Appunti su "Il primo libro di antropologia" di Marco Aime.
Letteralmente "antropologia" significa "studio dell’uomo", ma è meglio dire "studio degli uomini", il suo essere parte di un gruppo di individui con cui intrattiene relazioni di vario genere (affettive, parentali, sessuali, di vicinato, commerciali, politiche…), che diventano l’oggetto di studio dell’antropologia, la "cultura". Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un determinato gruppo di persone in quanto condivisi.
Il primo libro di antropologia
di Elisabetta Pintus
Appunti su "Il primo libro di antropologia" di Marco Aime.
Letteralmente "antropologia" significa "studio dell’uomo", ma è meglio dire
"studio degli uomini", il suo essere parte di un gruppo di individui con cui
intrattiene relazioni di vario genere (affettive, parentali, sessuali, di vicinato,
commerciali, politiche…), che diventano l’oggetto di studio dell’antropologia, la
"cultura". Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un
determinato gruppo di persone in quanto condivisi.
Università: Università degli Studi di Cagliari
Facoltà: Economia
Esame: Demoetnoantropologia - A.A. 2010/2011
Docente: Felice Tiragallo e Tatiana Cossu
Titolo del libro: Il primo libro di antropologia
Autore del libro: Marco Aime
Editore: Einaudi
Anno pubblicazione: 20081. Definizione di antropologia
Sir Edward Tylor, nel 1871, dice: La cultura, presa nel suo significato etnografico più ampio, è
quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza
acquisita dall’uomo come appartenente a una società. Ruth Benedict dice: La cultura è ciò che tiene insieme
gli uomini.
Tutte le varie categorie della vita dell’uomo sono apparentemente a sé stanti, ma nella mente degli individui
queste espressioni sono spesso inevitabilmente connesse a qualche livello. I diversi modi di organizzare la
società, la vita quotidiana, le differenti cognizioni del mondo circostante rispondono di volta in volta a
esigenze e processi storici particolari, che rimandano e danno vita a una rete di simboli, che non può essere
percepita osservandone solo una maglia: lo studio dev’essere olistico e totalizzante, tenendone conto dei vari
elementi di una società e di una cultura. Si parte quindi da un nodo della rete per comprenderne l’intera
struttura, per poi tornare ad analizzare quel nodo alla luce del tutto: le cosiddette connessioni, dove ogni
particolare si definisce connettendosi a significati globali. L’antropologo cerca regole nell’insieme di
pratiche spesso strane e di difficile comprensione che un gruppo umano mette in atto; tenta di dare ordine
alle azioni che ognuno di noi compie quotidianamente, in maniera spesso meccanica, conformista, senza
sentire la necessità di ricondurle a un determinato concetto di cultura.
Una delle caratteristiche dell’antropologia culturale è: partire dall’osservazione particolare per giungere a
una comprensione globale. Dal momento che ogni gruppo umano è un caso a sé stante, l’approccio
relativista è uno dei pilastri fondamentali: atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturale
dev’essere spiegata all’interno del quadro simbolico della società che la produce. Quelle che chiamiamo
culture sono degli insiemi di comportamenti e regole che vengono appresi vivendo in un determinato
contesto sociale. Vengono utilizzati due termini per indicare due diverse prospettive di osservazione: etico
(si intende il punto di vista dell’osservatore esterno, del ricercatore, che spesso è altro rispetto alla comunità
in cui studia, è uno sguardo da fuori che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo scientifico)
ed emico (è il punto di vista di chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi fatti e agisce
senza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo e routine).
A problemi comuni gli individui danno risposte differenti perché "i problemi, essendo esistenziali, sono
universali, le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse". Ogni forma di espressione culturale scaturisce
dall’elaborazione prodotta da un cervello biologicamente e strutturalmente identico a quello di ogni altro
essere umano, ma ciò non impedisce che ciascuna delle popolazioni del pianeta sviluppi soluzioni diverse a
situazioni condizionate da eventi esterni oppure di adottare scelte arbitrarie e convenzionali. In questo modo
la cultura diventa una sorta di magazzino del sapere accumulato da un gruppo, anche se ci sono delle forme
di trasversalità che attraversano molte culture, ma ciò non impedisce che due sistemi, anche se
incommensurabili, non possano essere comunque comparati tra di loro.
L’atteggiamento relativista si oppone all’etnocentrismo, che esprimerebbe una "concezione per la quale il
proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono considerati e valutati in rapporto a
esso". Il risultato è quello di giudicare sbagliato tutto ciò che non risponde ai propri canoni: anche se non
approvato dagli antropologi, è un tratto che accomuna la maggior parte dei gruppi umani del presente e del
passato. Ogni società tende a pensarsi fondamentalmente buona e circondata da gruppi e persone
tendenzialmente non buoni; tutto ciò che non è consueto viene visto come non naturale.
Elisabetta Pintus Sezione Appunti
Il primo libro di antropologia
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Ai tre stadi operativi previsti in una ricerca antropologica (descrizione, analisi e interpretazione), viene
aggiunto uno step preliminare, in cui il ricercatore definisce l’ambito della ricerca e determina quali concetti
mettere in evidenza, che spesso sono quelli che gli sono più consoni. La personalità, il genere, l’età, la
nazionalità e gli studi compiuti condizionano l’approccio alla ricerca. Ci sono quindi varie correnti che però
non si sono succeduti come lungo una scala evolutiva, ma nella maggior parte dei casi hanno convissuto.
Gli inizi dell’antropologia moderna sono legati a uomini come Henry Lewis Morgan (1818 – 1881), Edward
Tylor (1832 – 1917) e James Frazer (1854 – 1941), che per primi, nella seconda metà dell’Ottocento,
diedero forma e statuto di disciplina alle varie pratiche occasionali e non strutturate. La loro prospettiva, l’
evoluzionismo sociale o unilineare, prevedeva una classificazione del genere umano sulla base del grado di
evoluzione raggiunto: quello selvaggio, quello della barbarie e quello della civiltà. Ciò aveva il merito di
accomunare nella categoria degli "umani" anche quei popoli che fino ad allora erano stati considerati come
semianimali o comunque non umani, ma anche il limite di avere una visione etnocentrica: nel gradino più
alto c’erano gli occidentali, mentre gli altri erano in attesa di civilizzarsi o di essere civilizzati. Il tempo e il
progresso avrebbero accompagnato tutti lungo la scala, trasformandoli in perfetti gentlemen londinesi. Non
era concepibile che pezzi di umanità prendessero strade diverse.
Più tardi, negli anni Quaranta – Cinquanta, le teorie vennero riprese da studiosi come Julian Steward (1902 –
1972), Leslie White (1900 – 1975), Elman Service (1915 – 1996) e da Marshall Sahlins (1930), in chiave
multineare. La svolta del neoevoluzionismo sta nel determinare linee di sviluppo multiple e parallele lungo
le quali ogni società passerebbe attraverso vari stadi di complessità, senza dover per forza seguire un
percorso unico.
Intorno alla fine dell’Ottocento, ispirati dagli studi di geografi tedeschi come Friedrich Ratzel (1884 –
1904), alcuni antropologi spostarono l’accento sulla distribuzione spaziale di tratti culturali comuni. La
nuova prospettiva, chiamata diffusionismo, puntava a identificare delle aree culturali all’interno delle quali
si riscontrassero tratti comuni: disponendo cronologicamente queste aree, si potevano individuare dei punti
di irradiamento da cui si sarebbero diffusi, nelle regioni vicine, elementi della cultura originaria.
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Il primo libro di antropologia
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In parte le istanze dei diffusionisti vennero riprese dalla scuola tedesco – americana, sviluppatasi negli USA
all’inizio del Novecento, con i maggiori esponenti in Franz Boas (1858 – 1942), Robert Lowie (1883 –
1957), Edward Sapir (1884 – 1939), Alfred Kroeber (1886 – 1960) e ClydeKluckhohn (1905 – 1960), tutti
di madrelingua tedesca e con studi fatti in Germania o in Austria. Affinando la teoria delle aree culturali
spostarono l’accento sul particolare, il "tratto culturale": elementi che potevano contribuire a determinare un
insieme culturalmente omogeneo tenendo conto delle specificità storiche di ogni area.
In Francia le riflessioni di Emilie Durkheim (1858 – 1917) diedero vita alla scuola sociologica francese, che
si fondava sull’osservazione empirica per conferire uno statuto di scientificità ai dati e sull’idea di
considerare i fenomeni sociali come fatti aventi una vita propria, indipendente dall’apporto dei singoli. In
pratica, la cultura precederebbe la società, che sarebbe determinata da una coscienza collettiva superiore a
quella del singolo. Suo allievo fu Marcel Mauss (1872 – 1950), che può essere considerato il fondatore della
tradizione etnologica francese. Teorizzò i fatti sociali totali, quegli aspetti particolari di una cultura che sono
in relazione con tutti gli altri aspetti di quella cultura: attraverso l’analisi di un fatto sociale totale, quindi, è
possibile leggere per estensione le diverse componenti di una società.
La grande svolta è legata ai nomi di Bronislaw Malinowski(1884 – 1942) e Reginald Radcliffe-Brown (1881
– 1955), che ruppero con le tradizioni precedenti, abbandonando il loro studio per recarsi sul terreno, dando
vita alla pratica dell’osservazione partecipante. Malinowski andò nelle isole Trobriand e Radcliffe-Brown
nelle isole Andamane, svolgendo le loro ricerche nel secondo decennio del Novecento, dando vita alla
corrente essenzialmente britannica del funzionalismo, termine che deriva dalla metafora organica utilizzata
per descrivere le società umane. Queste sarebbero la risultante dell’azione di diverse funzioni che, come gli
organi del corpo umano, lavorano per mantenerlo in vita. Tra i due padri fondatori sorsero però delle
divergenze: per Malinowski la funzione delle istituzioni sociali era quella di soddisfare i bisogni biologici
dell’individuo (funzionalismo biologico), mentre per Radcliffe-Brown, il fine delle diverse componenti era
di mantenere l’equilibrio della struttura sociale (struttural-funzionalismo). Entrambi si erano disinteressati
della dimensione storica, rivalutata in seguito da Evans-Pritchard (1902 – 1973), che fece ricerche in Africa
che lo aiutarono ad affinare la prospettiva funzionalista introducendo la dimensione diacronica.
La principale critica mossa al funzionalismo è quella di una lettura statica delle società, ripresa poi negli
anni Cinquanta dagli antropologi della Scuola di Manchester: Max Gluckman (1911 – 1975), Victor Turner
(1920 – 1983) e Edmund Leach (1910 – 1989) spostarono l’accento sul conflitto e sulle dinamiche interne a
ogni società, vista non più come un organo in equilibrio statico, ma come il prodotto di un continuo processo
di trasformazione, basato sul conflitto.
Lo strutturalismo, che ebbe come precursore Henry Lewis Morgan, fu determinante l’opera di Claude Lévi-
Strauss. Lo strutturalismo, sotto l’influenza delle teorie linguistiche e psicologiche, ha come obiettivo il
dimostrare l’unità psichica del genere umano attraverso l’individuazione di categorie universali della mente.
Le diversità culturali sarebbero delle varianti di temi costanti, insiti nella struttura psichica umana.
Di scuola prettamente francese fu l’antropologia marxista, sviluppatasi negli anni Sessanta, che voleva
uscire dalle strette maglie dell’analisi di Marx, troppo etnocentriche e impossibili da applicare in contesti
extraeuropei: individuò modi di produzione diversi da quello capitalista senza perdere di vista le questioni
legate alla stratificazione sociale, all’interrelazione tra modello economico e struttura sociale e ai rapporti tra
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Il primo libro di antropologia
Il documento non può essere copiato, riprodotto, trasferito su altri siti. Per scaricare appunti in PDF gratuitamente, visita https://www.tesionline.it/appunticolonizzati e colonizzatori. In Italia si sviluppò all’ombra del pensiero di Gramsci, che si occupò con altri
antropologi del folklore e delle culture contadine dell’Italia del Sud.
L’antropologo americano Marvin Harris, riprendendo i tre livelli marxisti infrastruttura, struttura e
sovrastruttura, propone una prospettiva che conduca a una vera scienza della cultura e alla individuazione di
leggi generali che regolano le società umane: il materialismo culturale. Si fonda sul principio secondo cui
l’infrastruttura, che comprende i modelli di produzione e di riproduzione, oltre all’ambiente, determinerebbe
la struttura (economia, gruppo familiare, organizzazione politica), a sua volta determinata dalla
sovrastruttura, cioè l’apparato ideologico, religioso e simbolico di ogni società. Ha molti punti in comune
con la corrente dell’ecologia culturale, che si sofferma analizzando prevalentemente gli aspetti relativi
all’adattamento e all’economia: più che di culture si occupano di popolazioni, perché le culture non
muoiono di fame, mentre le popolazioni sì.
Se materialisti ed ecologi culturali si basano su uno sguardo esterno per ricondurre il tutto a leggi generali,
opposto è l’interpretativismo di Clifford Geertz (1926 – 2006). Abbandona il metodo comparativo per
puntare l’obiettivo sui significati locali, indigeni, dei fatti culturali, che possono essere compresi solo
facendo riferimento al quadro simbolico della cultura che li produce. L’etnografia, caratterizzata da una
descrizione densa, sarebbe pertanto una pratica fine a se stessa.
Alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti prende forma la scuola di pensiero postmodernista, la cui
attenzione si sposta sul processo di produzione del testo etnografico. I rapporti tra osservatori e osservati
vengono messi in discussione, si analizzano i processi di scrittura, le retoriche descrittive, portando
l’antropologia su un terreno più prossimo alla letteratura e trasformando l’analisi antropologica in una critica
culturale sempre più rivolta alla nostra società.
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Wittgenstein invitava ad osservare, più che a pensare: l’osservazione partecipante è il pilastro portante della
ricerca antropologica. L’antropologo è colui che è di casa fuori casa, si piazza nelle comunità o nella località
che intende studiare e inizia a osservare, intervistare, fotografare, e a scrivere: l’etnografia è la prima e
indispensabile fase della ricerca, la descrizione di ciò che si osserva e si intuisce, una sorta di reportage
approfondito.
La ricerca antropologica si fonda sul metodo induttivo: parte da elementi, dati, fatti particolari osservati, per
poi arrivare a considerazioni di carattere generale. È chiaro quindi che la pratica di terreno è la cifra
caratteristica dell’antropologia culturale: è grazie a una permanenza prolungata e a una convivenza stretta
con la popolazione locale che si arriva a familiarizzare con una determinata cultura locale. Tendenzialmente
l’antropologia privilegia il metodo qualitativo, anche perché il lavoro avveniva in contesti privi di scrittura,
dove non era facile avere dati di tipo quantitativo se non raccogliendoli di prima mano.
In epoca recente il contesto è però cambiato: spostandosi su terreni più vicini o interni alla società
occidentale, i ricercatori hanno dovuto fare i conti con gli archivi, le statistiche e varie fonti scritte; in alcuni
casi i dati di archivio e le fonti orali possono divergere. Inoltre, i dati scritti non riportano quasi mai le
motivazioni che portano ad avere quei determinati dati: per questo è molto importante chiacchierare, con
interlocutori che vengono chiamati "informatori", persone che hanno voglia di stare ad ascoltare e di
rispondere alle domande, compiendo in prima persona un lavoro di analisi e di interpretazione, cercando di
capire le motivazioni di azioni diventate abitudini. In questo gioco delle parti non ci sono regole fisse, tanto
meno un metodo, anche perché più che scegliere si viene scelti dalle persone più intraprendenti.
L’antropologo dipende da chi è disposto a collaborare con lui.
Negli ultimi anni, da uno sguardo unidirezionale si è passato a una multifocalità: i punti di osservazione di
moltiplicano, con attori localizzati anche in luoghi diversi. L’antropologo non fa più l’osservatore seduto
sul muro che divide la sua cultura da quella che sta osservando, ma si è spesso ritrovato a lavorare in una
sorta di terra di nessuno, in un terreno che non è già, ma non è più ancora, ma è tra. L’altro è sempre altro,
ma porta sempre qualcosa di nostro dentro, soprattutto in questi anni dove l’altro vive spesso accanto a noi,
con conseguenti confini meno netti.
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Il primo libro di antropologia
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Il primo modo con cui noi percepiamo gli altri passa attraverso lo sguardo: l’aspetto di un individuo è il
primo parametro sulla base del quale classifichiamo e definiamo un individuo. Uno dei primi elementi che si
incontrano in una ricerca è proprio l’aspetto delle persone, il loro modo di presentare il corpo, di decorarlo,
di modellarlo.
Gli antropologi si sono sempre interrogati sul rapporto tra natura e cultura: il corpo umano è un ottimo
strumento per analizzarlo, poiché l’uomo ha completato la propria struttura con un più o meno consistente
apparato culturale. La diffusa opinione che fosse stato il fatto di avere un cervello proporzionalmente più
grande rispetto agli altri primati ad aver consentito all’uomo di costruire e utilizzare attrezzi è stata
capovolta da Andrè Leroi-Gourhan, che sostenne che fosse il fatto di utilizzare attrezzi che ha contribuito
allo sviluppo del nostro cervello. La cultura ha contribuito a influenzare la natura del nostro corpo, così
come la lingua ha influenzato la distribuzione genetica dei gruppi umani. L’intreccio e l’interscambio tra
natura e cultura è continuo e costante. È vero che discendiamo dalle scimmie, ma è anche vero che il corpo
che ci accomuna è scolpito, disegnato e modellato in modo diverso: dall’acconciatura alle pitture corporali,
alle incisioni e alle deformazioni, come se il corpo così com’è non soddisfi le esigenze dell’uomo.
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Il primo libro di antropologia
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ebbene presenti varietà somatiche, polimorfismi e variabili genetiche, il corpo come apparato biologico può
essere considerato come universale, il denominatore comune dell’essere umani, e come tale è oggetto di
studio di biologi, medici e antropologi fisici. Altro dato universale è che non c’è una cultura che accetti il
corpo così come ci viene donato da Madre Natura: nessuna società che accetti di lasciare i capelli incolti,
che non limiti la crescita delle unghie, che non applichi una qualche sostanza sulla pelle. Il corpo viene
inciso, modellato, amputato, come a voler sancire un distacco dalla natura, marcarne la differenza; l’uomo e
il suo corpo così come sono sono carenti, non funzionano come dovrebbero.
I capelli vengono tagliati, acconciati, colorati, fino a diventare decorazione, cornice per il volto, espressione
di una moda, di un gruppo, di un’epoca. Negli anni Sessanta-Settanta, portare i capelli lunghi significava
aderire a un modello ideologico di contestazione, come pure i punk con le loro creste colorate. L’adozione
dei dreadlocks, rappresenta un’idea di resistenza e un’identità legate a un’origine africana attraverso la
venerazione del ras tafari, l’imperatore di Etiopia Haile Selassie; per la maggior parte dei giovani che
aderiscono al movimento rasta, significa aderire al pensiero musicale portato avanti principalmente da Bob
Marley. Nell’Africa occidentale le pettinature femminili assumono significati ben precisi, non solo connessi
all’appartenenza a un gruppo, ma anche alla condizione della donna che le porta.
Le pitture facciali dei nativi americani davano origine a un vero e proprio codice comunicativo, come pure
le pitture corporali dei nuba del Sudan. L’utilizzo di cosmetici per sfumare il colore della pelle del viso o per
sottolineare i tratti degli occhi o delle labbra risponde non solo alle mode, ma anche a un nostro stato
d’animo. Presso gli hagen della Nuova Guinea, colorate pitture corporali e decorazione con piume indicano
un big man, capo eletto dal gruppo.
In altri contesti si vuole invece disegnare e scolpire il corpo in maniera irreversibile, come i tatuaggi, pratica
nata in Polinesia (serviva a distinguere lo status sociale degli individui) e adottata dai marinai dei mari del
Sud, diventando in certi casi un marchio punitivo e d’infamia, impresso sulla pelle di galeotti, prostitute e
omosessuali. Con il passare del tempo perde la connotazione dell’emarginazione, diventando (fin dal XVIII
secolo in Giappone) una forma d’arte vera e propria, destinata ad esprimere bellezza, fino a diventare un
semplice vezzo estetico o con un significato politico, conservando però la sua valenza di marchio d’identità.
Monocromatico o colorato, il tatuaggio necessita di uno sfondo chiaro, quindi in molte popolazioni dalla
pelle scura si procede alla scarificazione, un’incisione superficiale della pelle che prevede l’inserimento di
piccoli grani, che danno origine a disegni in rilievo che possono essere letti come emblema di bellezza o
come un linguaggio simbolico. La carta d’identità di molti abitanti dell’Africa occidentale è incisa sul loro
volto fin da bambini, attraverso piccole cicatrici di forma e combinazione diversa nelle guance che indicano
il gruppo etnico di appartenenza e il clan di origine.
Il corpo appare quindi come una pagina bianca su cui poter scrivere.
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Non sono presenti solo segni che riguardano la superficie del corpo: la letteratura etnografica è ricca di
prove inflitte alle carni umane, dal rito della frustata alle lacerazioni dorsali praticate con una pietra, alle
varie forme di circoncisione. Il dolore così vissuto è un’esperienza necessaria, un supporto e un mezzo
indispensabile per attraversare la soglia della normalità e acquisire uno status diverso. Pelle e carni vengono
penetrate violando un confine considerato intangibile: la pelle rappresenta il limite estremo del corpo, il
labile confine che ci separa dal resto del mondo. Inoltre, l’infliggersi dolore con tagli, punture e sfregi è
considerato un antidoto al dolore esistenziale, che annulla e annienta il sé, che dimostra a chi prova il dolore
che è ancora vivo: soffro, dunque esisto.
Il corpo diventa quindi materia malleabile, da personalizzare a seconda degli schemi culturali o individuali,
da scolpire, modellare, amputare. L’allungamento del collo tramite l’apposizione progressiva di anelli di
metallo, i piattelli labiali, la dolicocefalia (allungamento del cranio), la compressione dei piedi, mettono in
atto quel processo di costruzione dell’individuo sociale che viene definito antropopoiesi: azione che non si
limita alla modifica della forma per manipolazione, ma che prevede l’amputazione, il taglio di parti del
corpo, come nel caso della circoncisione e delle mutilazioni genitali femminili.
Meno dolorosi e condotti al di fuori di impianti rituali, anche gli interventi di chirurgia plastica rientrano
nelle pratiche di modellamento del corpo, anche se realizzati a scopo terapeutico. Più intrusiva è la pratica di
espianto e trapianto di organi, che da una parte salvano vite umane, ma dall’altro alimentano un traffico che
ripropone il divario tra i più abbienti e tra chi non ha niente se non la nuda vita. La moderna tecnica
chirurgica ha riconcettualizzato la relazione fra sé e altro, fra individuo e società e le tre forme del corpo: il
sé esistenziale del corpo vivente, il corpo nella sua rappresentazione sociale, il corpo politico.
I riti di passaggio sono caratterizzati da tre fasi fondamentali: la prima è la fase di separazione, in cui gli
individui escono momentaneamente dal gruppo sociale; la seconda è la fase liminale in cui i soggetti hanno
abbandonato lo status precedente ma non hanno ancora quello nuovo; infine la fase di riaggregazione, che
vede il rientro degli iniziati nel gruppo, carichi del nuovo status.
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Il primo libro di antropologia
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È attraverso il corpo che distinguiamo il sesso degli individui: ogni società umana è composta da maschi e
da femmine, riconoscibili non solo dalle caratteristiche anatomiche, ma anche da una serie di elementi
culturali che traducono il sesso, dato naturale, in genere. Infatti gli individui nascono sessuati ma senza
genere, che dev’essere costruito sulla base di tipologie sociali condivise e accettate.
Per Norman Mailer, non basta essere anatomicamente foggiati in un certo modo per essere considerati
uomini, e che l’essere uomo è legato a un concetto di virilità. Non a caso è importante distinguere il sesso
dal genere: il primo è legato all’anatomia e immutabile, mentre il genere p una categoria simbolica, il
prodotto di una costruzione culturale, un’icona sociale che porta con sé le implicazioni morali. È vero che
non c’è nessuna società umana che attribuisce a uomini e donne compiti diversi, ma è anche vero che il
modo in cui si concepisce l’essere femmine o maschi è diverso da cultura a cultura.
Sono molte le lingue che usano un termine neutro per definire i bambini: termini che indicano individui che
non hanno ancora appreso le regole del vivere in società.
La costruzione del genere inizia dall’infanzia, dove vengono indicati pratiche o giochi diversi a seconda del
sesso: i modi di vestire, i trattamenti, che portano anche alla divisione sessuale del lavoro; in molti casi la
divisione si fonda sulla forza fisica, ma anche ora ci sono lavori tipicamente maschili o femminili.
Ci sono quindi anche riti iniziatici per conquistarsi la virilità: immersioni profonde, rischiose spedizioni,
pratiche di sopportazione del dolore. Anche poco tempo fa, chi non veniva considerato idoneo alla leva
militare, non era considerato un vero uomo. C’è la concezione che sia l’uomo a dover portare il pane a casa,
come ostentare eccellenti prestazioni sessuali: il cosiddetto machismo. La virilità dev’essere anche ribadita
nel comportamento quotidiano, con diversi modi di fare a seconda del sesso, con la gestualità: un uomo che
gesticola come una donna è considerato effeminato, una donna che si comporta come un uomo è considerata
mascolina.
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Il primo libro di antropologia
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La femminilità si presenta più come una condizione biologica: mentre ai ragazzi è spesso impartita
un’educazione attraverso delle prove che li strappano alla famiglia, per le bambine sono previste forme di
iniziazione di carattere domestico, che tendono a inserirle nel contesto al quale si pensa debbano destinare
gran parte della loro vita.
Il ruolo della donna è principalmente legato alla procreazione, e anche le sue tappe sono legate a momenti
strettamente connessi con la riproduzione. Lo status di madre diventa fondamentale in tali contesti e ne è
prova il fatto che in molti casi una donna sposata può essere ripudiata dal marito perché considerata sterile.
Che a mettere al mondo i figli siano le donne è fuori discussione, così come è lei che li allatta, ma non è
scontato che debba essere una donna per forza ad accudire i bambini: la cura dei bambini non è legata alla
riproduzione. Le donne sono madri, ma fanno anche le madri: scelta che spesso viene imposta al maschio, i
quali si sarebbero appropriati in esclusiva della sfera pubblica.
In nessuna società uomini e donne hanno uguali possibilità: il rapporto tra generi è sempre caratterizzato da
un maggiore o minore grado di diseguaglianza, considerata quasi sempre naturale. La gerarchia di genere
nasce dal fatto che i bambini maschi si percepiscono come diversi dalle madri, con le quali intrattengono la
loro prima relazione emotiva, e imparano a eliminare o celare le loro qualità femminili per realizzare
completamente l’identità maschile. Da ciò deriva il fatto che i maschi ritengano il lavoro delle donne di
rango inferiore. Nasce cioè da "insiemi coerenti di rappresentazione, di schemi mentali incorporati": la
maternità ha finito per giustificare l’esclusione o la maggiore difficoltà di accesso delle donne alla sfera
pubblica.
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Di solito i sessi in natura sono due, ma i generi possono essere di più. Sono state riportate molte descrizioni
di berdaches, che erano individui che assumevano abbigliamento e comportamenti caratteristici delle donne
e a volte potevano contrarre una sorta di matrimonio con persone del loro stesso sesso. Il loro ruolo era
socialmente riconosciuto e godevano di uno status che spesso ne faceva degli intermediari tra uomini e dei.
In molte società native americane era prevista la nozione di terzo genere, indifferente al proprio sesso
anatomico, che non comportava però nessuna implicazione rispetto alle preferenze sessuali. Non solo veniva
accettata l’esistenza di un genere di mezzo, ma addirittura poteva essere incoraggiata, perché erano
considerati portatori di uno status quasi sacro e considerati benedetti dalle divinità in quanto dotati di una
visione mistica del futuro,, grazie alla capacità di entrare in contatto con gli spiriti. I "maschi" berdaches
potevano anche diventare le mogli degli uomini più coraggiosi o di donne che erano diventate uomini dando
prova come valorosi guerrieri. In Alaska venivano educati sin dall’infanzia alcuni bambini maschi a
svolgere compiti femminili e a indossare abiti da donna: una volta adulti, avrebbero sposato gli uomini più
importanti del gruppo, che avrebbe avuto altre donne, per i quali avrebbe svolto lavori domestici.
Genere di mezzo o terzo genere non significa per forza omosessualità o transessualità: tutto questo è frutto
della nostra società. Lo spazio sociale tra i due poli non è vuoto, ma caratterizzato da un continuum lungo il
quale possono trovare collocazione altre forme di espressione del genere. Esiste una percezione soggettiva di
sé, per la quale i due livelli non coincidono necessariamente. I transessuali non rappresentano però un vero e
proprio terzo genere: si tratta di individui biologicamente maschi o femmine che, grazie a chirurgie
specializzate, hanno mutato il loro sesso modificando gli organi genitali. Hanno semplicemente cambiato
genere, identificandosi in quello che si sentono più consono.
Esempi di genere di mezzo sono gli eunuchi: sia nella castrazione per mantenere la loro voce pura, favorita
dall’unione delle caratteristiche delle voci maschili, femminili e bianche, il tutto amplificato da una
poderosa cassa toracica che permetteva di eseguire note lunghissime. Non si trattava però di un
adeguamento del proprio corpo alla propria auto percezione, ma di pratiche imposte con la violenza.
Elisabetta Pintus Sezione Appunti
Il primo libro di antropologia
Il documento non può essere copiato, riprodotto, trasferito su altri siti. Per scaricare appunti in PDF gratuitamente, visita https://www.tesionline.it/appunti11. Coprire e scoprire il corpo
Alla pelle gli uomini ne hanno sempre aggiunto un’altra, fatta di stoffe, corteccia, foglie, pelli, per coprire,
esaltare e disegnare le forme. L’abito, infatti, non serve solo a riparare dal freddo, dai raggi del sole o da
altri eventi naturali, ma anche per ridisegnare il corpo coprendone certe parti e lasciandone intravedere altre.
Oltre a tutto ciò, il coprirsi è collegato al senso del pudore, che è sempre esistito, anche quando in certe
popolazioni si andava in giro nudi: era considerato infatti sconveniente soffermarsi a guardare i genitali.
Presso molte popolazioni africane il seno non è considerato oggetto erotico, quindi non è da coprire, mentre
invece le cosce devono essere sempre coperte. Nella maggior parte delle società umane si è restii a mostrare
i genitali in pubblico, ma non è la nudità in sé ad essere considerata oscena: è l’atteggiamento morboso che
si ha verso di essi che viene condannato o sanzionato. In ogni caso, ogni cultura ha deciso quali parti erano
da coprire e quali no, con regole che, essendo legate alla storia, possono anche mutare, soprattutto quando
interviene anche la religione.
L’hijab, il velo che incornicia il volto di molte donne musulmane, rappresenta un segno di pudore, diffuso in
tante altre società: anche in Italia, prima, si recavano a messa a capo coperte, come fanno tutt’ora le suore.
Più drastico il burqa, che annulla totalmente qualsiasi forma femminile.
Tutto l’opposto certi abbigliamenti occidentali, molto aderenti, o del reggiseno push up, che tendono a
evidenziare le forme.
Per quanto riguarda gli uomini, ci sono tendenze opposte: in chiesa si devono togliere il cappello, in
sinagoga non possono entrare a capo scoperto.
L’utilizzo del corpo come espressione morale è reso in modo evidente dalla diversità di attribuzione alle
diverse parti di esso di una valenza morale ed estetica, che definisce i confini etici di una società. In certe
popolazioni del Sudafrica, per esempio, l’esperienza sessuale prematrimoniale è considerata molto
importante, purché la ragazza non rimanesse incinta: la ragazza doveva tenere le gambe unite e strette in
modo che ci fosse contatto con il pene ma non con le parti intime. Tale pratica si diceva comportasse una
buona padronanza dei muscoli delle gambe e del sedere: avere natiche forti e sode era interpretato come
segno di innocenza e di alta moralità, e veniva esibito non perché fossero prive di morale, ma perché
andavano fiere del proprio corpo, simbolo del loro rispetto dell’ordine morale stabilito dalla loro cultura.
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Il primo libro di antropologia
Il documento non può essere copiato, riprodotto, trasferito su altri siti. Per scaricare appunti in PDF gratuitamente, visita https://www.tesionline.it/appunti12. Il corpo dopo la morte
Il corpo è percepito talmente tanto come un fatto culturale che neanche dopo la morte viene abbandonato
totalmente nelle mani della natura. L’uomo seppellisce i propri morti e i funerali sono sempre un evento
collettivo. In forme diverse, tutti praticano la toilette del morto, la composizione del cadavere, la sua cura, la
sua vestizione, la preparazione di cibi per il viaggio, la protezione dall’esterno (bara o telo, per esempio). La
cura dei corpi dei defunti rappresenta l’estremo tentativo di strapparli alle ingiurie del tempo; seppellire è un
modo per dissimulare il deperimento della carne; l’imbalsamazione temporanea lo rallenta; in altre culture la
si accelera, facendo per esempio mangiare il corpo dagli avvoltoi o cremando il corpo; viene combattuta la
decomposizione invece in pratiche come la mummificazione o la criogenizzazione (congelamento del
corpo). La conservazione che aspira alla perennità è anche strumento del potere.
Distrutto o conservato, il corpo non viene mai lasciato al proprio destino: i vivi ne segnano in un qualche
modo il percorso, e anche gli anonimi ossari con i resti dei caduti nelle guerre è un modo per non
abbandonare all’oblio quelle spoglie senza nome. Diverso il destino dei corpi dei santi cristiani, portati in
giro per essere ostentati e adorati, con continui investimenti estetici. Il culto delle reliquie non era un
rimasuglio pagano, ma era il simbolo della sconfitta sulla morte: il corpo, anche se a pezzi, risponde al
bisogno di fisicità e di materialità di cui i culti hanno bisogno, non è più un semplice resto organico, ma
incorpora rapporti sociali importantissimi.
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Il documento non può essere copiato, riprodotto, trasferito su altri siti. Per scaricare appunti in PDF gratuitamente, visita https://www.tesionline.it/appunti13. Studio antropologico: la nascita
La nascita di un bambino costituisce sempre un evento, sia per la drammaticità del parto sia per gli
interrogativi che pone sull’esistenza umana, con risposte diverse a seconda della società.
La scienza occidentale spiega come il concepimento avvenga in seguito all’incontro degli spermatozoi
maschili con quelli femminili all’interno dell’utero, ma non per tutti è così. Per esempio, per i trombrianesi
la nuova vita iniziava con la morte di un individuo: il defunto segue il suo spirito che lo porta nell’isola dei
morti, dove conduce una vita come quella che faceva da vivo, ma più bella; a un certo punto però si stanca e
desidera tornare sulla terra, che avviene facendo un salto indietro nel tempo e tornando bambino; si lascia
cullare nelle onde del mare finché non incontra lo spirito della madre che lo mette sulla testa della donna
incinta, che comincia a stare male e a vomitare; infine, si infila nella pancia della donna e rinasce. Per altri il
bambino è come una pianta, che prende vita dallo sperma come se fosse un seme e cresce nella pancia della
madre nutrendosi del suo sangue; per altri ancora è la parola che ha un potere fecondante, ma solo quella
buona, quella che dall’orecchio (considerato un secondo sesso femminile) arriva direttamente all’utero, che
produce l’umidità necessaria alla procreazione; per altri ancora certi antenati possono produrre bambini
attraverso piccole escrescenze ossee trovate nelle sue ossa. Non è un processo di rinascita come quello
induista, ma una sorta di legame tra antenati e neonati che rappresenta la continuità, mentre nel primo caso è
l’anima dell’individuo a trasmigrare dopo la morte in un altro corpo.
La nascita di una coppia di gemelli è considerata ovunque un evento eccezionale, che può avere valenza
positiva o negativa. È positiva per i dogon, che lo rimandano al tempo in cui tutti gli esseri nascevano in
coppia: perciò i due bimbi, che sono come toccati da un genio, hanno un valore superiore agli altri; in
Uganda, i genitori di gemelli avevano il potere di far crescere con maggior vigore le piante di banano; nel
Togo questo tipo di parto è di ottimo auspicio e offrono noci di cola a statuette raffiguranti gli spiriti
gemello. È negativa invece per i bassari, che in passato ne sopprimevano uno; nel Congo vengono chiamati
"i bambini dell’infelicità"; in Zambia e in Congo appartengono al mondo animale e sono oggetto di
avversione.
Tutto ciò è teso a fornire un senso all’esistenza umana, al ciclo che si perpetua, con un legame tra nascita e
morte, sottolineate entrambe da eventi rituali: spiegare una nascita significa mettere in luce una concezione
del mondo tesa a spiegare il mistero della vita.
La tecnologia e la conoscenza medica hanno reso possibile la manipolazione dell’evento naturale e la
separazione la procreazione dalla sessualità: utero in affitto, fecondazione artificiale… Tali pratiche sono
oggetto di discussione perché rimettono in gioco l’ordine generale, la concezione della vita, stravolgendo il
mondo precedente.
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Tutti noi cresciamo, ci sviluppiamo e a un certo punto iniziamo a declinare: l’invecchiamento biologico
viene visto in modi diversi. Ovunque si opera una suddivisione del ciclo di invecchiamento in fasce più o
meno ampie, con conseguenti periodi di vita, con comportamenti diversi. Nella nostra società l’età
anagrafica viene definita con la differenza tra anno corrente e anno di nascita: questo dato indica però solo
in modo approssimativo il grado di invecchiamento biologico dell’individuo. Esistono poi definizioni come
bambino, ragazzo, giovanotto, adulto e anziano che hanno a che fare con la percezione che si ha di un
individuo, con relativi comportamenti diversi per ogni età: si è più tolleranti con un bambino, meno con un
ragazzo, si esige responsabilità da un adulto, esperienza da un anziano. Questi sono i cosiddetti "gradi di età
informali".
Il primo grado di età informale è quello dei bambini, concezione sociale del piccolo individuo. Non esiste
un’età assoluta dopo la quale si cessa di essere bambini, ogni cultura determina il passaggio in base a
elementi diversi: in occidente, è la scuola che scandisce le prime fasce di età; in altre popolazioni il
passaggio è legato a rituali come la circoncisione, o quando il maschietto è in grado di manovrare la zappa e
la ragazzina a trasportare la legna sulla testa. In generale, un individuo esce dallo status di bambino quando
entra a far parte del ciclo produttivo.
I sistemi di classificazione mutano anche all’interno di una stessa società con il trascorrere del tempo: prima,
per esempio, bambini piccolissimi venivano già assunti come lavoratori e venivano trattati sicuramente non
come bambini che hanno il diritto di giocare. Molti storici della famiglia parlano di invenzione dell’infanzia
come una conquista della società occidentale contemporanea, tant’è che in inglese ci sono due termini per
indicare il lavoro: work per l’impiego salariato, labour per l’attività svolta dai bambini all’interno del
contesto familiare. Questo porta a vedere come deprecabile il lavoro minorile, ma in molte parti del mondo
questo è l’unico modo per sopravvivere.
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Il concetto di età di cui ogni società fa uso quotidiano è un prodotto culturale che non viaggia di pari passo
con il processo di invecchiamento fisico: quindi, bisogna avere meccanismi che vincolino l’aspetto
biologico con quello sociale, come può essere la maggiore età. Non sempre l’età biologica determina l’età
sociale. A volte, però, l’età può condizionare i rapporti umani anche in società complesse, come in
Giappone, dove gli uomini si dividono in tre categorie fondamentali: i senpai, (senior) i kohai (junior) e i
doryo (colleghi), con una divisione basata sul rango, determinato dall’anzianità, che viene non solo dall’età
biologica ma anche da quella di assunzione in una ditta, di laurea o di diploma, con un conseguente
comportamento diverso degli individui.
Ogni cultura attribuisce alle varie fasi della vita progetti e aspettative diverse, che determinano la struttura
sociale e la stratificazione di comunità. In Tanzania l’età dei maschi costituisce il fondamento delle divisioni
territoriali, dando luogo a gruppi chiamati villaggi d’età: quando si avvicinano alla pubertà, lasciano
l’attività della cura del bestiame di cui si erano occupati prima e raggiungono un villaggio abitato da
coetanei poco distante da quello d’origine, dove si dedicheranno alla coltivazione dei campi.
In molte società l’età è organizzata sulla base di un vero e proprio sistema di classi: è un’istituzione culturale
e politica, che mette in relazione età biologica ed età sociale, creando una struttura che lega l’età degli
uomini ai loro ruoli e ai loro status. Stabiliscono un ordine cognitivo e strutturale all’interno di una
popolazione, creando categorie basate sull’età e sulla generazione, come un sistema di parentela,
assicurando una regolarità demografica e una stabilità sociale durevole: implica continuità e sostituzione di
personale in maniera ordinata e prevedibile, attraverso la collocazione dei nuovi membri al posto di quelli
deceduti. Si possono distinguere due modi fondamentali di reclutamento: quello iniziatico, che prevede
l’ingresso dei giovani maschi nel primo grado di età in seguito a un’iniziazione collettiva, e generazionale,
dove ci sono diversi sistemi complessi di gradi che dividono l’intera vita dell’individuo.
Presso alcune culture l’attribuzione dell’età di un individuo non è solo il prodotto matematico di una
sommatoria, ma passa attraverso altri fattori socialmente determinanti, come in Giappone. Le classi di età
operano un appianamento delle differenze dovute al diverso sviluppo di ciascun individuo: l’inserimento in
un gruppo comporta un livellamento, anche se all’interno ci saranno individui che emergono grazie alle loro
doti personali. L’età fisica non corrisponde meccanicamente a un’età sociale, mentale o sessuale, e le classi
d’età compiono un appianamento delle differenze individuali e presentano alla comunità un gruppo di
uguali, sforzandosi di fare dell’invecchiamento un processo culturale piuttosto che fisico, tentando quindi di
arrestare almeno in parte il flusso del tempo, unendo gli uomini in gruppi i cui membri hanno pari diritti e
pari status, con segmenti di tempo definiti: l’età non conosce confini territoriali né divisioni di parentela. Nel
momento in cui i due sessi iniziano a distinguersi socialmente, anche i sistemi per scandire le loro età
differiscono. Nelle società tradizionali in genere le donne non sono inserite in un sistema strutturato di classi
di età formale, ma solo informale, determinati da fattori connessi con il processo riproduttivo: pubertà,
matrimonio, primo parto, parti successivi, menopausa. Lo status della donna è quindi determinato dal suo
essere o non essere una madre, dove l’età biologica non è un elemento fondamentale di calcolo.
Per quanto riguarda la vecchiaia, mentre in occidente ormai è quasi una parola tabù, nelle società
tradizionali agli anziani viene attribuito un ruolo importante. Nella nostra società si usa il termine "terza età"
per indicare l’abbandono del mondo produttivo: l’anziano è visto come inadatto a compiere qualsiasi
attività, improduttivo e passibile di emarginazione.
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