Confini marittimi
Solo una trentina di stati al mondo (Bolivia, Paraguay, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Svizzera, Austria, Ungheria, Lussemburgo, Lichtestain, Macedonia, Bielorussia, Armenia, Moldovia, Azerbaija, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Repubblica Centro Africana, Uganda, Ruanda, Burundi, Malawi, Zambia, Zimbabwe, Etiopia, Botswana, Swaziland, Lesotho, Afganistan, Kazakistan, Uzbekistan, Kirkisistan, Tagikistan, Nepal, Bhutan, Laos, Mongolia) non hanno sbocco al mare. Alcuni di essi risentono di una situazione di estremo disagio. La Repubblica Ceca non si affaccia sul mare ma il suo isolamento è assai attenuato da una fitta rete di collegamenti fluviali e comunicazione di superficie. Di riscontro la Bolivia ha sofferto molto dopo che in seguito ad una guerra le è stato vietato di usare i porti sulla costa del Pacifico. Mongolia e Nepal si trovano in una condizione di estremo isolamento aggravato dalla concomitanza di una grande distanza e di scarse vie di comunicazione. In Africa, il continente con il maggior numero di stati senza sbocco al mare, i problemi sono generalmente acuti. Gli stati Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad) hanno scarsi e non sempre sicuri sbocchi al mare. L’Uganda ha un collegamento ferroviario con la costa, ma Ruanda e Burundi soffrono di una situazione di isolamento cronica. Lo Zimbabwe ha accesso al mare attraverso la repubblica Sud Africana ed il Mozambico ma Zambia e Malawi risentono dell’instabilità politica dei paesi rivieraschi confinanti.
Nel sedicesimo secolo alcuni paesi europei iniziavano la loro espansione sulle nuove terre scoperte al di là degli oceani. Dopo l’impresa di Cristoforo Colombo Spagna e Portogallo si trovarono costrette a confrontarsi sul problema dell’utilizzazione dei mari. Per regolare la situazione papa Alessandro VI, considerato unico potere universale, interveniva con la Bolla Inter Coetera (1493) che attribuiva alla Spagna le terre scoperte e da scoprire ad occidente di una linea reale tracciata da nord a sud a cento leghe ad ovest delle isole di Capo Verde. Le terre ad oriente di tale linea erano appannaggio della corona portoghese. Un anno più tardi la suddetta linea chiamata raya, fu spostata a 370 leghe ad ovest della più occidentale delle isole di Capo Verde con il trattato di Torvesillas. Tale iniziativa fu però contestata da altre potenze europee. Il mare cominciava a diventare allora un soggetto economico di fondamentale importanza e pertanto cominciò ad entrare prepotentemente nella politica degli stati. L’idea che uno stato costiero potesse estendere sul mare prospiciente e le sue coste un qualche tipo di sovranità risale forse al basso Medioevo a seguito delle rivendicazioni di Venezia sul mar Adriatico e di Genova sul mar Ligure per contrastare pirateria e contrabbando. La raya, seppur i termini un po’ generali, rappresenta il primo tentativo di delimitazione del mare. Le prime pretese sulla sovranità sui mari prospicienti gli stati entrarono nel dibattito giuridico della seconda metà del sedicesimo secolo. I termini mare adiacente ad esempio fu creato da Baldo Degli Ubaldi così come quello di mare territoriale appare la prima volta nel trattato De Jure Belli di Alberico Gentili del 1598. Nel 1609 era pubblicato il celebre trattato Mare Liberum del giurista olandese Ugo Grozio il quale asseriva che nessun stato poteva rivendicare alcuna sovranità sul mare a causa, in primo luogo dell’impossibilità di occupare e delimitare un qualcosa di spazialmente sconfinato come gli oceani. Grozio naturalmente difendeva gli interessi della compagnia olandese delle Indie Orientali di fronte alle pretese, ancora in atto, di Spagna e Portogallo. La più nota ma non unica risposta arrivò dall’inglese John Selden che nel suo trattato Mare Clausum Seu de Dominio Maris del 1635, ove è affermato che il mare, al pari delle terre emerse è suscettibile di appropriazione. Così alla corona inglese sarebbe spettato il controllo e la sovranità dei mari circostanti l’arcipelago. Tale pretesa era naturalmente rivolta a limitare l’azione olandese, nei mari prossimi alla Gran Bretagna, interdicendo loro dall’attività di pesca in tali acque. Nel 1702 un altro giurista olandese Cornelio Van Bynkershoek, nel suo trattato De Dominio Maris Dissertatio, bilanciava in un certo senso gli interessi della sicurezza con quelli della libertà di dominazione. Il controllo effettivo del mare a suo parere poteva essere esercitato soltanto: ubi finitur armorum vis, cioè solo tenendo conto del limite di tiro delle artiglierie del tempo. Se l’idea di un mare territoriale, nettamente distinto da un alto mare, ove avrebbe dovuto vigere un regime di libertà, era così ratificata, la sua estensione era oggetto di dibattito e trovava sostegno e/o giustificazione nei limiti più disparati. Il giurista Locenius sosteneva una distanza dalle coste tale da poter essere coperta in due giorni di navigazione. In molti altri casi veniva occasionalmente utilizzato il limite fissato dall’orizzonte visivo. Ma l’idea di una fascia larga quanto la gittata dei cannoni dovette prevalere e la sua definizione quantitativa, tre miglia marine, si deve all’italiano Ferdinando Galliani, che nel suo volume De’ Doveri dei Principi Neutrali verso i Principi Guerreggianti del 1782, proponeva l’introduzione di tale limite, distanza che: sicuramente era maggiore ove con la forza della polvere finora conosciuta si possa spingere una palla o una bomba. Tale limite trovò numerosissime conferme nella pratica internazionale così come in quasi tutta la dottrina dal diciottesimo all’inizio del diciannovesimo secolo. La sua consacrazione si ebbe con Territorial Water Girisdiction Act del 1878 con il quale il Regno Unito definiva ufficialmente la sua giurisdizione sul mare a tre miglia marine della linea della bassa marea. L’estensione di tre miglia marine non fu però mai universalmente accettata, essendo via via rivendicate da vari paesi misure diverse: quattro miglia per Svezia e Norvegia, sei miglia per Spagna e Portogallo, dodici per la Russia, ecc.
Agli inizi del secolo scorso i molteplici interessi economici riposti sul mare cominciarono a riflettere l’inadeguatezza delle varie misure introdotte dalla prassi che avevano poi evidenti ricadute in una grande confusione sia nella dottrina che nella pratica. Accanto alle abituali materie (navigazione, pesca, protezione doganale) cominciavano ad affermarsi nuove attività come lo sfruttamento degli idrocarburi o la ricerca scientifica e si manifestavano nuove preoccupazioni, come la protezione dell’ambiente marino. Nell’intento di adattare le norme giuridiche internazionali a queste nuove esigenze, nel 1930 l’allora società delle nazioni convocava una conferenza all’Aja con lo scopo primario di codificare i principi generali che si potevano desumere dalla prassi. La conferenza non riuscì nel suo intento. In particolare si poté solo prendere atto delle divergenze di opinione sull’ampiezza del mare territoriale e senza fornire una soluzione definitiva ma solo con la generica affermazione che: la sovranità dello stato si estende ad una zona di mare adiacente alle sue coste, designata con il nome di mare territoriale. In una successiva conferenza delle Nazioni Unite, tenutasi a Ginevra nel 1958, erano adottate una serie di convenzioni, riguardanti il mare territoriale e la zona contigua, l’alto mare, la pesca, la piattaforma continentale. Il limite massimo attribuito al mare territoriale non poteva oltrepassare le dodici miglia, limite massimo entro il quale potevano essere esercitati controlli in materia di polizia doganale, fiscale, sanitario o di immigrazione. In altre parole l’estensione delle acque territoriali rimaneva un problema aperto. Basti pensare che alcuni paesi latino americani (in particolare Cile, Ecuador e Perù) rivendicavano un ampliamento dei termini della sovranità esclusiva sulle acque comprese entro le duecento miglia dalla costa, e ciò per: asegurar a sus pueblos las necesarias condiciones de subsistencia y procurarle los medios para su desarrollo economico. Nel 1960 era convocata Ginevra un’ulteriore conferenza sul diritto del mare nel corso della quale non si riuscì a trovare la necessaria intesa. Per porre rimedio a questa situazione l’assemblea generale delle Nazioni Unite stabiliva la convocazione di una ulteriore conferenza che si riuniva per la prima volta a Caracas nel 1973, e dopo undici sessioni concludeva i suoi lavori a Montego Bay in Giamaica nel 1982. La convenzione, composta da 320 articoli e 9 allegati non otteneva ovviamente il consenso generale per le problematiche e le rivendicazioni specifiche proposte da alcuni paesi, ed entrava ufficialmente in vigore nel 1994. Le disposizioni fondamentali sono le seguenti:
acque territoriali: sono una zona di mare prospiciente il territorio sulle quali lo Stato esercita la propria sovranità nelle condizioni previste dal diritto internazionale. L’estensione delle acque territoriali è fissata dai vari stati prospicienti, ma non può superare le dodici miglia marine. Tali acque sono misurate a partire da una linea di base normale identificata come la linea di bassa marea. Numerose però sono le eccezioni a tale criterio, che dipendono da particolari condizioni della costa. Se questa infatti ha andamento sufficientemente rettilineo non vi sono particolari difficoltà, ma se essa è particolarmente frastagliata o se esistono isole nella sua immediata prossimità è normalmente applicato il metodo delle linee di base rette che congiunge i punti più sporgenti o capisaldi. Un metodo specifico per la delineazione di tale linea è quello degli archi di circonferenza. In questo caso si considerano i punti più sporgenti dalla costa e facendo centro su di essi si tracciano cerchi di ampiezza pari all’estensione delle acque territoriali. Il limite totale è così dato dai segmenti di retta che congiungono gli apici dei singoli archi. Una linea così costruita può sembrare artificiosa, se pensata in termini di terra ferma, ma è estremamente semplice in termini di navigazione. Il marinaio dovrà puntare il compasso sul suo punto nave aprendolo quanto l’estensione del mare territoriale, e così potrà immediatamente verificare eventuali intersezioni con la linea di base;
zona contigua: tale fascia di mare trova un suo lontano antecedente in alcune prese di posizione della Gran Bretagna che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo esercitava de facto controlli fiscali e doganali sulle navi dirette verso i suoi porti entro la distanza di dodici miglia dalla costa. Analoghe pretese erano avanzate dagli Stati Uniti dopo la proclamazione di indipendenza e poi negli anni del proibizionismo per reprimere il commercio di bevande alcoliche. L’estensione massima della zona contigua è fissata entro un limite massimo di dodici miglia dal limite esterno delle acque territoriali. Entro tale zona lo stato costiero può esercitare il controllo necessario per prevenire e/o reprimere le infrazioni alle sue leggi fiscali, doganali, sanitarie e d’immigrazione. All’interno di essa le navi e le aeromobili di tutti gli altri paesi hanno diritto di navigazione e di sorvolo e può essere esercitata liberamente la pesca almeno che lo stato costiero non abbia identificato e proclamato zone riservate in favore dei propri cittadini. Le stesse navi da guerra possono svolgervi attività operative ed addestrative, compreso l’uso di armi senza che lo stato costiero possa pretendere di intervenire;
zona economica esclusiva: trova i suoi precedenti nelle già ricordate rivendicazioni di Cile, Ecuador e Perù così come nella cosiddetta dichiarazione Truman, che nel 1945 annunciava: il governo degli Stati Uniti considera le risorse naturali nel sottosuolo e nel fondo marino della piattaforma continentale, appartenenti agli Stati Uniti, soggette alla loro giurisdizione ed al loro controllo. Da ricordare che la dichiarazione americana era immediatamente confermata dal vicino Messico e dall’Argentina che, un anno più tardi, estendeva analoghe pretese anche sulle acque soprastanti la piattaforma continentale. La zona economica esclusiva può estendersi fino ad un massimo di duecento miglia marine dalla linea di base. Si tratta di un’area adiacente alle acque territoriali in cui lo stato costiero ha la prerogativa di esplorare, sfruttare e conservare le risorse naturali nell’acqua, nei fondali marini e nel sottosuolo. Agli altri stati spettano invece la libertà di navigazione, di sorvolo e di posa di cavi e condotte sottomarini, oltre la libertà di utilizzare il mare ad altri fini internazionalmente leciti. La previsione di attività diverse che possono svolgersi nella stessa zona ad opera di stati diversi richiede la predisposizione di una scala di priorità. Anche se non mancano regole specifiche in generale la convenzione dispone che sia lo stato costiero che quelli tersi debbano tenere conto dei diritti altrui entro la zona economica esclusiva. Tale regime si ispira ad un esclusivismo in un certo modo attenuato che pur lasciando allo stato costiero la priorità, o se così si può dire, il ruolo da protagonista persegue anche l’obbiettivo di impedire che le varie riserve, in special modo alimentari, vadano perdute per mancanza di una loro utilizzazione ottimale. Lo stato costiero fissa il volume delle catture e prende le misure appropriate per evitare che le risorse siano compromesse da uno sfruttamento eccessivo. Qualora le sue capacità di sfruttamento siano inferiori al volume ammissibile delle catture, lo stato costiero autorizza altri stati ad accedere al volume di pesca residuo. Gli stati ammessi di riscontro devono conformarsi alle misure di conservazione ed alle altre condizioni fissate dalle norme dello stato costiero. Quando ci sono meno di quattrocento miglia nautiche tra un paese e l’altro, in modo che nessuno dei due può estendere univocamente la zona economica esclusiva a duecento miglia, si fa ricorso al cosiddetto principio della linea mediano o di equidistanza. Gli stati che si trovano su coste prospicienti si dividono in tal modo le acque stabilendo un intricato sistema di confini marittimi che molto spesso, come nel caso del mare del Nord, ha dato origine a complesse dispute confinarie;
la piattaforma continentale: le terre emerse sono circondate, al di sotto del livello del mare, da un uno zoccolo o piedistallo continentale che si inabissa con un angolo di pendenza così debole da passare quasi inavvertito. Ad una profondità di circa duecento metri l’angolo di pendenza aumenta e il pavimento sottomarino scende bruscamente verso gli abissi. A tale zona di scarsa pendenza, considerata piatta nei confronti della successiva scarpata oceanica, è stata attribuita la denominazione di piattaforma continentale. Questa orla quasi tutti i continenti e presenta variazioni di ampiezza di fatto variabili tra dieci ed oltre mille chilometri. Le piattaforme costiere più estese si riscontrano in Europa settentrionale, dove isole come l’Irlanda e la Gran Bretagna potrebbero essere saldate al continente, sia a sud che ad est, solo che il livello del mare si abbassasse di un centinaio di metri. Il mar Glaciale Artico ha una vasta orlatura anulare dalla quale emergono grandi isole come la Nuova Zemlya, la Nuova Siberia, Wrangler e gran parte del vasto arcipelago canadese. La piattaforma continentale che contorna l’Antartide è invece alquanto ristretta. Una piattaforma cospicua orla l’Asia sud orientale, ove si può notare la contiguità con l’arcipelago malese. Altra zona di ampia piattaforma è quella antistante l’Argentina, dalla quale emergono le isole Falkland o Malvine, rivendicate dallo stato sud americano proprio in ragione di tale situazione geomorfologica. La genesi della piattaforma continentale trova ragione nei processi di ingressione e regressione marina dal quale sarebbero state interessate le zone costiere continentali almeno dalla fine del Miocene. Si tratta pertanto di un prodotto di preminente abrasione marina alternativamente costituita da pause subaeree durante le quali il modellamento è stato di tipo continentale. I fattori che hanno contribuito alla formazione di norme consuetudinarie in tema di piattaforma continentale sono derivati dai progressi tecnici che hanno aperto significative prospettive per lo sfruttamento delle risorse minerarie (soprattutto idrocarburi) contenute nei fondali marini di ridotta profondità adiacenti alle masse continentali di cui costituiscono il prolungamento ed estesi anche oltre i limiti della acque territoriali. La piattaforma è geologicamente una continuazione dei continenti, è composta dallo stesso tipo di rocce con buona probabilità contiene gli stessi minerali. Il metodo più efficace per raggiungere tali risorse è quello di gettare sonde dalle acque sovrastanti tramite navi o piattaforme galleggianti. Oggi vengono estratti in questo modo solo materiali fluidi come petrolio e gas naturali, ma non c’è alcun motivo per escludere una successiva estrazione di altri minerali. Nel 1942 l’isola di Trinidad, rappresentata dalla Gran Bretagna, e Venezuela concludevano un trattato per la delimitazione dei fondali marini nel Golfo di Paria, al di là delle rispettive acque territoriali. Nel 1945 gli Stati Uniti con il già ricordato proclama Truman, assoggettavano alla propria giurisdizione le risorse del sottosuolo e del fondo della piattaforma continentale poste in alto mare ma contigua alle coste statunitensi. A tale dichiarazione facevano seguito le rivendicazioni di un’altra ventina di paesi che in buona parte avevano motivo di ritenere che al largo delle loro coste fosse possibile estrarre petrolio. Alcuni in particolare non si limitavano al solo diritto di utilizzare le risorse minerarie, ma pretendevano la sovranità. Il Messico ad esempio affermava i suoi diritti su tutta la piattaforma continentale adiacente le sue coste e su tutte le ricchezze naturali in essa contenute e che in essa sarebbero state successivamente scoperte. Analoghe pretese erano avanzate da Argentina, Cile e Perù,. L’Ecuador rivendicava il diritto di sovranità fino a duecento miglia dalla costa anche se la piattaforma continentale prospiciente le sue coste non si estende in media oltre le quaranta miglia. Tali rivendicazioni non erano naturalmente dettate dalla convinzione dell’esistenza di sacche petrolifere. L’Argentina ad esempio riproponeva l’annessione delle isole Falkland, già da lungo tempo rivendicate. Cile e Perù, in linea di massima, tendevano ad affermare il loro controllo esclusivo sui pescosi mar prospicienti. Alla conferenza di Ginevra del 1958 il problema, rivolto in particolar modo alla definizione della profondità alla quale la piattaforma continentale lascia il posto alla scarpata oceanica, fu oggetto di prolungate discussioni. La cifra adottata nella convenzione fu quella di duecento metri e si rifaceva ad un criterio batimetrico in alternativa al limite della sfruttabilità, definendo come piattaforma continentale: il letto del mare ed il sottosuolo delle regioni sottomarine adiacenti alle coste, ma situate al di fuori del mare territoriale fino ad una profondità di duecento metri o, al di là di questo limite, fino al punto in cui la profondità delle acque sovrastanti permette lo sfruttamento delle risorse naturali delle predette regioni. Se la profondità di duecento metri sembrava all’epoca una misura difficilmente raggiungibile, il limite della possibilità di sfruttamento costituiva un elemento di instabilità e determinava la possibilità di ulteriori rivendicazioni. Così Arabia Saudita, Repubblica Araba Unita e quasi tutti gli stati prospicienti il golfo persico rivendicarono il loro diritto di sovranità sulle rispettive aree adiacenti della piattaforma. Nel Golfo Persico però non esiste una piattaforma in senso stretto dal momento che non esiste né scarpata continentale né platea. I confini tra le aree di rispettivo sfruttamento furono perciò lasciati alle decisioni di quegli stessi stati.
Dopo la conferenza di Montego Bay i diritti spettanti allo stato costiero nella sua zona economica esclusiva erano estesi anche alle risorse sottomarine determinando confusione, totale o parziale, fra piattaforma continentale e fondo della zona economica esclusiva. Di riscontro considerato che i fondali marini posti al di fuori della giurisdizione dei vari paesi rientrano nell’area ove si applica il regime del patrimonio comune dell’umanità era necessario porre un limite che distinguesse in modo preciso due spazi sottoposti a regimi diversi. La definizione recepita si basa sul concetto di margine continentale, posto in alternativa con il limite delle duecento miglia: la piattaforma continentale di uno stato costiero comprende i fondi marini ed il loro sottosuolo al di là del suo mare territoriale, per tutta l’estensione del prolungamento naturale del territorio di questo stato fino al bordo esterno del margine continentale o fino a duecento miglia marine dalle linee di base a partire dalle quali è misurato il mare territoriale quando il bordo esterno del margine continentale si trova ad una distanza inferiore. In tal modo anche i paesi meno favoriti geologicamente, dotati cioè di un margine continentale di dimensioni ridotte, possono comunque avvalersi di diritti sovrani sui fondi marini prospicienti i loro territori entro il limite di duecento miglia corrispondente all’estensione della zona economica esclusiva. Nel contempo onde evitare un eccessivo ampliamento nei fondi marini è previsto che il limite esterno della piattaforma non possa eccedere e trecento cinquanta miglia dalle linee di base o le cento miglia dall’isobata dei duemila cinquecento metri.
Le risorse naturali della piattaforma comprendono le risorse minerarie e gli organismi viventi appartenenti alle cosiddette specie sedentarie. Nella piattaforma come nella zona economica esclusiva lo stato costiero ha il diritto esclusivo di costruire o regolamentare la costruzione e l’utilizzazione di isole artificiali, installazioni e strutture destinate a fini economici o che possono interferire con l’esercizio dei diritti dello stato costiero. Dettagliate prescrizioni riguardano i potenziali conflitti fra i diritti degli stati costieri e la libertà di navigazione. Isole artificiali, installazioni e strutture non possono essere collocate ove rechino intralcio all’uso di percorsi riconosciuti essenziali per la navigazione internazionale. Allo stesso tempo installazioni e strutture abbandonate devono essere rimosse per assicurare la sicurezza della nazione. I diritti dello stato costiero sulla piattaforma non pregiudicano il regime giuridico delle acque sovrastanti o dello spazio aereo al di sopra di tali acque. Tali prerogative non devono pregiudicare la navigazione o i diritti riconosciuti agli altri stati né intralciarle. In particolare lo stato costiero non può impedire la posa o la manutenzione di cavi ed oleodotti sottomarini previa la verifica dei processi di inquinamento prodotti dagli stessi.
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