Appunti del Corso in Diritto delle Procedure Concorsuali del Prof. Cagnasso a.a 2008/2009.
La Legge Fallimentare non contiene solo la disciplina delle procedure concorsuali, ma contiene anche una parte di diritto penale, cioè quella del reato fallimentare: questa parte nelle varie riforme del 2005-2006-2007 è rimasta immodificata, con il controsenso che il legislatore civilistico arrivi oggi a consentire certi atti e comportamenti che il legislatore penalistico qualifica invece come reati.
Diritto delle Procedure Concorsuali
di Andrea Balla
Appunti del Corso in Diritto delle Procedure Concorsuali del Prof. Cagnasso a.a
2008/2009.
La Legge Fallimentare non contiene solo la disciplina delle procedure
concorsuali, ma contiene anche una parte di diritto penale, cioè quella del reato
fallimentare: questa parte nelle varie riforme del 2005-2006-2007 è rimasta
immodificata, con il controsenso che il legislatore civilistico arrivi oggi a
consentire certi atti e comportamenti che il legislatore penalistico qualifica
invece come reati.
Università: Università degli Studi di Torino
Facoltà: Economia
Docente: Prof. Cagnasso1. Definizione di Procedure Concorsuali
Oggi la Legge Fallimentare si colloca su piani diversi perché alla legge del ’42 si sono aggiunte delle
innovazioni nel 2005, delle ulteriori innovazioni poi nel 2006 e nel 2007.
Grosso modo le procedure concorsuali sono disciplinate dalla norma vigente nel momento della loro
apertura, e dal momento che hanno dei tempi lunghissimi, arrivando a durare anche più di dieci anni, si
capisce che in questo momento sono aperte procedure regolate dalla legge del ’42, procedure regolate dalla
legge del ’42 e modificate nel 2005, altre modificate nel 2006…
Esistono così quattro regimi, quattro discipline delle procedure concorsuali in vigore a seconda del periodo
in cui sono nate.
La prima tappa si è realizzata nel 2005: si è realizzata con lo strumento del decreto legge d’urgenza, decreto
legge del 14 marzo 2005 n. 35 che è stato poi convertito in legge d’urgenza nella legge del 14 maggio 2005
n. 80.
Questo decreto ha toccato tre profili di grandissimo rilievo:
- ha messo un freno notevolissimo alle azioni revocatorie, che sono azioni che venivano normalmente
esperite soprattutto nei confronti delle banche; un freno che forse è stato addirittura eccessivo in quanto oggi
l’azione revocatoria è quasi sparita dalle procedure concorsuali;
- il concordato preventivo;
- questo decreto ha aggiunto alle quattro procedure tradizionali previste nella legge preventiva (cioè il
fallimento, il concordato preventivo, la liquidazione coatta e l’amministrazione controllata, che è stata
rimossa nella successiva riforma), una quinta procedura chiamata accordi di ristrutturazione dei debiti.
Il disegno del legislatore è di rilanciare il concordato preventivo e di introdurre una nuova procedura di
ristrutturazione dei debiti (definibile tra virgolette una forma di concordato preventivo minore), immettendo
così una nuova procedura alternativa rispetto al fallimento.
Nel maggio 2005 quindi questo decreto legge d’urgenza viene convertito; anche la legge di conversione è
importante perché non si limita solo a convertire queste innovazioni illustrate, ma in più attribuisce al
governo la delega per emanare la riforma fallimentare.
La liquidazione coatta e l'amministrazione controllata sono procedure concorsuali non fallimentari.
La riforma della Legge Fallimentare è stata attuata l’anno successivo, con il decreto legge del 9 gennaio
2006 n. 5; questo decreto legge ha ampliamente riformato la disciplina della Legge Fallimentare, ha
eliminato una delle procedure concorsuali, cioè quella dell’amministrazione controllata.
Nel 2007 è intervenuta quella che è stata definita la “riforma della riforma”, formalmente definito decreto
correttivo, che ha introdotto modificazioni, ma anche modificazioni di modificazioni, e risale al 12
settembre 2007 n. 169.
La disciplina attuale consta quindi di queste varie stratificazioni, di queste varie innovazioni che in parte
modificano quelle che le precedono, e in parte contengono aspetti nuovi: si è quindi persa delle quattro
vecchie procedure quella dell’amministrazione controllata, e si è guadagnata invece di nuova quella di
ristrutturazione dei debiti, una sorta di concordato preventivo semplificato.
Accanto a queste procedure e al di fuori della Legge Fallimentare si pone l’amministrazione straordinaria
delle grandi imprese che è nata con la legge Prodi, legge Prodi che è stata censurata dalla Commissione
Europea in quanto è stata vista come una sorta di “aiuto di Stato”; ancora la legge Prodi-bis è stata
modificata in seguito alla crisi Parmalat (la cosiddetta versione Marzano) e infine l’amministrazione
straordinaria è stata ancora ulteriormente modificata in relazione alle odierne vicende dell’Alitalia.
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Diritto delle Procedure Concorsuali La legge delega che consentiva al governo di modificare la disciplina dell’amministrazione straordinaria, ad
esempio per Alitalia, prevede anche la delega al governo per modificare il diritto penale fallimentare.
Che cosa sono le procedure concorsuali?
Cos’è una procedura e quando la si definisce concorsuale?
Una procedura o processo è un insieme di atti preordinati ad un certo fine; fra le procedure più importanti si
pone il processo legale, che si pone il fine di accertare l’esistenza o meno di reati, o il processo civile con il
fine di risolvere delle controversie.
Il processo civile può avere due risvolti, si possono cioè avere due tipi di processo civile: uno è chiamato
processo civile di cognizione, che ha come risvolto una sentenza atta a risolvere una controversia; ad
esempio vi è una sentenza che dichiara tizio debitore di caio e lo condanna a pagare 100 a favore di caio.
Oppure una sentenza che dichiara che è nullo un certo contratto.
Il soggetto condannato, colui che perde la causa, può uniformarsi alla sentenza (cioè pagare), ma può anche
darsi che faccia orecchie da mercante; un processo di cognizione non può quindi non avere un ulteriore fase,
appunto perché può capitare che il soggetto condannato non si adegui alla sentenza: ecco allora il processo
di esecuzione, volto a dare esecuzione, a rendere effettiva la statuizione contenuta nella sentenza.
Analizziamo il caso in cui ci sia una sentenza di condanna: io sono creditore nei confronti di tizio dicendogli
di pagarmi 100 ma lui si rifiuta; inizio allora una procedura civile di cognizione e il giudice proclama una
sentenza che condanna tizio a pagare 100. In questo caso è possibile aggredire i beni di tizio, pignorando i
suoi beni mobiliari, immobiliari e crediti che saranno venduti all’asta per soddisfare il mio credito. La
procedura esecutiva è sempre una procedura individuale, cioè io che vantavo un credito nei confronti di
tizio, posso pignorare certi beni, cioè posso pignorare singolarmente gli immobili, singolarmente i mobili o
singolarmente i crediti per l’importo di 100.
Il fallimento è una procedura esecutiva, cioè una procedura volta a soddisfare i creditori, ma non è una
procedura individuale, bensì concorsuale.
Cioè questa procedura non è volta a soddisfare il solo creditore caio, bensì tutti i creditori, ponendoli così
tutti sullo stesso piano in modo che ogni creditore sia trattato in modo paritetico, salvo alcune eccezioni.
Quindi mentre la procedura individuale aggredisce questo o quel bene, con il fine di risarcire il singolo
creditore della cifra che gli spetta, la procedura concorsuale aggredisce tutti i beni, tutto il patrimonio
dell’imprenditore.
E’ una procedura quella concorsuale che si estende a tutti i creditori, e che colpisce tutti i beni del soggetto
imprenditore.
Lo stato di insolvenza viene considerato come una colpa, e il fallimento nasce come una reazione di fronte
ad un soggetto che ha tradito; difatti la parola fallimento deriva dal latino “fallere”, che significava
ingannare, quindi tradimento.
Il diritto fallimentare nasceva quindi come reazione vigorosa nei confronti di questi comportamenti.
Il termine “bancarotta” nasce proprio dal fatto che la prima sanzione che veniva applicata al commerciante
insolvente era la rottura del banco.
Se la procedura fallimentare deve essere al meglio per i creditori, il chiudere l’esercizio dell’attività
d’impresa può avere un impatto gravissimo perché è meglio cercare di riuscire a vendere un’attività ancora
in funzionamento, cercando così di offrire al mercato un’azienda con una possibilità di risanamento.
Due sono gli strumenti per consentire ad un’azienda di proseguire l’attività (l’esercizio provvisorio e
l’affitto d’azienda) in quanto il fallimento non comporta automaticamente la cessazione dell’attività
d’impresa, ma in caso contrario, cioè di cessazione dell’attività, il legislatore invita a vendere l’azienda nel
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Diritto delle Procedure Concorsuali suo complesso o scorporandola in vari rami: è questa la vendita atomistica, dei singoli beni, che comporta
però la perdita del valore dell’avviamento (esempio del ristorante che inizialmente va bene, e poi entra in
crisi, perdendo così la clientela, il valore dell’organizzazione).
Si punta a valorizzare al massimo le possibilità di rilancio.
La procedura fallimentare è e sarà sempre una procedura molto lunga, fino a che sarà lunga la procedura
civile in sé.
Il legislatore cerca di evitare per quanto possibile il fallimento tramite due strumenti visti prima:
- concordato preventivo;
- accordi di ristrutturazione dei debiti.
Si punta al raggiungimento di un accordo tra creditori e imprenditore, che offre ai primi il rimborso di una
percentuale del debito effettivo, al fine di evitare il fallimento: è interesse dei creditori accettare perché
ottengono di più e prima rispetto a ciò che potrebbero ottenere con il fallimento dell’impresa.
Si punta a intervenire in modo da valorizzare al massimo la funzionalità, l’integrità dell’azienda.
Presupposto soggettivo (dato dall’essere imprenditore, imprenditore in più commerciale, e dall’essere sopra
le soglie previste; il soggetto in questione non può essere un ente pubblico, in quanto non fallibile) e
oggettivo (stato di insolvenza).
Oggi il legislatore ha realizzato un importante obiettivo: la riduzione dei fallimenti, grazie anche al rilancio
delle due procedure alternative, nate nel 2005. Inoltre nel 2007 il legislatore era intervenuto proprio per
apportare delle modifiche a questi due strumenti alternativi, migliorandoli (ad esempio la ristrutturazione dei
debiti, nata proprio nel 2005, era rimasta lettera morta).
Il fallimento come limite presenta l’amministrazione giudiziaria per le grandi imprese: difatti a fallire sono
solo le imprese medie, mentre le grandi imprese non falliscono, in quanto scatta l’amministrazione
straordinaria.
Il legislatore è altresì intervenuto nel 2006 al fine di limitare le procedure concorsuali, togliendo una grossa
fetta di imprenditori minori dalla possibilità di incorrere nel fallimento: come conseguenza si è assistito ad
una riduzione di più del 50% dei fallimenti.
In seguito dell’intervento del legislatore è stato operato un correttivo che di fatto ha leggermente riallargato
la sfera della fallibilità.
Il fallimento delle imprese minori rappresenta per la collettività un grande costo, dai benefici alquanto
scarsi.
Il non essere soggetti a fallimento è da considerarsi un bene, un privilegio?
Paradossalmente è un problema, perché l’essere soggetti a fallibilità per un imprenditore “onesto” comporta
la possibilità dell’esdebitazione.
Difatti se viene conclusa la procedura concorsuale ad esempio con la condanna per l’imprenditore a risarcire
il 20% dei suoi debiti, ciò nonostante, una volta risarciti i creditori, questi potrebbero comunque richiedere il
risarcimento del restante in futuro. Con l’esdebitazione ciò invece non può accadere.
Chi non fallisce quindi non ha l’esdebitazione da fallimento come possibilità (altre possibilità potrebbero
essere la prescrizione o la rinuncia da parte dei creditori).
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Diritto delle Procedure Concorsuali 2. I Soggetti del Fallimento
Chi fallisce e quando?
L’Art 1 e l’Art 5 della Legge Fallimentare rispondono a questi quesiti; l’Art 5 rappresenta il presupposto
oggettivo della dichiarazione di fallimento.
- Art 1. Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo.
“Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano
una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.
Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al
primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
- aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio
dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad
euro trecentomila
- aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di
fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo
non superiore ad euro duecentomila;
- avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. I limiti di cui alle
lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della
giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di
operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.”
- Art 5. Stato d'insolvenza.
“L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito.
Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore
non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.”
Per essere soggetti a fallimento quindi basta presentare anche solo uno di questi requisiti, cioè il superare
anche solo una di queste soglie:
- attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000 €;
- ricavi lordi annui non superiori a 200.000 €;
- ammontare di debiti non superiori a 500.000 € nel momento in cui viene presentata l’istanza di fallimento.
Se l’imprenditore invece presenta questi valori inferiori alle soglie, allora non è soggetto a fallimento.
L’Art 5 indica quando si è soggetti al fallimento: è il presupposto oggettivo della dichiarazione di
fallimento.
Premessa storica: nel 1942 venne promulgato il Codice Civile, contenuto in un regio decreto, e nel definire
la figura dell’imprenditore, era stata operata una tripartizione: le figure individuate furono quella
dell’imprenditore agricolo (il coltivatore diretto del fondo), dell’imprenditore commerciale che produce beni
e servizi e quella del piccolo imprenditore commerciale (l’artigiano, anch’esso produttore di beni e servizi).
Per permettere una distinzione fra piccolo imprenditore e imprenditore che piccolo non è, si ricorre a criteri
qualitativi che fanno riferimento alla modalità dell’organizzazione: il primo criterio impone che vi sia
l’utilizzo come fattore produttivo del lavoro personale del piccolo imprenditore all’interno dell’attività
d’impresa, o del lavoro dei famigliari; il secondo criterio vuole che tale lavoro sia il fattore produttivo
prevalente (quindi superiore all’impiego del fattore capitale e del fattore lavorativo apportato da altri
dipendenti).
Risulta così complicato individuare, verificare il requisito della prevalenza.
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All’interno del Codice Civile ci sono quattro classi di norme per l’imprenditore commerciale, che ne
rappresentano lo “statuto”, che lo caratterizzano:
- l’iscrizione nel registro delle imprese;
- l’obbligo della tenuta dei libri e delle scritture contabili;
- la rappresentanza commerciale (la figura dell’institore e del procuratore);
- l’assoggettamento a fallimento e alle procedure concorsuali.
Sono, queste quattro, le classi che configurano la figura dell’imprenditore commerciale, non del piccolo
imprenditore o dell’imprenditore agricolo.
La Legge Fallimentare del ’42 è coeva al Codice Civile; dalla Legge Fallimentare si perveniva ad una
definizione di piccolo imprenditore utilizzando due parametri quantitativi: il reddito accertato che deve
risultare inferiore al minimo imponibile in sede di dichiarazione d’imposta di ricchezza mobile, o in
alternativa, in caso di mancanza di accertamento sul reddito, si andava a guardare il capitale impiegato, che
al tempo non doveva superare 1.000.000 di Lire.
Compariva così una difficoltà di interpretazione, in quanto si avevano due diverse nozioni di piccolo
imprenditore: una dal Codice Civile e una dalla Legge Fallimentare.
Inoltre nel 1956 venne approvata una legge sull’artigianato che complicò ancora più il quadro.
Si è poi successivamente aperto un processo di semplificazione, tale da permettere una diminuzione di tutte
queste complicazioni che si erano venute a creare, in quanto si son persi dei “pezzi per strada”: ad esempio
nel 1973 si è persa la parte della ricchezza mobile, cosiccome il criterio del milione di Lire; inoltre è stata
data una nuova definizione di artigiano.
Cosa è rimasto?
E’ rimasto l’Art 2083 e l’Art 1 della L.F. dove si dice che le società sono sempre soggette a fallimento (il
piccolo imprenditore è soggetto invece all’Art 2083).
Quindi ricapitolando, l’Art 1 L.F. esponeva un criterio di determinazione di piccolo imprenditore a livello
quantitativo, mentre l’Art 2083 del Codice Civile dava una definizione qualitativa, e tali differenti versioni
non erano conciliabili: in seguito l’Art 1 L.F. cadde (in quanto nel 1973 si era persa la parte della ricchezza
mobile, cosiccome il criterio del milione di Lire), ma oggi si è nuovamente tornati alla situazione passata di
confusione con l’introduzione del nuovo Art 1 L.F.
Le società quindi falliscono sempre, mentre si riscontrano difficoltà nel caso dell’imprenditore individuale,
in quanto è necessario:
- accertare se l’imprenditore svolgeva un’attività nell’ambito dell’impresa come fattore produttivo (non è
accettata quindi la sola attività di direzione dell’impresa);
- superare lo scoglio della prevalenza.
Di fronte a queste incertezze ci si è orientati a trasformare il criterio della prevalenza in un criterio
quantitativo; cioè, quando il fatturato, o il capitale impiegato, non risultavano essere superiori ad un certo
ammontare: tuttavia questo ammontare non era stato specificato, sicché i valori variavano da un tribunale ad
un altro.
Intervenne allora il legislatore, che nel 2006 applicò dei criteri quantitativi, considerando fallibili le società
al di sopra di certe soglie: il risultato di tutto questo è stato un ridimensionamento drastico del numero dei
fallimenti.
Nel 2007 c’è stato un correttivo che ha nuovamente ampliato la fallibilità, anche se in maniera limitata;
inoltre con la riforma del 2007 son state corrette alcune pecche che erano presenti nel testo del 2006.
Il legislatore deve compiere alcune scelte di fondo di politica legislativa:
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Diritto delle Procedure Concorsuali - fallisce solo l’imprenditore: quindi il soggetto non imprenditore non può fallire;
- fallisce solo l’imprenditore commerciale.
L’imprenditore agricolo risultava essere soggetto a due rischi: il non riuscire a produrre in guadagno, cioè il
rischio d’impresa vero e proprio, e il rischio atmosferico.
La dottrina ha criticato la scelta del legislatore di sottrarre l’imprenditore agricolo al fallimento, ancor più
che ora la sua attività si è molto avvicinata anche a tipi di attività commerciali, ed essendosi fortemente
ridimensionato il grado di rischio legato ad effetti atmosferici. Di conseguenza era stata avanzata la proposta
di assoggettare anche l’imprenditore agricolo a fallimento.
Oggi l’imprenditore agricolo è sottratto al fallimento (desumibile dall’Art 1 L.F.), ma nel 2001 è stata
emanata una legge in materia agraria che ha riformato l’Art 2135: oggi è presente così una nozione molto
più ampia di imprenditore agricolo rispetto alla nozione originaria del ’42, in quanto ad esempio si ritiene
imprenditore agricolo anche chi esercita l’attività al di fuori del fondo.
La conseguenza evidente di ciò è che è più numerosa l’area di chi è qualificabile come imprenditore
agricolo, estendendo così l’immunità da fallimento.
- fallimento dell’imprenditore commerciale se al di sopra di certe soglie.
Esigenza di funzionalità della giustizia: non si possono intasare i tribunali fallimentari di piccole procedure,
che non portano a nulla e presentano gli stessi costi delle procedure più grandi; di conseguenza vi è
un’esigenza di efficienza che porta ad eliminare i piccoli fallimenti, esentando i fallimenti di imprese di
piccole dimensioni.
Il non fallire può essere visto come un privilegio (ad esempio a livello di immunità da reati di tipo
fallimentare); ma può presentare tuttavia un paradosso, in quanto si può presentare il vantaggio
dell’esdebitazione (Art 142), vantaggio non godibile nel caso di non assoggettamento a fallimento. Difatti
un imprenditore non soggetto a fallimento che presenta solo più debiti, sarà chiamato a cessare la sua
attività, e i creditori inizieranno a pignorarne tutti i beni possibili, e questo soggetto non riuscirà più ad
uscirne; invece il fallimento viene visto come una via d’uscita, perché una volta chiuso il fallimento, e cioè
una volta che il condannato viene obbligato a risarcire ad esempio il 20% dei suoi debiti, vi è per il soggetto
l’esdebitazione, e così si cancellano tutti i debiti dell’imprenditore “sfortunato e onesto”.
Un discorso di tecnica legislativa va invece operato per determinare le modalità di individuazione
dell’imprenditore soggetto a fallimento:
- le soglie per le società e per gli imprenditori individuali;
- l’individuazione del tipo di soglie (le migliori sono quelle quantitative, che però di per sé creano sempre
ingiustizie).
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Diritto delle Procedure Concorsuali 3. I Criteri per la Determinazione del Fallimento
I criteri quantitativi individuati dal legislatore sono tre, e son elencati nell’Art 1 L.F.:
- attivo patrimoniale;
- ricavi lordi;
- debiti.
E’ sufficiente superare anche solo uno di questi tre criteri per essere dichiarati fallibili.
- Attivo patrimoniale di ammontare complessivo non superiore a 300.000 €; nel 2006 invece il legislatore
faceva riferimento agli investimenti nell’azienda, ma nessuno li sapeva identificare, definire, comportando
incertezza. Il legislatore del correttivo del 2007 è stato più chiaro usando il parametro dell’attivo
patrimoniale. Nel rilevare tale valore bisogna prendere in considerazione la data di deposito dell’istanza di
fallimento (istanza che può essere presentata dai creditori o dal pubblico ministero), andando ad analizzare i
3 esercizi precedenti: è sufficiente sovrastare a questo valore anche solo per uno di questi esercizi per essere
considerati fallibili;
- Parametro dei ricavi lordi, desumibili dal conto economico, e sempre con riferimento ai 3 esercizi
precedenti alla data in cui è stata presentata l’istanza di fallimento. Ricavi lordi “in qualunque modo risulti”,
e quindi vanno considerati anche eventuali ricavi extra-contabili, “in nero”;
- Vengono compresi anche i debiti non scaduti, cioè ancora esistenti, per un ammontare che non deve
superare i 500.000 €.
Il tribunale deve così verificare se l’imprenditore è iscritto nel registro delle imprese, se l’imprenditore è
commerciale (dal registro delle imprese risulta difatti l’attività svolta) e dai bilanci (stato patrimoniale e
conto economico) deve controllare che stia al di sotto delle soglie per i tre parametri visti per essere
considerato non fallibile.
Dall’Art 1 L.F. II comma si legge “Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento…”, che non significa
“non sono piccoli imprenditori”: il legislatore del 2007 non ha preso posizione nel definire chi siano piccoli
imprenditori.
Ma quindi chi è piccolo imprenditore? Questa appena vista difatti è una norma che esaurisce la sua portata
nell’ambito fallimentare, e quindi per la definizione di piccolo imprenditore continua a valere il 2083,
piccoli imprenditori che non seguiranno lo statuto dell’imprenditore commerciale con le quattro classi di
norme (i piccoli imprenditori sono anch’essi però iscritti nel registro delle imprese, ma in una parte
speciale).
Si presentano tuttavia complicazioni ad esempio nel caso in cui tizio per il Codice Civile è considerato
piccolo imprenditore, iscritto nella sezione speciale del registro delle imprese, non obbligato alla tenuta delle
scritture contabili, e valgono inoltre per lui le norme sulla rappresentanza; nel momento in cui un creditore
dovesse presentare istanza di fallimento nei suoi confronti, non si potrebbero verificare l’attivo, i ricavi e i
debiti di tizio in quanto questi non era tenuto alla redazione delle scritture contabili per il Codice Civile, e
rischierebbe quindi anche una condanna per bancarotta semplice (per non aver tenuto le scritture contabili):
è questo un problema di non facile soluzione.
Una regola fondamentale nel processo civile è l’onere della prova: il giudice civile non è chiamato ad andare
lui a compiere le verifiche in un processo civile, ma spetta alle parti, perché in caso in cui non vengano
provate, si ritengono come circostanze inesistenti: l’attore deve provare i fatti costitutivi, il convenuto deve
provare i fatti estintivi o impeditivi.
L’onere della prova spetta a chi ha più facilità nel provarlo.
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Diritto delle Procedure Concorsuali Ora caliamo tutto ciò nell’ambito delle procedure concorsuali: l’istante della dichiarazione di fallimento
deve provare che il fallendo è imprenditore, imprenditore commerciale, che è in stato di insolvenza: son tutti
questi dei fatti costitutivi.
Io richiedente il fallimento devo provare che l’imprenditore è al di sopra di quelle soglie, oppure il
convenuto deve dimostrare di essere al di sotto? Il legislatore del 2006 nulla diceva a riguardo, e ogni
tribunale faceva a modo suo.
Se l’onere della prova è a carico del ricorrente e non lo dimostra, allora il convenuto non fallisce; se invece è
il fallendo a dover dar prova di essere al di sotto, e non lo dimostra, allora egli fallisce.
Soluzione apportata dal legislatore del 2007: nell’Art 1 II comma si ha che “Non sono soggetti alle
disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali
dimostrino…”: l’onere della prova spetta quindi all’imprenditore fallendo.
Perché il legislatore ha deciso così? E’ stata una regola dettata dal buon senso, in quanto è l’imprenditore
fallendo che conosce i propri ricavi, debiti e l’attivo patrimoniale; sarebbe difatti più difficile l’onere della
prova se fosse a carico del ricorrente.
Ulteriore complicazione: il giudice mette sul tavolo nel processo civile i fatti costitutivi e impeditivi, e non è
chiamato a fare ulteriori indagini; trattandosi invece di tribunale fallimentare, il legislatore ha attribuito a
questo potere istruttorio d’ufficio: difatti l’Art 15 L.F. relativo alla procedura di dichiarazione di fallimento
prevede che il tribunale fallimentare possa provvedere autonomamente a compiere indagini istruttorie.
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Diritto delle Procedure Concorsuali 4. Procedimento per la dichiarazione del fallimento
- Art 15. Procedimento per la dichiarazione di fallimento.
“Il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale
con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio.
Il tribunale convoca, con decreto apposto in calce al ricorso, il debitore ed i creditori istanti per il fallimento;
nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa per la dichiarazione di
fallimento.
Il decreto di convocazione è sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore se vi è delega alla
trattazione del procedimento ai sensi del quinto comma. Tra la data della notificazione, a cura di parte, del
decreto di convocazione e del ricorso, e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a
quindici giorni liberi.
Il decreto contiene l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la
dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a sette giorni prima dell’udienza per la
presentazione di memorie ed il deposito di documenti e relazioni tecniche. In ogni caso, il tribunale dispone,
con gli accertamenti necessari, che l’imprenditore depositi una situazione patrimoniale, economica e
finanziaria aggiornata.
I termini di cui al terzo e quarto comma possono essere abbreviati dal presidente del tribunale, con decreto
motivato, se ricorrono particolari ragioni di urgenza.
Il tribunale può delegare al giudice relatore l’audizione delle parti. In tal caso, il giudice delegato provvede,
senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori
richiesti dalle parti o disposti d’ufficio.
Le parti possono nominare consulenti tecnici.
Il tribunale, ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio
o dell’impresa oggetto del provvedimento, che hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e
vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che
rigetta l’istanza.
Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti
dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila. Tale importo è
periodicamente aggiornato con le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 1.”
Se si applicasse in modo rigido l’onere della prova, le due parti dovrebbero provvedere solo loro alla
raccolta delle prove, come appunto si è detto nel caso del processo civile; nel caso invece di processo
fallimentare, se le prove presentate risultassero insufficienti, il tribunale può integrare d’ufficio le prove
mancanti: tali indagini possono essere svolte tramite la Guardia di Finanza o attraverso consulenti che
forniscono documenti tecnici.
Quindi, in conclusione, dal momento che il tribunale ha il potere di integrare, non esiste il diritto di chiedere
il proprio fallimento; esiste il dovere (vi è difatti una legge penale che colpisce chi non chiede il proprio
fallimento aggravando la propria situazione).
Non ci si può presentare di fronte al tribunale fallimentare richiedendo il proprio fallimento, dichiarando
cioè di essere al di sopra delle soglie, ma risulta necessaria una verifica d’ufficio da parte del tribunale
fallimentare (Art 14 delinea gli obblighi dell’imprenditore che richieda il proprio fallimento).
Stato di insolvenza: presupposto oggettivo delle dichiarazioni di fallimento. E’ definito nel II comma
dell’Art 5 “Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino
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Diritto delle Procedure Concorsuali che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.”: risulta quindi essere
una situazione definitiva, e non solo temporanea; è anche il caso di chi è in grado di adempiere, ma in modo
irregolare (in ritardo, o dando beni in natura), che risulterebbe così insolvente.
L’insolvenza viene così vista come una sorta di “malattia”, in quanto “si manifesta”; ne sono dei “sintomi” il
non essere in grado di adempiere, la fuga, la latitanza, la messa in cassa integrazione…
Stato di insolvenza stato di illiquidità, in quanto con lo stato di illiquidità non si ha denaro sufficiente per
adempiere alle obbligazioni, ma si ha magari la possibilità di ricorrere a credito bancario o ad altre forme di
finanziamento.
Il regio decreto 267 del 1942 si apre con un titolo primo; ed è composto da tre articoli. Al primo articolo si
enunciano quali siano le imprese soggette a fallimento, concordato preventivo e ristrutturazione dei debiti
(presupposto soggettivo) mentre al secondo al terzo articolo si descrive il rapporto tra il fallimento e le altre
due procedure concorsuali.
Con l'Art 5 inizia la disciplina del fallimento, descrivendo lo stato di insolvenza (presupposto oggettivo).
Il fallimento è una procedura concorsuale, una procedura esecutiva, cioè diretta a realizzare i crediti dei
creditori del fallito (si punta cioè a vendere i beni del fallito per pagare i crediti); ma è solo una visione
parziale, perché con il fallimento ci si rifà a tre procedure, o meglio, si distinguono due sub-procedure
necessarie e una eventuale:
- la prima procedura diretta alla dichiarazione di fallimento;
- la seconda è la procedura di fallimento in senso stretto, diretta ad alienare i beni e a dividerne il ricavato;
- è possibile innestare un procedimento diretto a chiusura della procedura, denominato concordato
fallimentare.
Questa distinzione ha dato filo da torcere, in quanto non era chiaro quando si sarebbero dovute applicare le
nuove regole (vanno applicate quando parte la procedura fallimentare? O vanno applicate autonomamente
per ogni sub-procedura?).
- classificazione di questa procedura: il legislatore ha detto che è un'ipotesi di procedimento in camera di
consiglio: è un modello di processo civile, cioè diretto a emettere un certo provvedimento attraverso
un'istruttoria semplificata, in quanto di solito il provvedimento non è una vera e propria sentenza che risolve
una controversia (ad esempio nel caso della nomina del liquidatore dovuto al fatto che gli amministratori
non si erano messi d'accordo). Il legislatore detta una serie di regole inerenti a questa qualificazione.
E' però un procedimento in camera di consiglio ritenuto anomalo, in quanto si tratta di una qualificazione
non del tutto adatta a questa definizione, perché la sentenza incide profondamente sulla vita della società e
del fallito, e perché è una piena istruttoria, di carattere completo, e non sommaria.
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Diritto delle Procedure Concorsuali 5. La legittimizzazione alla domanda di istanza di fallimento
Quali sono i soggetti legittimati a domandare questa procedura? Il legislatore parla di “iniziativa per la
dichiarazione di fallimento”; sono tre i soggetti legittimati a domandare tale procedura:
A. il debitore;
B. uno o più creditori;
C. il pubblico ministero.
A. costui è il fallendo, cioè il fallimento può essere richiesto in proprio (“l'imprenditore ha portato i libri in
tribunale”; l’imprenditore ha difatti il dovere di chiedere la propria dichiarazione di fallimento se rischia di
aggravare la situazione di insolvenza prolungando la propria attività;
B. è l'ipotesi più frequente; si può sempre richiedere quando esistono il presupposto soggettivo e oggettivo
della dichiarazione di fallimento. Spesso è un'arma di pressione, in quanto promuovendo l'istanza di
dichiarazione di fallimento per ottenere il pagamento del proprio credito, il creditore deve valutare se esiste
la convenienza a fare ciò, in quanto la dichiarazione stessa può far scattare azioni revocatorie o può portare a
un ristoro minimo, mentre un accordo extra-giudiziale avrebbe magari potuto portare a un risultato migliore;
C. all’Art 7 L.F. compaiono le ipotesi in cui il pubblico ministero può presentare domanda diretta alla
dichiarazione di fallimento, e tali ipotesi sono:
I. quando l'insolvenza risulti da un procedimento penale o da una serie di circostanze gravi (fuga, latitanza,
chiusura dei locali dell'impresa...);
II. quando risulti da segnalazione del giudice civile, che avrebbe rilevato lo stato di insolvenza durante un
processo civile.
-Art 7. Iniziativa del pubblico ministero.
“Il pubblico ministero presenta la richiesta di cui al primo comma dell’articolo 6:
1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o
dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione
o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore;
2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un
procedimento civile.”
Nel passato la procedura diretta alla dichiarazione di fallimento poteva essere richiesta anche dal giudice
civile stesso d'ufficio: oggi non ha più tale competenza il tribunale, però se lo viene a sapere ha l'obbligo di
segnalare la sussistenza dello stato di insolvenza al pubblico ministero. Ciò comporta un risvolto sul piano
operativo: ad esempio se il creditore ha un credito verso l'imprenditore fallibile, e questi non paga
nonostante i numerosi solleciti, il primo potrà presentare istanza per la dichiarazione di fallimento: a questo
punto può capitare che l'imprenditore fallibile vada dal creditore per saldare il debito e allora il creditore fa
un atto di desistenza rinunciando all'istanza; il problema è delicato in quanto la stessa istanza promossa dal
creditore ha messo in moto il primo sub-processo di dichiarazione di fallimento. A questo punto se oggi il
creditore desiste dall'istanza di dichiarazione di fallimento, la procedura non si chiude qui, ma viene
comunque compiuta un'indagine per verificare che non ci sia veramente un eventuale stato di insolvenza e,
nel caso in cui tale presupposto oggettivo sia accertato, allora il giudice civile ha l'obbligo di informare il
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Diritto delle Procedure Concorsuali pubblico ministero.
Scenario di diritto societario: il legislatore individua tre soggetti per mettere in moto la procedura; ad
esempio se una società fallibile va male, ed è cioè ritenibile in stato di insolvenza, allora ci saranno i soci e
gli amministratori ed entrambi potranno promuovere la procedura diretta alla dichiarazione del proprio
fallimento.
Ma chi decide? Per ipotesi diciamo gli amministratori. Ma nelle SpA e nelle SRL di grandi dimensioni c'è
anche il collegio sindacale, che potrebbe evidenziare la gravità della situazione, e che dispone della facoltà
di invitare gli amministratori a chiedere l'istanza per non aggravare la situazione societaria, e della facoltà di
convocare l'assemblea dei soci, così come di promuovere l'azione di responsabilità contro gli amministratori,
o di denuncia di gravi irregolarità di fronte al tribunale. In più un tempo il collegio sindacale poteva
sottoporre al pubblico ministero le proprie valutazioni, invitandolo a chiedere la dichiarazione di fallimento.
Oggi possono ancora farlo? No perché il pubblico ministero deve promuovere la dichiarazione di fallimento
solo quando l'insolvenza risulti dal procedimento penale o in seguito a segnalazione del giudice civile.
Quindi stando letteralmente a quanto detto dall'’Art 7 L.F., la segnalazione dei sindaci non sarebbe valida
come richiesta di dichiarazione di fallimento di fronte al pubblico ministero.
L'atto per la dichiarazione di fallimento risulta omogeneo dal punto di vista processuale, qualsiasi sia il
soggetto a promuoverlo; tuttavia letteralmente dall'Art 6 I comma sembra dire tutt’altro.
Art 6. Iniziativa per la dichiarazione di fallimento.
“Il fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero.
Nel ricorso di cui al primo comma l’istante può indicare il recapito telefax o l’indirizzo di posta elettronica
presso cui dichiara di voler ricevere le comunicazioni e gli avvisi previsti dalla presente legge.”
Ipotizziamo che tizio sia creditore di caio che è un imprenditore: il creditore deve dimostrare di essere un
soggetto legittimato a mettere in moto la procedura di richiesta di dichiarazione di fallimento, dicendo ad
esempio che lui ha stipulato un contratto di vendita, consegnando un bene a caio, ma che caio stesso non ha
ancora pagato, e tutto ciò traspare da una regolare fattura. Poi deve dimostrare che caio è un imprenditore, e
per di più che è un imprenditore commerciale (a ciò si può risalire dal certificato della camera di commercio
o dal registro delle imprese). Il creditore deve anche dare prova dello stato di insolvenza dell'imprenditore,
cioè che caio non è più in grado di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni (dimostrabile
dall'esistenza di protesti, di pignoramenti); oppure lo stato di insolvenza è dimostrabile tramite lo strumento
degli indici di bilancio, dai quali è desumibile l'eventuale squilibrio finanziario che minerebbe il
proseguimento dell'attività di impresa.
Riassumendo quindi il tutto, a tizio creditore spetta il dovere di dimostrare:
- di essere creditore di caio;
- che caio è imprenditore;
- che caio è imprenditore commerciale;
- che caio risulta essere in stato di insolvenza.
Una volta depositato l'atto di dichiarazione di fallimento, da qualunque dei tre soggetti legittimati a farlo,
che cosa succede? Il giudice competente a dichiarare il fallimento è il tribunale, e la competenza per
territorio è determinata dalla collocazione della sede principale dell'impresa (Art 9 I comma).
Art 9 II comma sul trasferimento della sede: se si trasferisce la sede, si è dichiarabili falliti dal tribunale
della vecchia sede entro un anno dal trasferimento.
- Art 9. Competenza.
“Il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa.
Il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione
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Diritto delle Procedure Concorsuali di fallimento non rileva ai fini della competenza.”
Art 15 L.F.: la tappa successiva è l'udienza, fissata dal tribunale in quanto deve essere rispettato il principio
del contraddittorio (cioè la possibilità che le parti si possano difendere); il debitore può difendersi
dimostrando che mancano uno o più dei presupposti (dimostrando ad esempio di non essere imprenditore, o
di non essere imprenditore commerciale, o di essere al di sotto delle soglie, o di non essere in stato
d'insolvenza): il solo imprenditore difatti risulta poter essere in grado di dare prova di essere al di sotto delle
soglie.
Si apre poi la fase di istruttoria fallimentare, diretta ad acquisire prove, prove documentali (certificato della
camera di commercio dal quale traspare se caio fosse o no imprenditore, o imprenditore commerciale, o altri
documenti come bilanci dai quali verificare gli indici, o eventuali protesti) e tali prove possono anche
bastare per dichiarare o no il fallimento, senza bisogno così di un'ulteriore fase istruttoria.
Novità dell'Art 15 VI comma: il tribunale può promuovere un'istruttoria d'ufficio per approfondire l'indagine
tramite due strumenti:
- la richiesta di informazioni a un qualunque pubblico ufficio (ad esempio la Guardia di Finanza);
- eventuali consulenze tecniche.
Il tribunale può anche emettere provvedimenti cautelativi con efficacia immediata affinché i beni
dell'imprenditore fallendo non vengano dispersi (si punta così a sottrarre la gestione dell'azienda al fallendo,
attribuendola ad un terzo): ciò si verifica dall’Art 15 VIII comma.
Successivamente si arriva poi ad una decisione: si potrà così avere o una sentenza di dichiarazione di
fallimento, o un decreto di rigetto dell'istanza di fallimento. È possibile l'impugnazione della sentenza e tale
atto viene chiamato reclamo, ed è attuabile dinanzi alla Corte d’Appello, reclamabile dal debitore e da
chiunque sia interessato entro 30 giorni dalla precedente sentenza.
E' possibile un eventuale successivo ricorso di fronte alla Cassazione.
Il decreto che respinge la dichiarazione di fallimento può essere, sempre entro 30 giorni, reclamato da parte
del creditore o dal pubblico ministero (che aveva chiesto il fallimento), con la Corte d’Appello che può
confermare o revocare il decreto, trasmettendo gli atti che dichiarano il fallimento al tribunale.
Il legislatore ha introdotto un ulteriore presupposto per la dichiarazione di fallimento, ulteriore appunto a
quello soggettivo e a quello oggettivo: tale presupposto è nascosto all'interno dell'’Art 15, difatti all'ultimo
comma si accenna a debiti scaduti cioè non ancora pagati che, se dall'istruttoria prefallimentare risultano
ammontare a una cifra inferiore ai 30.000 €, allora il tribunale respinge l'istanza. E’ questo il presupposto
processuale della dichiarazione di fallimento, e viene definito processuale in quanto emerge in sede di
istruttoria prefallimentare; se il creditore vanta un credito scaduto e non pagato per un ammontare inferiore a
30.000 €, deve cercare altri crediti presso altri creditori per superare tale soglia.
Nell'ipotesi in cui l'imprenditore abbia cessato l'attività o sia deceduto, può ancora essere dichiarato fallito?
Secondo l'’Art 10 si può essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese,
e il fallimento deve intervenire entro l'anno (non basta l'istanza, ma deve essere stato dichiarato il
fallimento).
-Art 10.
Fallimento dell’imprenditore che ha cessato l’esercizio dell’impresa.
“Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione
dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno
successivo.
In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la
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Diritto delle Procedure Concorsuali facoltà di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo
comma.”
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Diritto delle Procedure Concorsuali 6. Gli organi protagonisti del fallimento
Il legislatore negli Art dal 23 al 41 disciplina in modo ampio i quattro organi protagonisti della procedura di
fallimento in senso stretto, procedura diretta ad alienare i beni e a dividerne il ricavato. La riforma ha
potenziato un certo organo (comitato dei creditori), mentre ha depotenziato un altro organo (giudice
delegato): questo era il programma delle legislatore, ma in realtà non è andata proprio così. I quattro organi
sono:
- il tribunale fallimentare;
- il giudice delegato;
- il curatore fallimentare;
- il comitato dei creditori.
Il tribunale fallimentare interviene in momenti fallimentari importanti e dichiara il fallimento; è e resta il
principale organo investito dell’intera procedura, dalla fase istruttoria fino alla chiusura, e ha pieno potere di
decidere tutte le controversie che nascono dalla procedura.
Provvede alla nomina e alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura,
qualora tale compito non spetti al giudice delegato.
E’ sovrano della fase prefallimentare: procede difatti all’accertamento dei presupposti soggettivo, oggettivo
e processuale.
Al tribunale sono inoltre conferiti poteri di indagine sull’effettiva sede dell’impresa, mantenendo la propria
competenza indipendentemente dai mutamenti che si verifichino entro l’anno dall’apertura dell’istruttoria;
gli spettano inoltre i poteri di emettere provvedimenti d’urgenza con natura cautelare e conservativa, a tutela
del patrimonio del fallendo ovvero dell’impresa sottoponibile a fallimento.
Al tribunale spetta poi il dovere di liquidare al curatore le spese e gli onorari della procedura su proposta del
giudice delegato. Anche la chiusura della procedura spetta all’organo collegiale come la decisione sugli altri
istituti capaci di far cessare il fallimento.
Il giudice delegato, prima della riforma, aveva una funzione di rilievo in quanto era colui che dirigeva le
operazioni dando le autorizzazioni al curatore, che era quindi il braccio operativo: il giudice delegato era
quindi l'organo di direzione e autorizzazione.
Oggi, stando alle norme, il quadro è ben diverso: il giudice delegato è ancora considerato un organo di
direzione e autorizzazione, ma per scelte di valenza giuridica operata dal curatore, mentre per le scelte di
valenza economica il curatore necessita delle autorizzazioni da parte del comitato dei creditori.
Tale discorso però è puramente teorico, già solo per il semplice fatto che è difficile creare un comitato dei
creditori, in quanto questi non vogliono farne parte: i motivi di tale decisione sono dovuti al fatto che i
creditori che dovessero far parte del comitato devono assumersi responsabilità sulle scelte effettuate, e
d'altronde non viene neanche assegnato loro un compenso. Se tale comitato non riesce a essere formato, le
scelte spettano al giudice delegato, e quindi oggi la situazione risulta essere cambiata poco rispetto al
passato.
Oggi il giudice delegato convoca il comitato dei creditori e il curatore, per chiedere informazioni circa le
scelte di gestione; gli spetta il potere di dirimere le controversie insorte nell’ambito delle procedure
promosse dal fallito, dai terzi interessati, dal comitato dei creditori e non solo nei confronti del curatore.
Provvede poi alla liquidazione dei compensi delle persone nominate dal curatore in suo ausilio.
Ancora al giudice delegato spetta il potere di sospendere le operazioni di vendita per gravi e giustificati
motivi.
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