgia relativi al periodo preoperatorio, alla circolazione extracorporea e cardioplegia, alla chirurgia coronarica, valvolare e delle cardiopatie congenite. Cenni sul ruolo del medico di base.
Appunti di cardiochirurgia
di Alessandra Di Mauro
Appunti su testi, articoli ed elaborati durante l'internato presso l'UO di
Cardiochirurgia di Milano - A.A. 2000-2001 e 2001-2002.
Appunti di cardiochirurgia relativi al periodo preoperatorio, alla circolazione
extracorporea e cardioplegia, alla chirurgia coronarica, valvolare e delle
cardiopatie congenite. Cenni sul ruolo del medico di base.
Università: Università degli Studi di Milano
Facoltà: Medicina e Chirurgia1. Il ricovero
Il ricovero in un reparto cardiochirurgico viene programmato dopo una valutazione cardiologica ed una
chirurgica che hanno permesso di porre una precisa indicazione operatoria.
Di primaria importanza è dunque assicurarsi che le condizioni che hanno reso possibile l’indicazione non
siano cambiate. L’ anamnesi, l’esame obiettivo, un evento infettivo in corso, la modificazione della
sintomatologia anginosa o il passaggio da una classe NYHA ad un’altra, sono strumenti di valutazione
molto importanti e potranno condurre alla decisione di differire l’intervento per il tempo necessario al
ristabilirsi di condizioni a più basso rischio per il paziente.
Più raramente un intervento potrà essere differito per ripetere una parte del percorso diagnostico
preoperatorio: ad esempio, la ripetizione di uno studio coronarografico eseguito da più di sei mesi, in un
paziente indicato per bypass aortocoronarico.
Durante il periodo di ricovero preoperatorio tutto il personale medico e paramedico avrà il compito di
conoscere il paziente, interrogarlo sulle sue abitudini, osservare il suo comportamento, spiegare il come ed il
perché dell’intervento chirurgico e soprattutto rispondere alle numerose domande per permettere
l’instaurarsi di un rapporto di fiducia reciproca. La fisioterapia preoperatoria assicura la preparazione del
paziente alle manovre respiratorie che dovrà effettuare nel periodo postoperatorio.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 2. La visita anestesiologica
Deve essere eseguita qualche giorno prima dell’intervento chirurgico, eccetto i casi d’urgenza od
emergenza. Permette di valutare lo stato generale del paziente e di ricercare eventuali fattori di rischio
anestesiologici. L’anamnesi deve essere mirata alla valutazione di antecedenti patologici (ipertensione
arteriosa, asma, ulcera gastrica, diabete, broncopneumopatia cronico ostruttiva, allergie, turbe della
coagulazione) e alla ricerca di complicazioni operatorie o anestesiologiche già presentatesi in occasione di
interventi pregressi. Si stabiliscono inoltre i farmaci che il paziente dovrà assumere ponendo particolare
riguardo a quelli che possono aumentare i rischi intraoperatori di sanguinamento ( Aspirina, anticoagulanti,
anti Vit K o FANS).
L’esame clinico deve essere anch’esso scrupoloso e deve comprendere oltre alla semeiotica classica, alcune
manovre aggiuntive. Il test di Allen per verificare la qualità della vascolarizzazione dell’arteria cubitale e la
permeabilità dell’arcata palmarein previsione del cateterismo intraoperatorio dell’arteria radiale. La
valutazione della cavità buccale e della glottide che permette di anticipare eventuali difficoltà di intubazione
grazie alla classificazione di Mallampati. Deve inoltre essere segnalata la presenza di protesi dentarie o di
particolari dispositivi odontoiatrici.
Vengono richiesti anche esami del sangue atti ad evidenziare eventuali anomalie degli elettroliti,
dell’emostasi, dei componenti cellulari del sangue (comprese le piastrine), degli enzimi cardiaci ed epatici.
Viene richiesta ormai di routine anche la sierologia epatica ed HIV.
Una radiografia del torace eseguita recentemente è indispensabile.
Le prove di funzionalità respiratoria e le emogasanalisi vengono richieste in funzione dell’anamnesi e dello
stato di salute del paziente
Lo scopo della visita anestesiologica è quello di valutare i rischi che il paziente può correre durante e dopo
l’intervento chirurgico. Ciò può essere fatto, più facilmente, in base alla classificazione dell’ American
Society of Anesthesiology attribuendo un rischio crescente dalla classe 1 alla 5
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 3. La preparazione all’intervento chirurgico
Nelle ore che precedono il trasferimento al blocco operatorio, viene somministrata una premedicazione (es.:
benzodiazepina), ed il torace e gli arti inferiori vengono depilati.
La preparazione del paziente in sala operatoria è molto importante e deve essere fatta seguendo un ordine
ben preciso
L’induzione anestesiologica varia da un’équipe ad un’altra ma dura in genere complessivamente 30 minuti.
Bisogna premettere che la qualità dell’anestesia al giorno d’oggi a permesso di ridurre drasticamente le
complicanze quali, l’infarto miocardico nei coronaropatici e a fibrillazione ventricolare nella stenosi aortica
critica al momento dell’induzione.
Sul tavolo operatorio si procede all’installazione di un catetere venoso per permettere l’induzione
dell’anestesia. Durante questo periodo il paziente respira, atrraverso una maschera, ossigeno puro. Un
ossimetro posto su un dito di una mano permette di sorvegliare le variazioni di saturazione arteriosa
d’ossigeno. Terminata l’induzione, viene posizionato un tubo tracheale che permetterà la ventilazione
meccanica durane l’intervento e l’anestesia generale viene completata. Si procede quindi al posizionamento
di un catetere arterioso radiale, un catetere venoso centrale nella vena giugulare interna o succlavia, una
sonda naso-gastrica, un catetere vescicale ed una sonda rettale per il monitoraggio della temperatura
corporea.
Nel caso in cui sia necessario (funzione ventricolare gravemente depressa, stato di shock ...) può essere
posizionato un catetere di Swan-Ganz, che ha lo scopo di misurare le pressioni intracavitarie destre, la
pressione arteriosa polmonare, la pressione atriale sinistra e la gittata cardiaca.
Le braccia vengono installate lungo il corpo evitando ogni genere di compressione e se possibile con i palmi
delle mani rivolti verso l’alto. L’installazione può essere completata con il posizionamento di uno spessore
sotto le spalle del paziente per facilitare la sternotomia, sorvegliando la postura della testa che deve essere
sempre orizzontale soprattutto in caso di artrosi cervicale.
Prima dell’installazione dei teli e degli strumenti chirurgici sul tavolo operatorio si procede all’applicazione
di una soluzione antisettica (Es.: Betadine) sullo sterno, sull’addome e sugli arti inferiori del paziente.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 4. Tempi dell’intervento chirurgico
L’apertura viene ottenuta tramite una sternotomia mediana ed in alcuni casi tramite una toracotomia.
L’incisione parte dalla porzione sub-xifoidea dello sterno e risale sino al manubrio sternale. Per l’apertura
dello sterno viene utilizzata una sega oscillante. In pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia coronarica il
prelievo dell’arteria mammaria interna avviene dopo l’apertura dello sterno e nello stesso tempo un’altro
chirurgo isola la vena grande safena.
Dopo l’apertura del pericardio, è possibile valutare le dimensioni del cuore, la disposizione delle cavità e
delle arterie coronarie.
Una buona esposizione è necessaria per il passaggio alla fase successiva, cioè l’installazione della
circolazione extracorporea (CEC). il paziente viene anticoagulato con eparina (3 mg/Kg). In seguito una
cannula viene inserita nella zona di aorta ascendente prospiciente al tronco brachiocefalico e una o due
cannule sono inserite nell’atrio destro o nelle due vene cave.
L’avvio della CEC coincide con l’arresto della ventilazione polmonare meccanica ed una ulteriore cannula
può essere inserita attraverso l’atrio sinistro all’interno del ventricolo sinistro per drenare il ritorno venoso
polmonare e bronchiale. La CEC permette dunque di recuperare il sangue dalle cavità cardiache e di farlo
passare attraverso un ossigenatore e di reimmetterlo a livello dell’aorta ascendente attraverso la cannula
aortica. In questo momento il cuore ed i polmoni sono completamente vicariati dalla macchina cuore-
polmone. È allora possibile procedere all’arresto diastolico del cuore attraverso l’infusione di una soluzione
cardioplegica.
La cardioplegia viene iniettata attraverso un ago posto nella radice aortica poco al di sopra degli osti
coronarici.
Dopo aver raggiunto i flussi di CEC adeguati alla superficie corporea del paziente ed occluso con un
“clamp” l’aorta tra il sito di incannulazione arterioso e la linea di cardioplegia, si procede all’infusione di
una soluzione iperkaliemica che ha la funzione di arrestare il cuore e di proteggerlo dall’ischemia durante
l’intervento. Per raggiungere il completamento di questa fase occorrono in genere 30-45 minuti.
Si giunge così al tempo centrale dell’intervento (bypass aortocoronarico, chirurgia valvolare... ...)
Una volta terminato il gesto chirurgico, prima delle operazioni di svezzamento dalla CEC, devono essere
verificati un certo numero di parametri: la temperatura corporea deve essere di 37 °C, il ritmo cardiaco deve
essere possibilmente sinusale, l’ematocrito superiore a 20%, ed altri importanti parametri biologici ed
emodinamici devono essere nella norma (kaliemia, natriemia, emogasanalisi, pressione arteriosa, pressioni
di riempimento destra e sinistra).
L’aorta viene quindi “declampata”, permettendo il ritorno alla normale perfusione coronarica ed alla ripresa
del metabolismo miocitario; ciò coincide con la ripresa della contrazione spontanea del cuore. Può rendersi
necessario l’uso del defibrillatore interno nel caso in cui il ritmo non sia sinusale.
È ora possibile riprendere la ventilazione meccanica e ridurre progressivamente i flussi di CEC permettendo
al cuore il ripristino della sua funzione di pompa. La durata dello svezzamento è variabile e può essere
prolungata in pazienti con grave disfunzione contrattile del ventricolo sinistro. In queste situazioni si ricorre
solitamente all’ausilio di farmaci inotropi positivi e nei casi più gravi può essere necessario l’uso di sistemi
di assistenza meccanica che migliorino la perfusione coronarica e/o riducano temporaneamente il lavoro
cardiaco (contropulsatore aortico, dispositivi di assistenza ventricolare).
L’emostasi e la chiusura iniziano solo quando il cuore è in grado di garantire una perfusione soddisfacente e
stabile. Si rimuovono le cannule e si somministra la protamina che ha il compito di neutralizzare l’azione
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia della eparina. L’intervento viene concluso con il posizionamento di elettrodi epicardici temporanei e di
drenaggi pericardici. I drenaggi pleurici sono necessari solo nel caso di apertura delle pleure (Es.: prelievo
arteria mammaria). Lo sterno viene riaccostato e si procede alla sua osteosintesi per mezzo di fili d’accciaio
o nylon a seconda del peso del paziente; per gli strati sottocutanei e la cute si utilizzano fili riassorbibili.
Questa fase dell’intervento varia a seconda delle procedure impiegate e delle difficoltà incontrate e può
durare da 30 minuti ad 1 ora.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 5. Trattamento intensivo postoperatorio
Questo è il periodo immediatamente successivo all’intervento chirurgico e rappresenta il momento più
delicato per il paziente All’uscita dalla sala operatoria l’effetto dell’anestesia generale è ancora presente ed è
nell’unità di rianimazione cardiochirurgica che si provvederà ad antagonizzarne gli effetti ed a risvegliare il
paziente. Il paziente è intubato e ventilato meccanicamente; sono presenti uno o più drenaggi toracici a
livello del cavo pericardico e, talora, in sede pleurica; vengono inoltre posizionate due paia di elettrodi
stimolatori epicardici, due atriali e due ventricolari, che convenzionalmente fuoriescono rispettivamente
dall’emitorace destro e sinistro. Il catetere in arteria radiale permette il controllo in tempo reale della
pressione arteriosa sistemica e facilita l’esecuzione di esami emogasanalitici arteriosi. Il catetere venoso
centrale a più vie consente il controllo della pressione venosa centrale e facilita la somministrazione
endovenosa di farmaci. In taluni casi un catetere di Swan-Ganz rende possibile un controllo più sofisticato
dei parametri emodinamici, comprendente il rilevamento della pressione capillare polmonare, della gittata
cardiaca e delle resistenze vascolari sistemiche e polmonari in pazienti a rischio aumentato. Il catetere
vescicale permette un preciso controllo della diuresi oraria e viene mantenuto in sede un sondino naso-
gastrico a caduta. Viene inoltre riportato il sanguinamento orario a livello dei drenaggi. Il paziente non è in
grado di parlare per la presenza del tubo endotracheale posizionato tra le corde vocali. A tale proposito è
opportuno informare preoperatoriamente il paziente per limitarne l’ansia nel periodo immediatamente
successivo al risveglio.
La ferita sternotomica, le sedi di uscita dei drenaggi toracici e soprattutto le ferite toracotomiche utilizzate
per alcuni interventi sono responsabili dell’accentuazione del dolore in particolare sotto lo stimolo della
tosse. Gli oppiacei vengono largamente utilizzati a scopo antalgico.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 6. Svezzamento dalla ventilazione meccanica
Viene effettuato più o meno precocemente e con facilità a seconda del tipo di intervento e della presenza o
meno di insufficienza cardiaca o respiratoria preoperatoria. Schematicamente, in caso di chirurgia
coronarica i pazienti sono estubati poche ore dopo l’uscita dal blocco operatorio. In pazienti con scompenso
cardiaco o insufficienza respiratoria oppure in caso di chirurgia valvolare, particolarmente in caso di
sostituzione valvolare mitralica o di più valvole cardiache, la durata della ventilazione meccanica è spesso
prolungata.
Un trattamento di fisioterapia respiratoria preoperatoria trova importante indicazione nel paziente con
insufficienza respiratoria, soprattutto nel broncopneumopatico cronico, e rende molto più agevole lo
svezzamento dal ventilatore meccanico.
Viene effettuata in funzione delle perdite, generalmente tra 12 e 72 ore dopo l’intervento. I drenaggi
vengono mantenuti in sede in caso di sanguinamento persistente, pneumotorace ed insufficienza cardiaca o,
più raramente, chilotorace.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 7. Trattamento postintensivo
E' il periodo di degenza che segue la dimissione dalla rianimazione postoperatoria. Il paziente gradualmente
riprende ad alzarsi dal letto ed a camminare nonché ad alimentarsi. Vengono rimossi gli elettrodi epicardici.
La fisioterapia respiratoria assume in questo momento postoperatorio un ruolo molto importane.
La terapia medica viene impostata in funzione della malattia di base.
Le complicanze più frequenti durante questo periodo sono:
- complicanze respiratorie, come accumulo di secrezioni nelle basse vie aeree, atelettasie, versamenti
pleurici, paralisi del nervo frenico (specie in seguito a preparazione dell’arteria mammaria interna), che
possono rapidamente condurre a complicanze infettive;
- infezioni in sede di ferite chirurgiche;
- versamento pericardico che spesso si forma gradualmente con decorso subdolo e che è importante
riconoscere clinicamente (fibrillazione atriale, dispnea che migliora in posizione semiseduta, turgore
giugulare, contrazione della diuresi), e confermato da ecocardiogrammi seriati;
- aritmie.
Quando il paziente ha recuperato la sua autonomia senza complicanze ed è stata impostata una corretta
terapia medica, è possibile la sua dimissione o il suo trasferimento presso una struttura di riabilitazione
cardiologica.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 8. Convalescenza e riabilitazione
Nel decorso postoperatorio in cardiochirurgia, alcuni fattori sono causa di astenia: la frequente presenza di
anemia, il recente periodo di degenza in rianimazione, l’allettamento e, più in generale, la ridotta attività
fisica correlata al ricovero ospedaliero. Talora si aggiungono l’insonnia e uno stato d’ansia correlabili alla
vita in ambiente ospedaliero.
Un periodo riabilitativo si rende pertanto spesso necessario. Il ciclo riabilitativo viene adattato e ottimizzato
in modo da ricondurre il paziente ad uno stato di salute psicofisica il più possibile comparabili con quello
precedente all’esordio dei sintomi. La degenza in centri riabilitativi specialistici risponde a tali esigenze e
contribuisce a ridurre i tempi di recupero funzionale e ad un pronto reinserimento nella vita sociale.
La terapia riabilitativa agisce quindi in tre importanti direzioni. La rieducazione funzionale e psicologica
sono i cardini della riabilitazione in pazienti che svolgono un’attività lavorativa e garantiscono il
raggiungimento della massima autonomia in pazienti più anziani. Da ultima, la prevenzione secondaria è
volta a migliorare la prognosi quoad vitam a lungo termine.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 9. Principi di Circolazione Extracorporea
La circolazione extracorporea (CEC) è stata utilizzata per la prima volta da Gibbon nel 1953 per realizzare
la chiusura di un difetto interatriale (DIA). La CEC permette al chirurgo di operare sul cuore in condizioni
ottimali poichè consente di sostituire la funzione circolatoria e respiratoria.
Il principio del suo funzionamento consiste nel deviare (per gravità) il ritorno venoso atriale o delle due vene
cave verso un ossigenatore esterno (i polmoni sono funzionalmente esclusi) e in seguito convogliare la
massa ematica sotto pressione (grazie a una pompa) nella circolazione arteriosa sistemica (aorta o arteria
femorale) Esistono diversi tipi di ossigenatori e di pompe.
Gli altri componenti della CEC sono:
* gli aspiratori, che recuperano il sangue a livello del campo operatorio;
* il cardiotomo, reservoir nel quale si accumula il sangue venoso proveniente dal paziente e quello
recuperato con gli aspiratori, il cui contenuto viene convogliato nell’ossigenatore;
* la scambiatore di calore, che permette di raffreddare o scaldare il sangue che viene pompato nel paziente;
* il filtro arterioso, che trattiene elementi particolati presenti nel sangue prima di reiniettarlo nel paziente;
* i sistemi di allarme, che controllano il livello di sangue presente nell’ossigenatore e l’ossigenazione del
sangue stesso.
Il circuito della CEC viene riempito prima di essere raccordato al paziente con soluzione cristalloide
(priming), in modo da eliminare ogni residuo di aria. La composizione del priming varia a seconda delle
équipe chirurgiche, ma il più delle volte si tratta di soluzione fisiologica o Ringer lattato. Per i soggetti
anziani o molto giovani si aggiunge abitualmente sangue al liquido del priming, per mantenere l’ematocrito
entro limiti relativamente elevati.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 10. Posizionamento del circuito e condotta della CEC
Prima di collegare il paziente al circuito della CEC, si procede alla anticoagulazione sistemica con eparina 3
mg/Kg. Vengono posizionate le cannule di drenaggio venoso in atrio destro, nelle due vene cave oppure
nella vena femorale. La cannula arteriosa è invece inserita nell’aorta ascendente o, meno comunemente,
nell’arteria femorale comune o iliaca esterna. Il circuito viene collegato al paziente e costituisce un bypass
cardiopolmonare totale comprendente le cannule venose, il cardiotomo, l’ossigenatore, la pompa, il filtro
arterioso e la cannula arteriosa. La CEC è condotta da uno o più perfusionisti specializzati. L’avvio della
CEC avviene gradualmente in maniera tale da raggiungere un flusso teorico calcolato in base alla superficie
corporea del paziente. Tale flusso oscilla tra 50 e 60 ml/Kg/min (oppure 2 - 2.5 l/m2/min) e varia anche in
funzione della temperatura e dell’età del paziente: a basse temperature è possibile ridurre il flusso poiché
l’ipotermia diminuisce il metabolismo cellulare e quindi il fabbisogno di ossigeno. Si può così abbassare
progressivamente la temperatura del paziente fino a circa 30 °C durante il tempo centrale dell’intervento e in
seguito riscaldare gradualmente il paziente a 37 °C. Tale ipotermia moderata consente di diminuire il flusso
della CEC limitando in tale modo le conseguenze traumatiche sugli elementi figurati del sangue (distruzione
delle piastrine, emolisi, attivazione del complemento). Alcune équipe preferiscono operare in normotermia
poiché vi sarebbe una riduzione dei danni conseguenti alla vasocostrizione periferica indotta dall’ipotermia.
Alcuni interventi necessitano di un arresto circolatorio completo (es.: interventi sull’arco aortico, cardiopatie
congenite in età neonatale). E’ in questi casi necessario ricorrere all’ipotermia profonda (15 - 18 °C) che
permette un tempo operatorio di durata limitata tra i 45 e 60 minuti. Nel neonato e nel paziente anziano il
flusso teorico dovrà essere mantenuto proporzionalmente più elevato a causa di una minore percentuale di
tessuto adiposo a parità di superficie corporea.
Altri parametri importanti sono la pressione arteriosa media che deve essere mantenuta tra 40 e 100 mmHg,
la PaO2 che deve variare tra 150 e 200 mmHg e la PCO2 che deve essere stabilizzata intorno a 40 mmHg.
Infine, la presenza di aria nel circuito deve essere assolutamente evitata. Qualora vi fosse aria nella linea
arteriosa della CEC è opportuno arrestare temporaneamente la pompa.
Il circuito appena descritto costituisce la CEC completa. Altri possibili impieghi sono rappresentati dalla
CEC parziale utilizzata come assistenza ventricolare sinistra o destra.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 11. Complicanze della CEC e sue controindicazioni
Nonostante la CEC sia diventata una metodica con rischi estremamente contenuti, esistono tuttavia alcune
complicanze Tali complicanze sono più gravi e frequenti in caso di CEC di lunga durata (superiore a 2 ore) e
in pazienti anziani o neonati. Diverse complicanze sono imputabili a meccanismi immunologici indotti dalla
CEC. Quest’ultima provoca infatti l’attivazione del complemento (aumento del C3a e C5a) dovuta
all’interazione tra il sangue e la superficie del circuito. Tale attivazione è responsabile di una contrazione
delle cellule muscolari lisce dei vasi periferici e di un sequestro leucocitario nei capillari polmonari. Ciò
spiega la presenza di una sindrome infiammatoria post-CEC più o meno evidente clinicamente.
Le controindicazioni alla CEC si riconducono alla presenza di condizioni che possono incrementare il
sanguinamento postoperatorio e ad allergie a farmaci
Inoltre una controindicazione relativa è rappresentata dalla gravidanza sia durante il primo trimestre per un
suo potenziale teratogeno, sia durante il terzo trimestre per il rischio di indurre un parto prematuro. Il rischio
è basso per la madre (1 - 5%), mentre è assai più elevato per il feto (10 - 20%).
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 12. Conseguenze della CEC sui diversi organi
Encefalo:
L’encefalo è l’organo più sensibile all’ipossia. Durante la CEC il flusso ematico cerebrale è proporzionale
alla pressione di perfusione. ed è quindi importante mantenere una pressione di perfusione relativamente
elevata (tra 50 e 70 mmHg) per garantire un flusso soddisfacente. D’altra parte, la maggioranza delle
complicanze neurologiche dovute alla CEC sono causate da emboli correlabili all’incannulazione arteriosa, a
calcificazioni valvolari, a trombi endocavitari o a embolia gassosa riferibile all’apertura delle cavità
cardiache o alla CEC stessa.
Cuore:
La maggior parte delle équipe scelgono la strategia di protezione miocardica (cardioplegia) in funzione della
loro esperienza. Dall’introduzione della cardioplegia durante gli anni ‘70, i metodi di protezione si sono
evoluti e permettono allo stato attuale di arrestare il cuore per più ore, conservando la funzione miocardica.
La maggior parte delle soluzioni contengono potassio in elevata concentrazione e vengono infuse nell’aorta
ascendente ad una temperatura compresa tra 4 e 8 °C.
Polmone:
L’incidenza di insufficienza respiratoria acuta post-CEC varia in funzione delle équipe e delle tecniche di
CEC, ma anche in funzione del paziente e delle condizioni respiratorie preoperatorie. I polmoni sono tra gli
organi più spesso danneggiati dalla CEC attraverso meccanismi diversi e complessi. Alcuni di questi
meccanismi sono stati identificati.
Fattori meccanici: durante l’arresto cardiaco nonostante il ritorno venoso sistemico sia deviato verso
l’ossigenatore, una parte di sangue polmonare ritorna nel cuore sinistro con un possibile aumento delle
pressioni polmonari. Ciò provoca una distensione cardiaca e polmonare. La decompressione per mezzo di
una cannula di aspirazione posizionata nelle cavità sinistre permette di recuperare il sangue e di evitare
questo problema.
Sovraccarico idrico: l’emodiluizione durante la CEC dà luogo ad una diminuzione della pressione oncotica
producendo un aumento dei liquidi nel terzo spazio. Ciò induce un’alterata funzione polmonare che si
manifesta clinicamente nei primi tre quattro giorni post-CEC con alterazioni emogasanalitiche e
prolungamento dei tempi di ventilazione meccanica. In tale contesto si ricorre abitualmente a diuretici.
Edema polmonare non cardiogeno (sindrome da distress respiratorio dell’adulto - ARDS): Tale condizione,
che spesso si manifesta con una insufficienza respiratoria acuta, è dovuta a diversi meccanismi in parte
immunologici. Una delle cause riconosciute è da ricercare nella trasfusione di anticorpi antileucocitari
attraverso unità di piastrine o plasma. Un ridotto impiego di emoderivati consente di ridurre l’incidenza
clinica di tali complicanze.
Fegato, pancreas, intestino:
I visceri addominali sono sensibili alla CEC in misura simile tra loro. Ciò può tradursi in una insufficienza
epatocellulare, una pancreatite o un’ischemia intestinale ed è spesso da ricondurre ad una bassa gittata sia
durante la CEC, sia nel periodo postoperatorio a causa di una ridotta funzione ventricolare sinistra.
Rene:
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia Rispetto agli altri organi, gli effetti della CEC sul rene sono stati studiati in maniera più approfondita. Viene
oggi accettato che l’insufficienza renale post-CEC è legata al grado di insufficienza renale preoperatorio. Il
rene è particolarmente sensibile alla bassa portata pre, intra e postoperatoria. E’ dunque importante un
attento controllo della diuresi durante la CEC ed il mantenimento di una pressione di perfusione adeguata.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 13. Cardioplegia
Viene utilizzata per proteggere il tessuto miocardico durante l’ischemia dovuta al clampaggio aortico. La
cardioplegia si è evoluta dopo la sua introduzione negli anni ‘70 e possono attualmente essere
schematicamente distinte due tecniche: la cardioplegia ipotermica e la cardioplegia normotermica.
Entrambe si fondano sul medesimo principio che consiste nel provocare l’arresto del cuore in diastole grazie
ad una iniezione di potassio.
Dopo il clampaggio dell’aorta ascendente la soluzione cardioplegica è nella maggior parte dei casi
somministrata per via anterograda attraverso la radice aortica (immediatamente al di sopra degli osti
coronarici). La dose di induzione è generalmente pari a 30-35 ml/Kg in unica somministrazione e provoca
un arresto cardiaco elettromeccanico, corrispondente ad un tracciato ECG isoelettrico.
E’ inoltre possibile la somministrazione della cardioplegia per via retrograda attraverso il seno coronarico
(che drena il ritorno venoso del circolo coronarico). Un catetere viene introdotto nel seno coronarico e la
cardioplegia circola in senso opposto a quello della circolazione fisiologica. Lo scopo è quello di garantire
una sufficiente perfusione in presenza di stenosi arteriose coronariche.
Alcuni combinano queste due tecniche per assicurare una migliore diffusione della soluzione cardioplegica.
Esistono numerose soluzione cardioplegiche la cui composizione è variabile ma con alcune caratteristiche
comuni tra cui un’elevata concentrazione di potassio (30-60 mEq/ml), una bassa concentrazione di calcio,
una soluzione tampone (fosfato) e una osmolarità pari a quella fisiologica. Alcuni ricorrono a sangue
miscelato alla soluzione cardioplegica, altri utilizzano soluzioni cristalloidi pure. Il vantaggio di una
soluzione ematica risiede in un miglior trasporto dell’ossigeno mentre gli inconvenienti sono legati ad una
viscosità aumentata ed alla necessità di utilizzare una quantità maggiore di soluzione.
Infine la cardioplegia può essere ipotermica o normotermica. La cardioplegia ipotermica è costituita da un
liquido somministrato a una temperatura di circa 4 o 5 °C. L’ipotermia tissutale risultante provoca un
abbassamento del metabolismo cellulare e conseguentemente una diminuzione del consumo tissutale di
ossigeno. Ciò consente di mantenere un cuore arrestato per più ore senza provocare una disfunzione
miocardica severa. I vantaggi sono rappresentati da una maggiore praticità tecnica poiché una dose ripetuta
ogni 20 o 30 minuti (in alcuni casi una singola dose) è generalmente sufficiente. L’inconveniente risiede
nell’ipossia inevitabilmente presente durante il periodo ischemico con un possibile rischio di edema
miocardico ed acidosi metabolica.
La cardioplegia normotermica è somministrata a 37 °C. In questo caso il cuore è arrestato unicamente a
causa dell’iperkaliemia ed il consumo di ossigeno cellulare, anche se ridotto, resta più elevato. L’apporto di
ossigeno deve quindi essere mantenuto ottimale e la somministrazione cardioplegica deve di conseguenza
essere effettuata frequentemente o tramite una perfusione continua. I vantaggi di questa metodica sono
rappresentati da una protezione più “fisiologica” a base di sangue e di ossigeno; vi è tuttavia l’inconveniente
di mantenere un flusso di cardioplegia elevato (variabile in relazione alla malattia del paziente) ed un rischio
di episodi ischemici cerebrali che sembrerebbe maggiore.
Allo stato attuale, non esiste metodica che appaia nettamente superiore ed ogni équipe utilizza la metodica
che ritiene più appropriata in funzione dell’esperienza acquisita.
Alessandra Di Mauro Sezione Appunti
Appunti di cardiochirurgia 14. La chirurgia coronarica
Gli interventi di chirurgia coronarica sono tra gli interventi cardiochirurgici più frequenti sia in Europa, sia
negli Stati Uniti.
Le operazioni di rivascolarizzazione coronarica (sia chirurgici, sia tramite angioplastica) sono notevolmente
aumentati di numero negli ultimi anni. Ciò è dovuto sia al crescere dell’interesse riguardante le pratiche di
angioplastica coronarica percutanea, sia al conseguente aumento degli studi coronarografici che hanno
contribuito ad accrescere il numero di pazienti per i quali può essere indicata una procedura di
rivascolarizzazione. Negli ultimi vent’anni l’aumento dell’età media della popolazione che avrebbe dovuto
generare una nuova coorte di pazienti, è invece stato compensato dalla diminuzione globale dell’incidenza
della patologia coronarica, probabilmente grazie alle campagne di sensibilizzazione sui fattori di rischio
delle malattie cardiovascolari iniziate negli anni ‘70.
Da qualche anno il numero delle procedure tramite angioplastica ha superato il numero degli interventi
chirurgici di rivascolarizzazione miocardica E’ sorprendente notare come a fronte di un tale aumento nel
numero delle procedure di rivascolarizzazione coronarica, non esistano studi ben organizzati per definire
con precisione le indicazioni di rivascolarizzazione coronarica in relazione alla terapia medica (CASS,
Veterans, ECSS ...) e che la maggior parte degli studi recenti (ERACI, RITA, EAST, GABI, CABRI ...)
siano rivolti alla valutazione del paragone tra chirurgia e angioplastica coronarica senza considerare anche il
trattamento medico.
Questa mancanza di dati scientifici rigorosi ed omogenei spiega, molto probabilmente, perché esistano così
grandi differenze in termini di numero di interventi cardiochirurgici tra paesi con livelli di assistenza
sanitaria comparabili
Il paragrafo successivo riassume le indicazioni attuali alla rivascolarizzazione miocardica, cercando di
differenziare ciò che è chiaramente dimostrato da ciò che può dare adito a discussione.
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Appunti di cardiochirurgia 15. La rivascolarizzazione miocardica: la coronarografia
Tale esame deve essere effettuato in ogni caso di potenziale rivascolarizzazione miocardica
La coronarografia rimane l’esame di riferimento per definire l’esistenza, la sede e l’estensione
dell’arteriopatia coronarica
Il circolo arterioso coronarico viene suddiviso in tre settori, di cui i primi due originano dal tronco comune
della coronaria sinistra Il ramo interventricolare anteriore dà origine ai rami diagonali e settali, il ramo
circonflesso dà origine ai rami marginali ottusi e la coronaria destra dà origine ai rami del margine acuto, al
ramo posterolaterale del ventricolo sinistro ed al ramo interventricolare posteriore.
A seconda del numero di rami affetti da una o più stenosi significative, si parla di lesioni critiche mono, bi o
trivascolari.
Durante l’esame viene inoltre spesso effettuata una ventricolografia sinistra che permette di valutare la
funzione ventricolare sinistra quantificabile attraverso la frazione di eiezione (uguale o superiore al 55% in
soggetti sani) e di valutare la cinesi segmentaria della parete ventricolare sinistra. Quest’ultima è un indice
indiretto dell’effetto delle singole lesioni coronariche sulla contrattilità miocardica
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Appunti di cardiochirurgia 16. Entità anatomica delle stenosi e conseguenze funzionali
La stenosi coronarica è considerata significativa, cioè in grado di determinare una insufficiente perfusione,
qualora il grado di stenosi raggiunga il 70% (50% a livello del tronco comune). La potenziale indicazione
alla rivascolarizzazione coronarica dipende dalla presenza di stenosi critiche con territorio distale adeguato.
Bisognerebbe inoltre, almeno in teoria, poter documentare le conseguenze funzionali di una stenosi: ciò
corrisponde nella maggior parte dei casi ad una condizione di ischemia del territorio dipendente dalla
coronaria stenotica o, talora, alla presenza di un segmento miocardico ipo o acinetico (ibernato), ma vitale e
pertanto potenzialmente in grado di recuperare o migliorare la cinesi in presenza di una normale perfusione.
L’ischemia miocardica può essere documentata clinicamente in caso di angor tipico oppure grazie a prove
funzionali come l’ECG, la scintigrafia o l’ecocardiografia da sforzo
La diagnosi di vitalità di territori miocardici ipocontrattili fa ricorso alla scintigrafia o l’ecocardiografia da
sforzo e alla tomografia ad emissione di positroni
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Appunti di cardiochirurgia 17. Indicazioni assolute
Dal punto di vista teorico le indicazioni indiscusse di rivascolarizzazione coronarica si pongono in presenza
di un risultato insoddisfacente della terapia medica (Es.: angina refrattaria o test ergometrico
persistentemente positivo in terapia antianginosa massimale) o nelle situazioni in cui la superiorità della
rivascolarizzazione rispetto alla terapia medica sia stata documentata da studi prospettici randomizzati. Lo
studio di questo tipo citato più spesso (CASS) ha comparato la terapia medica rispetto alla
rivascolarizzazione chirurgica in diversi sottogruppi di pazienti coronaropatici. I soli gruppi in cui il
trattamento chirurgico si sia dimostrato superiore rispetto alla terapia medica in termini di sopravvivenza
sono rappresentati da pazienti con stenosi del tronco comune, oppure con malattia trivascolare (o
equivalente) e alterazione della funzione ventricolare sinistra. Tali condizioni rappresentano pertanto
indicazioni chirurgiche classiche.
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Appunti di cardiochirurgia 18. Altre potenziali indicazioni (alternative alla terapia medica)
In presenza di stenosi critiche responsabili di angina invalidante o della positività di un esame funzionale, è
possibile optare per un trattamento medico o direttamente per una procedura di rivascolarizzazione,
angioplastica o bypass aortocoronarico. Oltre alle condizioni precedentemente descritte non esiste allo stato
attuale un consenso unanime riguardante tale opzione terapeutica ed ogni decisione dipende dalla singola
Scuola e viene adattata caso per caso. Tra gli elementi che fanno optare per la rivascolarizzazione
miocardica, si possono citare senza ordine di importanza i seguenti: l’aggredibilità delle stenosi ad una
procedura di rivascolarizzazione, la presenza di stenosi prossimali con un letto vascolare distale
relativamente “normale”, la malattia dell’arteria interventricolare anteriore, la necessità di una terapia
antianginosa ad alte dosi per il controllo della sintomatologia, la cattiva tolleranza del paziente alla terapia
medica. Al tempo stesso, la condizione professionale o familiare del paziente o il suo rifiuto categorico ad
un intervento chirurgico costituiscono elementi non medici che possono interferire con la scelta del
trattamento.
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Appunti di cardiochirurgia 19. Ruolo della chirurgia e dell’angioplastica percutanea
Sono oggi disponibili diversi studi che comparano direttamente la chirurgia all’angioplastica coronarica in
pazienti candidati ad una procedura di rivascolarizzazione. Escludendo i pazienti affetti da stenosi del tronco
comune che non vengono inclusi negli studi, non sono state osservate significative differenze in termini di
sopravvivenza tra le due metodiche con, tuttavia, una riduzione dei tempi di degenza, del numero di
reinterventi di rivascolarizzazione, delle recidiva di angina e dell’entità della terapia antianginosa in pazienti
sottoposti ad intervento chirurgico. Nonostante un costo in un primo tempo più elevato in caso di bypass
aortocoronarico, tale aspetto tende ad essere ammortizzato a distanza dall’intervento
È tuttavia da notare che gli studi che hanno contribuito a trarre tali conclusioni (ERACI, RITA, EAST,
GABI, CABRI, ...) sono stati condotti in un periodo precedente all’introduzione delle endoprotesi
coronariche (stent) che hanno contribuito a ridurre il tasso di ristenosi dopo angioplastica. È pertanto
difficile estrapolare tali conclusioni a periodi più recenti durante i quali sono stati infatti rilevati i seguenti
aspetti:
una moderata riduzione del tasso di ristenosi a distanza ricorrendo all’impianto di endoprotesi;
un aumento di complicanze emorragiche legate alla necessità di somministrare un’associazione di farmaci
antiaggreganti piastrinici (aspirina, ticlopidina);
costi più elevati.
La tendenza più diffusa è quella di candidare all’angioplastica pazienti con coronaropatia monovascolare o a
rischio chirurgico aumentato, riservando la chirurgia, oltre alle situazioni già descritte (stenosi del tronco
comune, malattia trivascolare con alterata funzione ventricolare sinistra), a pazienti affetti da coronaropatia
trivascolare e funzione ventricolare sinistra conservata.
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Appunti di cardiochirurgia 20. Indicazioni al bypass aortocoronarico in urgenza
In caso di sindrome ischemica acuta (angina instabile, infarto miocardico) viene talora indicato un intervento
chirurgico di bypass aortocoronarico in urgenza. Tuttavia i pazienti in tali condizioni vengono, in prima
istanza, sottoposti a trattamento medico intensivo comprendente aspirina, eparina, farmaci antianginosi e, in
caso di infarto acuto, ad un tentativo di ricanalizzazione precoce dell’arteria occlusa mediante trombolisi
In anni recenti, i risultati ottenuti dopo ricanalizzazione precoce per mezzo dell’angioplastica percutanea
transluminale dell’arteria coronarica responsabile dell’infarto, hanno suscitato interesse se comparati con
quelli ottenuti dopo trombolisi. I pochi studi disponibili mostrano che la pervietà del vaso viene ottenuta in
un maggiore numero di casi. Ciò si traduce in una ridotta mortalità e una riduzione dell’estensione dell’area
infartuale. I limiti in termini di strutture ospedaliere e di costi limitano attualmente un largo impiego
dell’angioplastica in corso di infarto acuto. L’angioplastica nell’infarto acuto resta comunque indicata, se
tecnicamente realizzabile, in caso di: controindicazioni, anche relative, alla trombolisi; shock cardiogeno;
infarto complicato da insufficienza ventricolare sinistra o destra. L’angioplastica è inoltre indicata in caso di
fallimento della terapia trombolitica, in particolare in presenza di infarto esteso in soggetti giovani.
Poiché la rivascolarizzazione miocardica in corso di infarto acuto è una “corsa contro il tempo”, un
intervento di bypass aortocoronarico in emergenza è solo raramente realizzabile e in ogni caso necessita di
particolare coordinazione tra équipes di diverse branche specialistiche. Vi sono tuttavia situazioni cliniche in
cui è indicato un intervento chirurgico in urgenza.
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Appunti di cardiochirurgia 21. Bypass aortocoronarico in vena grande safena
Resta condotto di scelta per la semplicità di preparazione e facilità di utilizzo (è spesso il condotto a cui si
ricorre in urgenza). La sua durata è correlata alla qualità della vena (assenza di varici e diametro adeguato) e
alla tecnica di prelievo che riduca al minimo i traumatismi dell’intima. Il principale inconveniente risiede
nella ridotta pervietà a distanza che si traduce nel riscontro di malattia ateromasica o occlusione nel 50% dei
casi a 10 anni. Numerosi fattori appaiono implicati del determinare tali risultati. Da un lato è descritta la
trombosi precoce, spesso ascrivibile a cause meccaniche (tecnica chirurgica) e/o emodinamiche (qualità del
condotto e del letto coronarico distale, importante differenza di calibro tra la vena e la coronaria). Da un
altro esistono fenomeni che sopravvengono più tardivamente, come l’iperplasia intimale nel corso del primo
anno postoperatorio (legata all’aggregazione piastrinica provocata da lesioni endoteliali verificatesi durante
l’intervento) e l’aterosclerosi del bypass che si verifica dopo il primo anno postoperatorio e può portare
all’occlusione del condotto.
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Appunti di cardiochirurgia