Appunti del esame Geografia politica ed economica tenuto dal prof A. Capacci, presso l'università di Genova. Si tratta di un excursus geografico, corredato da interessanti dati statistici, trattato da diversi punti di vista: demografico, linguistico, politico ed economico.
Geografia politica ed economica
di Filippo Amelotti
Appunti del esame Geografia politica ed economica tenuto dal prof A. Capacci,
presso l'università di Genova. Si tratta di un excursus geografico, corredato da
interessanti dati statistici, trattato da diversi punti di vista: demografico,
linguistico, politico ed economico.
Università: Università degli studi di Genova
Facoltà: Scienze Politiche
Corso: Scienze Politiche
Esame: Geografia politica ed economica
Docente: A. Capacci1. Confini marittimi
Solo una trentina di stati al mondo (Bolivia, Paraguay, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Svizzera,
Austria, Ungheria, Lussemburgo, Lichtestain, Macedonia, Bielorussia, Armenia, Moldovia, Azerbaija, Mali,
Burkina Faso, Niger, Ciad, Repubblica Centro Africana, Uganda, Ruanda, Burundi, Malawi, Zambia,
Zimbabwe, Etiopia, Botswana, Swaziland, Lesotho, Afganistan, Kazakistan, Uzbekistan, Kirkisistan,
Tagikistan, Nepal, Bhutan, Laos, Mongolia) non hanno sbocco al mare. Alcuni di essi risentono di una
situazione di estremo disagio. La Repubblica Ceca non si affaccia sul mare ma il suo isolamento è assai
attenuato da una fitta rete di collegamenti fluviali e comunicazione di superficie. Di riscontro la Bolivia ha
sofferto molto dopo che in seguito ad una guerra le è stato vietato di usare i porti sulla costa del Pacifico.
Mongolia e Nepal si trovano in una condizione di estremo isolamento aggravato dalla concomitanza di una
grande distanza e di scarse vie di comunicazione. In Africa, il continente con il maggior numero di stati
senza sbocco al mare, i problemi sono generalmente acuti. Gli stati Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad)
hanno scarsi e non sempre sicuri sbocchi al mare. L’Uganda ha un collegamento ferroviario con la costa, ma
Ruanda e Burundi soffrono di una situazione di isolamento cronica. Lo Zimbabwe ha accesso al mare
attraverso la repubblica Sud Africana ed il Mozambico ma Zambia e Malawi risentono dell’instabilità
politica dei paesi rivieraschi confinanti.
Nel sedicesimo secolo alcuni paesi europei iniziavano la loro espansione sulle nuove terre scoperte al di là
degli oceani. Dopo l’impresa di Cristoforo Colombo Spagna e Portogallo si trovarono costrette a
confrontarsi sul problema dell’utilizzazione dei mari. Per regolare la situazione papa Alessandro VI,
considerato unico potere universale, interveniva con la Bolla Inter Coetera (1493) che attribuiva alla
Spagna le terre scoperte e da scoprire ad occidente di una linea reale tracciata da nord a sud a cento leghe ad
ovest delle isole di Capo Verde. Le terre ad oriente di tale linea erano appannaggio della corona portoghese.
Un anno più tardi la suddetta linea chiamata raya, fu spostata a 370 leghe ad ovest della più occidentale delle
isole di Capo Verde con il trattato di Torvesillas. Tale iniziativa fu però contestata da altre potenze europee.
Il mare cominciava a diventare allora un soggetto economico di fondamentale importanza e pertanto
cominciò ad entrare prepotentemente nella politica degli stati. L’idea che uno stato costiero potesse
estendere sul mare prospiciente e le sue coste un qualche tipo di sovranità risale forse al basso Medioevo a
seguito delle rivendicazioni di Venezia sul mar Adriatico e di Genova sul mar Ligure per contrastare
pirateria e contrabbando. La raya, seppur i termini un po’ generali, rappresenta il primo tentativo di
delimitazione del mare. Le prime pretese sulla sovranità sui mari prospicienti gli stati entrarono nel dibattito
giuridico della seconda metà del sedicesimo secolo. I termini mare adiacente ad esempio fu creato da Baldo
Degli Ubaldi così come quello di mare territoriale appare la prima volta nel trattato De Jure Belli di Alberico
Gentili del 1598. Nel 1609 era pubblicato il celebre trattato Mare Liberum del giurista olandese Ugo Grozio
il quale asseriva che nessun stato poteva rivendicare alcuna sovranità sul mare a causa, in primo luogo
dell’impossibilità di occupare e delimitare un qualcosa di spazialmente sconfinato come gli oceani. Grozio
naturalmente difendeva gli interessi della compagnia olandese delle Indie Orientali di fronte alle pretese,
ancora in atto, di Spagna e Portogallo. La più nota ma non unica risposta arrivò dall’inglese John Selden che
nel suo trattato Mare Clausum Seu de Dominio Maris del 1635, ove è affermato che il mare, al pari delle
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Geografia politica ed economica terre emerse è suscettibile di appropriazione. Così alla corona inglese sarebbe spettato il controllo e la
sovranità dei mari circostanti l’arcipelago. Tale pretesa era naturalmente rivolta a limitare l’azione olandese,
nei mari prossimi alla Gran Bretagna, interdicendo loro dall’attività di pesca in tali acque. Nel 1702 un altro
giurista olandese Cornelio Van Bynkershoek, nel suo trattato De Dominio Maris Dissertatio, bilanciava in
un certo senso gli interessi della sicurezza con quelli della libertà di dominazione. Il controllo effettivo del
mare a suo parere poteva essere esercitato soltanto: ubi finitur armorum vis, cioè solo tenendo conto del
limite di tiro delle artiglierie del tempo. Se l’idea di un mare territoriale, nettamente distinto da un alto mare,
ove avrebbe dovuto vigere un regime di libertà, era così ratificata, la sua estensione era oggetto di dibattito e
trovava sostegno e/o giustificazione nei limiti più disparati. Il giurista Locenius sosteneva una distanza dalle
coste tale da poter essere coperta in due giorni di navigazione. In molti altri casi veniva occasionalmente
utilizzato il limite fissato dall’orizzonte visivo. Ma l’idea di una fascia larga quanto la gittata dei cannoni
dovette prevalere e la sua definizione quantitativa, tre miglia marine, si deve all’italiano Ferdinando
Galliani, che nel suo volume De’ Doveri dei Principi Neutrali verso i Principi Guerreggianti del 1782,
proponeva l’introduzione di tale limite, distanza che: sicuramente era maggiore ove con la forza della
polvere finora conosciuta si possa spingere una palla o una bomba. Tale limite trovò numerosissime
conferme nella pratica internazionale così come in quasi tutta la dottrina dal diciottesimo all’inizio del
diciannovesimo secolo. La sua consacrazione si ebbe con Territorial Water Girisdiction Act del 1878 con il
quale il Regno Unito definiva ufficialmente la sua giurisdizione sul mare a tre miglia marine della linea della
bassa marea. L’estensione di tre miglia marine non fu però mai universalmente accettata, essendo via via
rivendicate da vari paesi misure diverse: quattro miglia per Svezia e Norvegia, sei miglia per Spagna e
Portogallo, dodici per la Russia, ecc.
Agli inizi del secolo scorso i molteplici interessi economici riposti sul mare cominciarono a riflettere
l’inadeguatezza delle varie misure introdotte dalla prassi che avevano poi evidenti ricadute in una grande
confusione sia nella dottrina che nella pratica. Accanto alle abituali materie (navigazione, pesca, protezione
doganale) cominciavano ad affermarsi nuove attività come lo sfruttamento degli idrocarburi o la ricerca
scientifica e si manifestavano nuove preoccupazioni, come la protezione dell’ambiente marino. Nell’intento
di adattare le norme giuridiche internazionali a queste nuove esigenze, nel 1930 l’allora società delle nazioni
convocava una conferenza all’Aja con lo scopo primario di codificare i principi generali che si potevano
desumere dalla prassi. La conferenza non riuscì nel suo intento. In particolare si poté solo prendere atto delle
divergenze di opinione sull’ampiezza del mare territoriale e senza fornire una soluzione definitiva ma solo
con la generica affermazione che: la sovranità dello stato si estende ad una zona di mare adiacente alle sue
coste, designata con il nome di mare territoriale. In una successiva conferenza delle Nazioni Unite, tenutasi a
Ginevra nel 1958, erano adottate una serie di convenzioni, riguardanti il mare territoriale e la zona contigua,
l’alto mare, la pesca, la piattaforma continentale. Il limite massimo attribuito al mare territoriale non poteva
oltrepassare le dodici miglia, limite massimo entro il quale potevano essere esercitati controlli in materia di
polizia doganale, fiscale, sanitario o di immigrazione. In altre parole l’estensione delle acque territoriali
rimaneva un problema aperto. Basti pensare che alcuni paesi latino americani (in particolare Cile, Ecuador e
Perù) rivendicavano un ampliamento dei termini della sovranità esclusiva sulle acque comprese entro le
duecento miglia dalla costa, e ciò per: asegurar a sus pueblos las necesarias condiciones de subsistencia y
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Geografia politica ed economica procurarle los medios para su desarrollo economico. Nel 1960 era convocata Ginevra un’ulteriore
conferenza sul diritto del mare nel corso della quale non si riuscì a trovare la necessaria intesa. Per porre
rimedio a questa situazione l’assemblea generale delle Nazioni Unite stabiliva la convocazione di una
ulteriore conferenza che si riuniva per la prima volta a Caracas nel 1973, e dopo undici sessioni concludeva
i suoi lavori a Montego Bay in Giamaica nel 1982. La convenzione, composta da 320 articoli e 9 allegati
non otteneva ovviamente il consenso generale per le problematiche e le rivendicazioni specifiche proposte
da alcuni paesi, ed entrava ufficialmente in vigore nel 1994. Le disposizioni fondamentali sono le seguenti:
acque territoriali: sono una zona di mare prospiciente il territorio sulle quali lo Stato esercita la propria
sovranità nelle condizioni previste dal diritto internazionale. L’estensione delle acque territoriali è fissata dai
vari stati prospicienti, ma non può superare le dodici miglia marine. Tali acque sono misurate a partire da
una linea di base normale identificata come la linea di bassa marea. Numerose però sono le eccezioni a tale
criterio, che dipendono da particolari condizioni della costa. Se questa infatti ha andamento sufficientemente
rettilineo non vi sono particolari difficoltà, ma se essa è particolarmente frastagliata o se esistono isole nella
sua immediata prossimità è normalmente applicato il metodo delle linee di base rette che congiunge i punti
più sporgenti o capisaldi. Un metodo specifico per la delineazione di tale linea è quello degli archi di
circonferenza. In questo caso si considerano i punti più sporgenti dalla costa e facendo centro su di essi si
tracciano cerchi di ampiezza pari all’estensione delle acque territoriali. Il limite totale è così dato dai
segmenti di retta che congiungono gli apici dei singoli archi. Una linea così costruita può sembrare
artificiosa, se pensata in termini di terra ferma, ma è estremamente semplice in termini di navigazione. Il
marinaio dovrà puntare il compasso sul suo punto nave aprendolo quanto l’estensione del mare territoriale, e
così potrà immediatamente verificare eventuali intersezioni con la linea di base;
zona contigua: tale fascia di mare trova un suo lontano antecedente in alcune prese di posizione della Gran
Bretagna che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo esercitava de facto controlli fiscali e doganali sulle
navi dirette verso i suoi porti entro la distanza di dodici miglia dalla costa. Analoghe pretese erano avanzate
dagli Stati Uniti dopo la proclamazione di indipendenza e poi negli anni del proibizionismo per reprimere il
commercio di bevande alcoliche. L’estensione massima della zona contigua è fissata entro un limite
massimo di dodici miglia dal limite esterno delle acque territoriali. Entro tale zona lo stato costiero può
esercitare il controllo necessario per prevenire e/o reprimere le infrazioni alle sue leggi fiscali, doganali,
sanitarie e d’immigrazione. All’interno di essa le navi e le aeromobili di tutti gli altri paesi hanno diritto di
navigazione e di sorvolo e può essere esercitata liberamente la pesca almeno che lo stato costiero non abbia
identificato e proclamato zone riservate in favore dei propri cittadini. Le stesse navi da guerra possono
svolgervi attività operative ed addestrative, compreso l’uso di armi senza che lo stato costiero possa
pretendere di intervenire;
zona economica esclusiva: trova i suoi precedenti nelle già ricordate rivendicazioni di Cile, Ecuador e Perù
così come nella cosiddetta dichiarazione Truman, che nel 1945 annunciava: il governo degli Stati Uniti
considera le risorse naturali nel sottosuolo e nel fondo marino della piattaforma continentale, appartenenti
agli Stati Uniti, soggette alla loro giurisdizione ed al loro controllo. Da ricordare che la dichiarazione
americana era immediatamente confermata dal vicino Messico e dall’Argentina che, un anno più tardi,
estendeva analoghe pretese anche sulle acque soprastanti la piattaforma continentale. La zona economica
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Geografia politica ed economica esclusiva può estendersi fino ad un massimo di duecento miglia marine dalla linea di base. Si tratta di
un’area adiacente alle acque territoriali in cui lo stato costiero ha la prerogativa di esplorare, sfruttare e
conservare le risorse naturali nell’acqua, nei fondali marini e nel sottosuolo. Agli altri stati spettano invece
la libertà di navigazione, di sorvolo e di posa di cavi e condotte sottomarini, oltre la libertà di utilizzare il
mare ad altri fini internazionalmente leciti. La previsione di attività diverse che possono svolgersi nella
stessa zona ad opera di stati diversi richiede la predisposizione di una scala di priorità. Anche se non
mancano regole specifiche in generale la convenzione dispone che sia lo stato costiero che quelli tersi
debbano tenere conto dei diritti altrui entro la zona economica esclusiva. Tale regime si ispira ad un
esclusivismo in un certo modo attenuato che pur lasciando allo stato costiero la priorità, o se così si può dire,
il ruolo da protagonista persegue anche l’obbiettivo di impedire che le varie riserve, in special modo
alimentari, vadano perdute per mancanza di una loro utilizzazione ottimale. Lo stato costiero fissa il volume
delle catture e prende le misure appropriate per evitare che le risorse siano compromesse da uno
sfruttamento eccessivo. Qualora le sue capacità di sfruttamento siano inferiori al volume ammissibile delle
catture, lo stato costiero autorizza altri stati ad accedere al volume di pesca residuo. Gli stati ammessi di
riscontro devono conformarsi alle misure di conservazione ed alle altre condizioni fissate dalle norme dello
stato costiero. Quando ci sono meno di quattrocento miglia nautiche tra un paese e l’altro, in modo che
nessuno dei due può estendere univocamente la zona economica esclusiva a duecento miglia, si fa ricorso al
cosiddetto principio della linea mediano o di equidistanza. Gli stati che si trovano su coste prospicienti si
dividono in tal modo le acque stabilendo un intricato sistema di confini marittimi che molto spesso, come
nel caso del mare del Nord, ha dato origine a complesse dispute confinarie;
la piattaforma continentale: le terre emerse sono circondate, al di sotto del livello del mare, da un uno
zoccolo o piedistallo continentale che si inabissa con un angolo di pendenza così debole da passare quasi
inavvertito. Ad una profondità di circa duecento metri l’angolo di pendenza aumenta e il pavimento
sottomarino scende bruscamente verso gli abissi. A tale zona di scarsa pendenza, considerata piatta nei
confronti della successiva scarpata oceanica, è stata attribuita la denominazione di piattaforma continentale.
Questa orla quasi tutti i continenti e presenta variazioni di ampiezza di fatto variabili tra dieci ed oltre mille
chilometri. Le piattaforme costiere più estese si riscontrano in Europa settentrionale, dove isole come
l’Irlanda e la Gran Bretagna potrebbero essere saldate al continente, sia a sud che ad est, solo che il livello
del mare si abbassasse di un centinaio di metri. Il mar Glaciale Artico ha una vasta orlatura anulare dalla
quale emergono grandi isole come la Nuova Zemlya, la Nuova Siberia, Wrangler e gran parte del vasto
arcipelago canadese. La piattaforma continentale che contorna l’Antartide è invece alquanto ristretta. Una
piattaforma cospicua orla l’Asia sud orientale, ove si può notare la contiguità con l’arcipelago malese. Altra
zona di ampia piattaforma è quella antistante l’Argentina, dalla quale emergono le isole Falkland o Malvine,
rivendicate dallo stato sud americano proprio in ragione di tale situazione geomorfologica. La genesi della
piattaforma continentale trova ragione nei processi di ingressione e regressione marina dal quale sarebbero
state interessate le zone costiere continentali almeno dalla fine del Miocene. Si tratta pertanto di un prodotto
di preminente abrasione marina alternativamente costituita da pause subaeree durante le quali il
modellamento è stato di tipo continentale. I fattori che hanno contribuito alla formazione di norme
consuetudinarie in tema di piattaforma continentale sono derivati dai progressi tecnici che hanno aperto
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Geografia politica ed economica significative prospettive per lo sfruttamento delle risorse minerarie (soprattutto idrocarburi) contenute nei
fondali marini di ridotta profondità adiacenti alle masse continentali di cui costituiscono il prolungamento
ed estesi anche oltre i limiti della acque territoriali. La piattaforma è geologicamente una continuazione dei
continenti, è composta dallo stesso tipo di rocce con buona probabilità contiene gli stessi minerali. Il metodo
più efficace per raggiungere tali risorse è quello di gettare sonde dalle acque sovrastanti tramite navi o
piattaforme galleggianti. Oggi vengono estratti in questo modo solo materiali fluidi come petrolio e gas
naturali, ma non c’è alcun motivo per escludere una successiva estrazione di altri minerali. Nel 1942 l’isola
di Trinidad, rappresentata dalla Gran Bretagna, e Venezuela concludevano un trattato per la delimitazione
dei fondali marini nel Golfo di Paria, al di là delle rispettive acque territoriali. Nel 1945 gli Stati Uniti con il
già ricordato proclama Truman, assoggettavano alla propria giurisdizione le risorse del sottosuolo e del
fondo della piattaforma continentale poste in alto mare ma contigua alle coste statunitensi. A tale
dichiarazione facevano seguito le rivendicazioni di un’altra ventina di paesi che in buona parte avevano
motivo di ritenere che al largo delle loro coste fosse possibile estrarre petrolio. Alcuni in particolare non si
limitavano al solo diritto di utilizzare le risorse minerarie, ma pretendevano la sovranità. Il Messico ad
esempio affermava i suoi diritti su tutta la piattaforma continentale adiacente le sue coste e su tutte le
ricchezze naturali in essa contenute e che in essa sarebbero state successivamente scoperte. Analoghe
pretese erano avanzate da Argentina, Cile e Perù,. L’Ecuador rivendicava il diritto di sovranità fino a
duecento miglia dalla costa anche se la piattaforma continentale prospiciente le sue coste non si estende in
media oltre le quaranta miglia. Tali rivendicazioni non erano naturalmente dettate dalla convinzione
dell’esistenza di sacche petrolifere. L’Argentina ad esempio riproponeva l’annessione delle isole Falkland,
già da lungo tempo rivendicate. Cile e Perù, in linea di massima, tendevano ad affermare il loro controllo
esclusivo sui pescosi mar prospicienti. Alla conferenza di Ginevra del 1958 il problema, rivolto in particolar
modo alla definizione della profondità alla quale la piattaforma continentale lascia il posto alla scarpata
oceanica, fu oggetto di prolungate discussioni. La cifra adottata nella convenzione fu quella di duecento
metri e si rifaceva ad un criterio batimetrico in alternativa al limite della sfruttabilità, definendo come
piattaforma continentale: il letto del mare ed il sottosuolo delle regioni sottomarine adiacenti alle coste, ma
situate al di fuori del mare territoriale fino ad una profondità di duecento metri o, al di là di questo limite,
fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti permette lo sfruttamento delle risorse naturali delle
predette regioni. Se la profondità di duecento metri sembrava all’epoca una misura difficilmente
raggiungibile, il limite della possibilità di sfruttamento costituiva un elemento di instabilità e determinava la
possibilità di ulteriori rivendicazioni. Così Arabia Saudita, Repubblica Araba Unita e quasi tutti gli stati
prospicienti il golfo persico rivendicarono il loro diritto di sovranità sulle rispettive aree adiacenti della
piattaforma. Nel Golfo Persico però non esiste una piattaforma in senso stretto dal momento che non esiste
né scarpata continentale né platea. I confini tra le aree di rispettivo sfruttamento furono perciò lasciati alle
decisioni di quegli stessi stati.
Dopo la conferenza di Montego Bay i diritti spettanti allo stato costiero nella sua zona economica esclusiva
erano estesi anche alle risorse sottomarine determinando confusione, totale o parziale, fra piattaforma
continentale e fondo della zona economica esclusiva. Di riscontro considerato che i fondali marini posti al di
fuori della giurisdizione dei vari paesi rientrano nell’area ove si applica il regime del patrimonio comune
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Geografia politica ed economica dell’umanità era necessario porre un limite che distinguesse in modo preciso due spazi sottoposti a regimi
diversi. La definizione recepita si basa sul concetto di margine continentale, posto in alternativa con il
limite delle duecento miglia: la piattaforma continentale di uno stato costiero comprende i fondi marini ed il
loro sottosuolo al di là del suo mare territoriale, per tutta l’estensione del prolungamento naturale del
territorio di questo stato fino al bordo esterno del margine continentale o fino a duecento miglia marine dalle
linee di base a partire dalle quali è misurato il mare territoriale quando il bordo esterno del margine
continentale si trova ad una distanza inferiore. In tal modo anche i paesi meno favoriti geologicamente,
dotati cioè di un margine continentale di dimensioni ridotte, possono comunque avvalersi di diritti sovrani
sui fondi marini prospicienti i loro territori entro il limite di duecento miglia corrispondente all’estensione
della zona economica esclusiva. Nel contempo onde evitare un eccessivo ampliamento nei fondi marini è
previsto che il limite esterno della piattaforma non possa eccedere e trecento cinquanta miglia dalle linee di
base o le cento miglia dall’isobata dei duemila cinquecento metri.
Le risorse naturali della piattaforma comprendono le risorse minerarie e gli organismi viventi appartenenti
alle cosiddette specie sedentarie. Nella piattaforma come nella zona economica esclusiva lo stato costiero ha
il diritto esclusivo di costruire o regolamentare la costruzione e l’utilizzazione di isole artificiali,
installazioni e strutture destinate a fini economici o che possono interferire con l’esercizio dei diritti dello
stato costiero. Dettagliate prescrizioni riguardano i potenziali conflitti fra i diritti degli stati costieri e la
libertà di navigazione. Isole artificiali, installazioni e strutture non possono essere collocate ove rechino
intralcio all’uso di percorsi riconosciuti essenziali per la navigazione internazionale. Allo stesso tempo
installazioni e strutture abbandonate devono essere rimosse per assicurare la sicurezza della nazione. I diritti
dello stato costiero sulla piattaforma non pregiudicano il regime giuridico delle acque sovrastanti o dello
spazio aereo al di sopra di tali acque. Tali prerogative non devono pregiudicare la navigazione o i diritti
riconosciuti agli altri stati né intralciarle. In particolare lo stato costiero non può impedire la posa o la
manutenzione di cavi ed oleodotti sottomarini previa la verifica dei processi di inquinamento prodotti dagli
stessi.
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Geografia politica ed economica 2. Definizione di isole ed arcipelaghi
Come già detto, un’isola è considerata un’estensione naturale di terra, circondata dal mare che resta emersa
durante l’alta marea. Nel corso dei vari incontri della conferenza di Mantego Bay fu anche proposto di
considerare l’isola come territorio continentale quando la sua estensione superava il 10% del territorio di
appartenenza, oppure il 10% della popolazione. Un’altra ipotesi fu quella di determinare una distanza
minima dalla costa per distinguere i due regimi giuridici. Tutto ciò però rimase a livello teorico e dopo la
conferenza di Montego Bay solo gli scogli non adatti a stanziamenti umani permanenti o all’espletamento di
attività economiche non sono tenuti in conto ai fini della delimitazione del mare territoriale. Se l’isola è
abbastanza grande da offrire la possibilità di tracciare una linea di base normale propria essa viene dotata di
un mare territoriale nello stesso modo che per la terra ferma. Se al contrario l’isola è piccola e con linea di
costa irregolare è possibile delimitare il mare territoriale con gli archi di circonferenza. Il termine arcipelago
significava in greco mare principale, che a quell’epoca era il nome del mar Egeo. Essendo questo mare
disseminato di isole, il termine divenne sinonimo di mare costellato di isole. L’evoluzione del temine ha poi
portato all’odierno significato di gruppo di isole. Fino ai primi decenni del secolo scorso sia la dottrina che
la prassi non prestarono molta attenzione agli arcipelaghi relegando i problemi al buon senso degli stati
interessati. L’affermarsi dell’utilizzo delle linee di base per il calcolo dell’estensione delle acque territoriali
doveva però costringere la giurisprudenza a vagliare se e come la linea di base arcipelagica potesse essere
compresa entro la linea di base dello stato costiero. In altre parole era necessaria una regolamentazione per
disciplinare gli spazi marini tra le isole arcipelagiche e tra l’arcipelago e la terra ferma. Una prima proposta
insisteva sul fatto che il mare territoriale di un arcipelago doveva essere calcolato partendo dalla linea di
base congiungente le isole più esterne se queste non distavano tra loro più del doppio dell’estensione del
mare territoriale. Tale spazio marino diventava così parte integrante delle acque territoriali. Nel 1930 Boggs
suggeriva un’ulteriore metodo per definire il mare territoriale di un gruppo di isole eliminando le sacche di
alto mare. Ciò era ottenuto prendendo come limite definitivo la linea di unione degli archi di circonferenza
più esterni delle varie isole.
Il moderno concetto di arcipelago manca ancora di una definizione che potremmo dire consuetudinaria. In
senso generale vi è accordo sul concetto di gruppo di elementi naturali che sono oggetto di un regime
giuridico proprio. In primo luogo però deve essere chiarito in termini numerici lo stesso termine gruppo. In
secondo luogo rimane ancora aperto il problema di quali elementi naturali si possano enumerare nella
definizione di gruppo: solo isole oppure isole, scogli e bassifondi?
Lo stesso collegamento tra i vari elementi del gruppo può essere inteso solo geograficamente o tenendo
anche conto di aspetti sociali, economici, storici. La convenzione di Montego Bay riconosce questo criterio
più aderente ala realtà in quanto identifica come arcipelago: un gruppo di isole ivi incluse parti di isole, le
acque comprese ed altri elementi naturali, che siano così strettamente interconnessi tra loro da formare un
unico insieme geografico, economico e politico, oppure siano storicamente considerati come tale. La
formazione di stati arcipelago ha comportato anche la creazione delle acque arcipelagiche che esternamente
sono delimitate da una linea di base arcipelagica. Per quanto riguarda le acque interne la sovranità sulle
acque arcipelagiche non è totale. Infatti lo stato arcipelago deve rispettare i diritti di altri stati derivanti da
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Geografia politica ed economica accordi precedenti o che riguardano gli interessi di pesca e permettere il transito inoffensivo delle navi
straniere nonché il cosiddetto passaggio arcipelagico che si svolge su corridoi prestabiliti che collegano zone
di alto mare.
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Geografia politica ed economica 3. Definizione di baie storiche
La nozione di baia storica non è codificata nel diritto internazionale. La normativa vigente prevede infatti
che baie storiche costituiscano una eccezione al principio secondo cui lo stato costiero ha il diritto di
indicare come acque interne le insenature aventi una superficie almeno uguale a quella del semicerchio il cui
diametro sia costituito dalla linea di base non eccedente le ventiquattro miglia tracciata tra i punti di entrata,
o le profonde frastagliature all’interno di un sistema complessivo di linee di base anche mediante il
tracciamento di linee di entrata superiori alle ventiquattro miglia. In assenza di norme specifiche è pertanto
necessario rifarsi ad una prassi generale che annovera numerosi esempi di baie proclamate storiche come
quella Hudson (cinquanta miglia di apertura), quella di Pietro il Grande (centododici miglia di apertura), il
Golfo di Taranto (sessanta miglia), il Golfo della Sirte (trecentosei miglia) o lo stesso Mar del Plata. Il
termine fu usato per la prima volta alla fine del diciannovesimo secolo nel corso di una riunione dell’Istituto
di Diritto Internazionale ove fu riconosciuta come legittima la proclamazione di sovranità su una baia purché
supportata da un uso costante e secolare da parte del paese interessato. Successivamente la nozione fu
applicata dalla corte di giustizia dell’America centrale nel caso della rivendicazione del Golfo di Fonseca da
parte di….. considerata l’esistenza di tutte le condizioni necessarie ed il consenso da parte delle altre nazioni
e la necessità degli stati costieri di possedere le acque del golfo per le proprie esigenze vitali.
Un esempio significativo di baia storica potrebbe essere quello del Golfo di Venezia, termine con cui la
Serenissima indicava l’intero Adriatico su cui pretendeva di esercitare giurisdizione marittima esclusiva
interdicendo l’accesso di navi da guerra e mercantili stranieri non autorizzati. La pretesa veneziana era
teorizzata da Paolo Sardi e più tardi ridimensionata dal Cussy che più realisticamente limitava il Golfo di
Venezia alla parte più settentrionale dell’Adriatico tra la foce del Po e l’Istria.
Altro caso emblematico può essere considerato quello del Golfo della Sirte chiuso dalla Libia nel 1973
tramite il tracciamento di una linea di base di trecentosei miglia tra le città di Bengasi e Misurate. La
superficie dell’area, nettamente inferiore a quella del semicerchio avente come diametro la linea di chiusura
e le stesse connotazioni generali della costa fanno si che l’insenatura non possa definirsi baia né dal punto di
vista giuridico né da quello geografico. Per questi motivi gli Stati Uniti eccepivano la risoluzione sin dal
primo momento per passare poi tredici anni più tardi alla nota fase di confronto militare che vedeva
contrapposti i due paesi. Le pretese libiche si rifacevano in parte all’affinità con il prospiciente golfo di
Taranto e all’esercizio della giurisdizione sull’area nel periodo della dominazione italiana quando, furono
emanate disposizioni intese a regolamentare la pesca delle spugne al di là del limite delle acque territoriali,
estese allora a tre miglia. In relazione a queste premesse è opinione quasi generale che la chiusura del golfo
della Sirte, riconosciuta formalmente solo da Siria e Sudan, sia illegittima.
Il golfo di Taranto è chiuso da una linea della lunghezza di sessanta miglia tracciata tra Capo di Santa Maria
di Leuca e Punta Alice. Le sue dimensioni sono tali da legittimarie la qualificazione, in senso giuridico, così
come la sua particolare conformazione, ne rende evidente la sottoposizione al dominio terrestre che è uno
dei presupposti fondamentali per l’esercizio dei diritti esclusivi di sovranità. Gli elementi su cui si basa la
storicità non sono per altro mai stati indicati dal nostro paese, tanto che non poche sono state le riserve
avanzate da parte della dottrina internazionalistica ed in particolare dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna.
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Geografia politica ed economica Di riscontro, la storicità del Golfo di Taranto è meno evanescente di quanto affermato da gran parte della
dottrina internazionalistica. La chiusura del Golfo rappresenta infatti un punto di arrivo di un millenario
processo storico nel corso del quale, a più riprese, vi è stata coscienza e volontà di considerare il Golfo
come area di esclusivo dominio.
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Geografia politica ed economica 4. Definizione di frontiera
I territori degli stati sono separati tra loro da confini che sulle carte appaiono talvolta rettilinei, talvolta
sinuosi e aderenti alle emergenze geomorfologiche del territorio. Il confine, costituito da una serie di punti
uniti da segmenti di retta, non è però soltanto una linea tracciata sul terreno, è un piano verticale che taglia
entro limiti ben definiti il sottosuolo fino al centro della terra e lo spazio aereo sino ad una certa altitudine. I
confini che noi vediamo sulle carte rappresentano quindi l’intersezione di questo piano sulla superficie
terrestre.
Il confine indica un limite comune, una separazione tra spazi contigui: è un modo per stabilire in via pacifica
il diritto di proprietà. E’ quindi la materializzazione dei limiti dello Stato e la sua articolazione si basa su
accordi internazionali che ne impediscono i cambiamenti unilaterali. Ben diverso il significato di frontiera
che, a seconda dei luoghi e dei tempi, può assumere via via valori diversi. L’italiano frontiera, come lo
spagnolo frontera, il francese frontieré o l’inglese frontier, racchiudono nella loro etimologia l’idea di essere
di fronte a qualcuno o a qualcosa. Tale fronte lascia anche intendere l’idea di mobilità, di costante
trasformazione: la frontiera in effetti trova il suo fondamento più nelle aspirazioni di una comunità che non
in motivazioni strettamente geografiche. Come scriveva Lattimore: solo dopo che, in una comunità, si è
formata l’idea di una frontiera, questa può essere ricollegata ad una certa configurazione geografica. La
coscienza di appartenere ad un gruppo il quale include certe popolazioni e ne esclude altre, precede le
consapevoli rivendicazioni di quel gruppo. Per Ratzel la frontiera è costituita dagli innumerevoli punti sui
quali un movimento organico si arresta per la reazione di una forza contraria o per la volontà di non
procedere oltre. Il fronte, come in gergo militare, è quindi il luogo dove forze contrapposte si scontrano; non
disegna una linea, ma definisce piuttosto una fascia più o meno ampia che dipende dai rapporti che
intercorrono tra una parte e l’altra.
In alcune lingue (come italiano e francese) i due termini sono spesso usati come sinonimi, in altre (inglese)
mantengono una distinzione assai netta. Generalmente la frontiera diventa confine quando un paese
raggiunge i suoi limiti naturali, evita cioè di ingrandirsi ulteriormente, segno che l’edificazione territoriale è
per i più acquisita. Frontiera e confine manifestano in tal senso la loro caratteristica più distintiva. La
frontiera è qualcosa in continua evoluzione, è instabile, e queste incertezze si percepiscono non solo a livello
spaziale, ma anche nella lingua e nelle consuetudini di una società. Stabilire un confine significa invece
definire uno spazio da cui partire ed a cui fare riferimento, una linea sicura e stabile almeno fino a quando
non si modifichino le condizioni che l’hanno determinata. In altre parole il confine separa due entità in
maniera più netta di quanto faccia la frontiera: il primo ha un andamento ben definito e deciso, la seconda
con le sue frange, grandi o piccole, crea spazi che il confine tende a ridurre al minimo.
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Geografia politica ed economica 5. La terra di nessuno
Oltre tali limiti si apre la terra di nessuno, ciò che sta tra le due sponde, tra i margini di due paesi, tra due
differenti realtà. Si tratta di una fascia marginale, per lo più disabitata ed inutilizzata, in cui le due parti che
vi si affacciano possono addentrarsi di tanto in tanto, ma che non viene reclamata o controllata né dall’una
né dall’altra. E’ il luogo ove le norme e la prassi stabilite dalla confinistica non valgono più. A volte la terra
di nessuno è la semplice conseguenza dell’impossibilità di determinare limiti in zone desertiche, forestali o
palustri. In altri casi può essere uno spazio neutrale che due o più parti stabiliscono reciprocamente e la cui
dimensione varia in funzione dei rapporti tra loro esistenti. Più grande è la tensione o il sospetto nei
confronti dell’altro, maggiore sarà la sua profondità. Si tratta di un concetto di confine assai rozzo che nel
passato, come osservava Ratzel, dovette spesso risultare rischioso e talvolta letale per la sopravvivenza di
molti popoli. L’utilizzazione di terre di nessuno è una consuetudine che ancor oggi può trovare riscontro in
alcune zone della terra ove le tensioni tribali sono forti ed incontrollabili da parte del potere centrale. In
Somalia, ad esempio, molti gruppi etnici erano, e sono soliti frapporre tra i loro territori zone neutre,
costituite da aree aride ed incolte, chiamate genericamente haud, cioè deserto.
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Geografia politica ed economica 6. L'uso di confini in una prospettiva storica
Le testimonianze dell’uso di confini sono antiche quanto le stesse civiltà, ma la loro natura e lo stesso
significato del termine sono mutati col trascorrere del tempo. Alcuni fanno riferimento all’antico Egitto, al
mondo greco o a quello romano ove, in molti casi, le delimitazioni territoriali venero ad assumere anche un
carattere tecnico. In linea di massima si trattava però di confini interni, ragionati soprattutto in funzione
della proprietà terriera; quanto pertinente all’esterno era cosa ben diversa. Un qualcosa più assimilabile alla
frontiera, che separava da un mondo esterno, , poco conosciuto ma soprattutto diverso e spesso considerato
ostile; e ciò anche quando tali limiti erano manifestati da opere architettoniche come i limes romani o la
stessa Grande Muraglia Cinese. I romani infatti erano soliti fissare i limiti del loro impero lungo i fiumi
(Reno e Danubio in particolare), integrandoli con mura e terrapieni, o valli. Opere di tal genere non erano
certamente molto efficaci dal punto di vista militare, ma lo scopo prioritario era quello di monitorare le tribù
barbare che si trovavano dall’altra parte. Anche la Grande Muraglia, seppur molto più strutturata ed efficace
in termini difensivi, aveva la funzione di dividere inequivocabilmente quanto era territorio, e civiltà, cinese
da ciò che non lo era.
Allo stesso tempo, malgrado sia spesso evidenziato come il trattato di Verdun, stipulato tra Ludovico il
Germanico, Carlo il Calvo e Lotario nella prima metà del nono secolo, sia il primo esempio di una divisione
territoriale tra grandi unità politiche, bisogna ricordare che il concetto di sovranità nella società feudale era
assai diverso dal nostro. Il sovrano medievale non aveva infatti un’idea precisa dell’entità e delle
configurazione del suo territorio, quanto piuttosto delle popolazioni a lui fedeli che lo abitavano. I confini
erano tracciai con chiarezza solo a tratti, laddove cioè si rendeva necessaria una maggiore precisione per
qualche speciale motivo. Come ben osserva Pounds: una caratteristica propria della geografia politica
dell’epoca feudale era la sua carta politica a chiazze; le proprietà frammentate erano comunissime ed erano
rese possibili dalla natura decentrata del potere.
Un approccio nuovo verso la confinistica inizia quando, all’affacciarsi dell’idea di coscienza nazionale, i
vari stati moderni cominciano a costituirsi in modo sistematico e sono quindi attenti a definire in termini
puntuali i limiti del loro territorio.
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Geografia politica ed economica 7. Definizione, delimitazione e demarcazione dei confini
Le trattative per la costruzione di un confine comprendono varie fasi che, a grandi linee, possono essere così
riassunte: definizione, con la quale si individua la scelta del luogo, in genere definito zona di frontiera, ove
far passare il confine. La sua istituzione si attua con una sorta di trattato, frutto degli accordi tra le parti in
causa, nel quale si descrivono gli elementi concreti del paesaggio o quantomeno si determinano i riferimenti
astronomici (latitudine e longitudine) di alcuni punti. Il secondo passo è la cosiddetta delimitazione, ossia la
trascrizione di quanto sopra in termini cartografici. L’operazione presenta, come ovvio, problematiche
differenti specialmente in relazione alla maggiore o minore conoscenza e relativa copertura cartografica dei
territori in questione, che comunque, anche quando minuziosa e corretta, non può rappresentare in assoluto
tutte le realtà presenti. La terza fase consiste nella demarcazione, ossia nella verifica e concretizzazione sul
terreno di quanto precedentemente stabilito. Questo compito spetta ad una commissione costituita da
rappresentanti governativi delle parti in causa, topografi e in alcuni casi militari con il compito di scortare il
gruppo. Dalla prassi è possibile individuare alcune situazioni specifiche di delimitazione:
delimitazione completa: descrizione puntuale della linea di confine per cui la successiva demarcazione
diventa spesso una automatismo. Tale procedura non elimina del tutto la difficoltà di identificare sul terreno
i punti prestabiliti, specialmente nel caso di confini estesi e definiti prima di avere una buona conoscenza del
territorio (ad esempio quello tra Stati Uniti e Canada che segue per quasi 2.000 chilometri un arco di
parallelo);
delimitazione completa con possibilità di deviazione: la commissione incaricata della demarcazione può
effettuare, senza particolari formalità, variazioni del tracciato per risolvere specifici problemi (tale
condizione fu prevista ad esempio agli inizi del secolo scorso dagli accordi tra Argentina e Cile e qualche
decennio più tardi in quelli tra Lettonia ed Estonia, in relazione al principio di omogeneità delle aree
economiche);
delimitazione dei punti di vertice: è la pratica più comune che consiste nell’individuazione di punti precisi,
prima riconosciuti e successivamente definiti attraverso le coordinate geografiche;
delimitazione delle caratteristiche geomorfologiche del terreno: consiste nell’utilizzazione di riferimenti
geomorfologici del territorio. Pur essendo teoricamente preciso, il metodo presenta non pochi problemi nella
pratica, non essendo i supporti cartografici perfettamente rispondenti alla realtà territoriale.
Anche la confinistica, come altre materie, è stata oggetto di classificazioni che tengono conto ora del punto
di vista morfologico, ora della valenza, ora dell’evoluzione e della genesi dei confini.
Anche un’occhiata superficiale alla complessa situazione generale mette in rilievo che nel mondo i confini
presentano condizioni geografiche, ma anche evoluzioni storiche e funzionalità differenti. Alcuni confini
seguono linee rette che possono essere evidenziate da opere dell’uomo, altri archi di meridiani e/o paralleli,
altri ancora si conformano a tratti del paesaggio naturale come fiumi, monti, laghi. Per questa ragione, una
delle più datate, e direi consueta, classificazione è quella che ripartisce gli attuali confini in due tipologie:
quella dei confini fisici o naturali, che tendono cioè a conformarsi con evidenti richiami del territorio, e
quella dei confini artificiali altrimenti definiti come geometrici, astronomici, matematici, che poggiano
invece su costruzioni teoriche. Va da sé che non si può propriamente parlare di confini migliori o peggiori,
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Geografia politica ed economica di confini perfetti o di confini incerti, quando la definizione degli stessi è comunque opera di società umane
tra loro correlate. La bontà e la sicurezza di un confine dipendono infatti prima di tutto dal grado di
relazione che intercorre tra i paesi che lo adottano.
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Geografia politica ed economica 8. Classificazione morfologica dei confini: confini naturali
La teoria dei confini naturali nasceva nell’Ottocento dalla convinzione che la natura stessa potesse fornire
agli uomini i limiti e le direzioni entro cui muoversi. I confini naturali erano insomma un qualcosa di
predestinato, un ideale da conquistare e realizzare quasi fosse un dono divino. Tale concezione dominava il
pensiero del tempo facendo credere a lungo che i confini, o le frontiere, potessero trovare la loro vera
origine e la loro applicazione ideale nelle barriere fisiche disseminate sulla Terra dalla natura. Così i Pirenei
o le Alpi (per quanto riguarda l’Italia) furono considerati uno dei migliori esempi di confine. In base ad
analoghe considerazioni, agli inizi del diciannovesimo secolo, Malte Brun assegnava ai monti Urali il ruolo
di limite orientale dell’Europa, limite che, come noto, trova modestissimi riscontri in termini geografici,
culturali, politici e che soprattutto non fu mai universalmente accettato se non nell’uso didattico.
Radicato saldamente alle fattezze del terreno il confine naturale è il più evidente, quello a cui ci si affida con
maggior sicurezza, quello che pare meno discutibile, che è più evidente a chi sta dall’altra parte e che meglio
può dissuadere da un eventuale passaggio. La storia passata e recente ha comunque sempre dimostrato che
nessuna barriera naturale non può essere violata. Gli stessi deserti, che separano in modo netto i territori
fertili che si trovano ai loro margini, non hanno impedito una pur difficoltosa sopravvivenza e comunque il
transito di popolazioni nomadi. Le catene montuose che si oppongono agli spostamenti umani in modo
maestoso, sono in alcune parti del mondo (Ande peruviane) luogo di popolamento e di sviluppo di civiltà.
Le stesse Alpi italiane, con il loro dedalo di valli e crinali, sono il luogo dei Walser e dei Mocheni,
popolazioni di origine e lingua germanica, che nel momento della loro massima espansione occupavano una
porzione montana estesa dalla Savoia al Tirolo. Di riscontro i fiumi, che pur hanno rappresentato una sorta
di confine ideale nel passato ed ancora oggi svolgono tale ruolo in molte parti del mondo, rappresentano in
un certo senso un anacronismo confinario. Il fiume infatti ha sempre rappresentato un motivo di coesione
piuttosto che un elemento di stacco o separazione. Le antiche civiltà si svilupparono sui fiumi, ed in ragione
della presenza di acqua. Lo stesso bacino idrografico, il complesso cioè delle……., fu assunto da molti
geografi del passato come esempio probante di regione naturale omogenea.
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Geografia politica ed economica 9. Classificazione morfologica dei confini: monti
Le montagne rappresentano l’aspetto più imponente della morfologia terrestre e anche un elemento di
grande utilità dal punto di vista della confinistica. I rilievi infatti presentano nel loro insieme almeno tre
buoni motivi per essere assunti come elemento confine: sicurezza contro improvvisi e/o massicci attacchi
nemici, ambiente di difficile popolamento ed infine semplicità nella loro designazione. Punti notevoli dei
monti sono le vette per cui un primo criterio per il tracciamento del confine potrebbe essere quello del
congiungimento di quelle più alte (linee di vetta o di cresta). Tale procedura però potrebbe non conformarsi
con l’utilizzazione dei terreni montani per il pascolo e/o delle risorse idriche, non soddisfacendo pertanto il
requisito dell’unità economica delle zone confinarie. Per questi motivi più utilizzata è normalmente la linea
spartiacque o displuviale, definita come la linea topografica più elevata esistente tra due sistemi drenanti non
comunicanti. La linea spartiacque non è comunque sempre facilmente individuabile dal momento che le
catene o i massicci montuosi presentano, oltre che una lunghezza,banche una larghezza che non permette
l’esistenza di un’unica linea di cresta. Esempi importanti di problematiche legate alla spartizione di sistemi
montuosi sono riscontrabili nelle controversie tra Argentina e Cile per la spartizione delle Ande (fine del
diciannovesimo secolo) motivate dalla definizione non univoca di linea di cresta e di linea spartiacque e tra
Cina e India a proposito del confine del Tibet, noto come linea Mac Maon (inizi del ventesimo secolo), la
cui materializzazione sul terreno non fu mai effettuata. .
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Geografia politica ed economica 10. Classificazione morfologica dei confini: fiumi
A prima vista i fiumi soddisfano i requisiti della facile identificazione e della facile sorveglianza. Nei
territori non ben conosciuti il fiume era altresì un elemento di chiara identificazione del territorio, così come,
dal punto di vista militare, i confini fluviali assolvevano nel passato il compito di interrompere la continuità
del terreno impedendo una rapida avanzata degli eserciti nemici. I problemi, come già si è detto, sorgono
dalla constatazione che quasi mai vi è coincidenza tra fiumi e divisione etnica, linguistica, culturale o
comunque economica. I fiumi inoltre sono elementi soggetti a regimi di forte instabilità (erosioni, piene,
catture, deviazioni) che n e determinano variazioni, più o meno marcate del corso. In termini pratici i
principali metodi per tracciare un confine fluviale sono quelli delle:
linea mediana: consiste nell’individuazione dei punti equidistanti dagli elementi più sporgenti delle due rive
per poi unirli con segmenti rettilinei;
linea del talweg: il primo accenno a tale linea lo si trova nel trattato per la spartizione del Reno tra Francia e
Germania nel corso della pace di Westfalia (1648). Il termine, di origine tedesca, deriva dal latino filum
aquae, ossia linea di impluvio o di massima profondità. La definizione pratica della linea del talweg
comporta non poche difficoltà. Nella prassi il suo riconoscimento è ottenuto attraverso tre differenti
metodologie: la prima si riferisce alle imbarcazioni discendenti il fiume e consente l’individuazione di una
fascia piuttosto che di una vera e propria linea. La seconda, che si incontra per la prima volta nel progetto
internazionale di regolamentazione della navigazione fluviale, adottata dall’Istituto di Diritto Internazionale
nel 1887, individua il talweg nella linea mediana di tale canale. La terza lo identifica nella linea di massima
profondità relativa ai dati idrogeologici, che comunque devono essere soggetti a periodiche operazioni di
verifica. Dal 1920 la linea del talveg è quella normalmente utilizzata in presenza di fiumi navigabili;
linea lungo la riva: si stabilisce che tutto lo specchio d’acqua del fiume competa ad uno solo dei due paesi
confinanti. Nella prassi tale metodo è accompagnato da una serie di tutele riguardanti l’utilizzazione della
via d’acqua o la costruzione unilaterale di infrastrutture (come i ponti). Un esempio significativo di tale
modalità confinistica è offerto dal vecchio confine tra Iraq ed Iran sullo Shatt el Arab, corso d’acqua
formato dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Dal Golfo Persico il confine seguiva per circa settanta
chilometri la sponda sinistra del fiume rendendo estremamente difficile, in caso di tensione o di conflitto, il
raggiungimento del porto petrolifero iraniano di Abadan. La stessa identificazione delle rive può rilevare
ambiguità: bisogna infatti tener conto delle non sempre regolari variazioni del regime delle acque. Inoltre
sono sempre possibili modificazioni degli alvei fluviali che debbono essere previste in fase di accordo.
linea lungo le due rive: viene tracciata una doppia linea di confine. La sovranità degli stati confinanti si
arresta lungo le rispettive sponde, per cui le acque del fiume diventano res communis. Tale tipo di
delimitazione fu occasionalmente adottato per alcuni tratti della Mosa e della Mosella in altrettanti trattati tra
Lussemburgo e Francia e Lussemburgo e Germania.
Per la delimitazione dei confini fluviali sono indispensabili dati precisi sulla conformazione planimetrica e
batimetrica del letto e delle sponde. Tali informazioni diventano però obsolete anche in breve tempo dal
momento che i regimi fluviali in generale sono caratterizzati da un’elevata irregolarità. La variazione
dell’alveo costituisce uno dei maggiori se non il principale problema. A priori non è infatti possibile
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Geografia politica ed economica prevedere né localizzazione né tempi di tali contingenze: a fronte di questa eventualità gli accordi tra le parti
possono prevedere che ogni cambiamento lasci invariata la linea di confine o che questa si adatti invece alla
situazione contingente. Il Rio Grande, che separa gli Stati Uniti dal Messico, è un classico esempio della
prassi oramai quasi universalmente seguita in caso di variazioni del corso dei fiumi: il trasferimento dei
confini sulla linea mediana del nuovo percorso è praticato solo quando lo spostamento è molto accentuato ed
improvviso. Agli inizi del secolo scorso il Giuba, che segnava il confine tra la Somalia italiana ed il Kenya
britannico, cambiava improvvisamente corso andando a sfociare in territorio inglese. Una serie di
discussioni apertesi tra i due paesi portarono alla conclusione che il confine dovesse essere spostato in
relazione alla circostanza. Un altro aspetto che ha determinato molte controversie è quello delle isole fluviali
che affiorano stagionalmente o che si formano e scompaiono per situazione particolari. Un esempio è quello
del trattato del 1733 tra Canada e Stati Uniti con il quale il fiume San Lorenzo veniva diviso con una linea
mediana e le possibili isole sarebbero state sotto la sovranità dello stato che ne avesse avuto il possesso
della superficie maggiore. Analoga prassi fu adottata tra Cina e Russia nel 1858 relativamente ai fiumi Amur
ed Ussuri, anche se, come noto, proprio le divagazioni di quest’ultimo e la conseguente formazione di isole
fluviali fu la causa di un periodo di fortissima tensione tra i due paesi.
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Geografia politica ed economica 11. Classificazione morfologica dei confini: laghi
Per i confini lacustri si sceglie di solito la linea mediana che già di per se è suscettibile di diverse
interpretazioni. Si tratta infatti di stabilire se questa debba dividere il lago in due parti uguali, o congiungere
una serie di punti equidistanti dalle sponde o ancora unire i punti centrali di un certo numero di linee tirati da
una riva all’altra. Un problema particolare è anche determinato dalla formazione di laghi artificiali, etc.
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Geografia politica ed economica 12. Classificazione morfologica dei confini: deserti e paludi
I deserti sabbiosi hanno il vantaggio di costituire aree spopolate e quasi sempre prive di significativi
interessi economici, ma generalmente non presentano morfologie stabili tali da potervi demarcare una linea
di confine. In quelli rocciosi l’operazione risulta più semplice, anche se alcuni elelementi geomorfologici
possono essere modificati con il passare del tempo ed a causa dell’azione erosiva del vento. La
delimitazione e la demarcazione dei confini in questi ambienti è generalmente effettuata tramite
l’individuazione di punti di vertice ed il successivo appoggio a segmenti di paralleli e/o meridiani.
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Geografia politica ed economica 13. Classificazione morfologica dei confini: le paludi
Le paludi, che spesso separano tra di loro zone di intenso insediamento, risultano una buona terra di nessuno
piuttosto che un’area ove tracciare linee confinarie. I problemi relativi alla sovranità su tali zone sono
sempre stati e sono in genere insignificanti, anche se in taluni casi (si pensi ad esempio agli acquitrini del
basso Reno e della Mosa, tra Belgio ed Olanda) essi influenzarono azioni militari per la rettifica dei confini
politici. Essi diventano importanti quando la zona paludosa si prosciuga naturalmente o è bonificata. Un
caso del genere si verificava nel 1965 per la rivendicazioni delle paludi di Runn of Cutch da parte di India e
Pakistan, che furono composte solo tre anni dopo inseguito ad un arbitrato.
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Geografia politica ed economica 14. Confini artificiali
Il criterio di far passare i confini su determinati meridiani e/o paralleli o su linee che uniscono punti noti
molto lontani tra loro, era generalmente conseguente all’ignoranza geografica dei territori, per cui la
sistemazione dei confini veniva quasi sempre a precedere l’effettiva conoscenza dei luoghi. Durante la
conferenza di Berlino (1884-1885) le grandi potenze europee si spartivano il continente africano in base a
criteri quantitativi e di reciproco equilibrio, tracciando confini rettilinei tra un punto noto ed un altro o
seguendo magari i contorni di oggetti geografici considerevoli che trovavano un qualche riscontro sulle
imprecise carte del tempo. In tal modo non si teneva in alcun conto la realtà antropica di quei luoghi. Gruppi
etnicamente omogenei erano divisi così come tribù ostili erano magari forzosamente messe insieme; molte
popolazioni finirono per essere separate dalle proprie zone di pascolo così come dalle risorse idriche che in
alcune regioni (Africa orientale ad esempio) costituivano l’elemento più critico delle economie locali.
Il confine tra Stati Uniti e Canada, tracciato e modificato da successivi accordi tra la fine del diciottesimo e
la prima metà del diciannovesimo secolo (e pressoché tutti i confini degli stati della confederazione
americana), fu tracciato prima di un sostanziale insediamento stabile dei coloni: questi si adattarono così
senza grandi difficoltà ad una situazione già determinata. Dove però nuovi confini furono imposti a gruppi
umani preesistenti, le difficoltà non furono poche (si pensi ai riflessi di tali circostanze in Kenya, in Somalia,
in Namibia, in Nigeria, in Camerun, in Ghana e nel Togo).
Tali tipi di confine, che non poggiano su elementi naturali del paesaggio geografico sono generalmente
definiti come confini geometrici, matematici o secondo alcuni arbitrari.
Tra i confini artificiali alcuni sogliono anche includere quelli materializzati da opere umane, come ad
esempio i già ricordati valli romani o la Grande Muraglia Cinese.
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Geografia politica ed economica 15. Classificazione genetica dei confini
Un altro modo di classificare i confini prende in considerazione la loro formazione relativamente allo
sviluppo del paesaggio umano esistente sul territorio.
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Geografia politica ed economica 16. Confini antecedenti
Confini antecedenti: quelli cioè tracciati in zone spopolate o non ancora popolate che comunque precedono
lo sviluppo della maggior parte delle caratteristiche del paesaggio antropico. I gruppi umani stanziativisi
successivamente si adeguavano pertanto senza difficoltà alla linea di confine. Gli esempi più classici di tali
tipi di confini sono quelli tra Stati Uniti e Canada (ove erano allora presenti pochi coloni ed alcune tribù
indiane), tra Alaska e Canada che furono posti su territori completamente spopolati, ma anche quelli tra
Malaysia ed Indonesia (nell’isola di Borneo) che per la massima parte attraversano la foresta pluviale;
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Geografia politica ed economica