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Studio antropologico: la morte


Quando si è davvero morti? La soglia tra vivi e morti non è sempre chiara, molto spesso ci si ritrova di fronte a una dimensione dove vivi e morti convivono nello stesso mondo, dove la soglia tra la terra e l’aldilà è poco chiara e comunque valicabile nei due sensi. La morte cerebrale non è accolta ovunque, poiché viene considerata innaturale in quanto riduce la morte da processo socialmente definito a semplice evento biologico.
È interessante il fatto che neppure dopo la morte lasciamo del tutto questo mondo, anzi proprio nel momento in cui sembra che il nostro corpo sia giunto alla fine riacquista una dimensione sociale: la morte riporta il nostro corpo nella società, accompagnata da cerimonie collettive che coinvolgono l’intera comunità. Il decesso di un individuo evidenzia le relazioni tra il mondo dei vivi e quello dei morti, rimettendo in gioco quelle tra i superstiti.
La cessazione delle attività vitali implica un cambiamento di status del corpo: in alcuni suscita orrore, paura di contaminazione, in altri è possibile toccare il cadavere, rimanergli vicino. In occidente sia la nascita che la morte sono definitivamente ospedalizzati, dove sono gli specialisti ad accudire i nostri corpi; in passato invece l’idea di buona morte era legata alla propria casa, al proprio letto, circondati dai parenti.
La morte rimanda a concezioni cosmologiche relative a credenze extraumane, mettendo in comunicazione i superstiti con un’idea di aldilà: diverse credenze religiose prevedono una vita dopo la morte, assicurando il proseguimento del legame tra vivi e defunti; i morti diventano antenati, con il loro culto: diverse tipologie di offerte funebri sotto forma di cibo, oggetti e fiori, con una particolare attenzione a come e dove vengono sepolti (per esempio, gli uomini del Benin vengono sepolti con il capo a ovest, in direzione delle terre di origine degli antenati, mentre le donne con il capo a est, in direzione del mercato), come se si volesse continuare la vita in un altro mondo. La fine di una vita non è solo la fine di un uomo, ma anche di una parte della società: vengono messe in discussione anche le relazioni tra i superstiti. Presso i lodagaa del Ghana settentrionale, i riti funebri hanno l’effetto di distruggere i ruoli affettivi del defunto e di ridistribuirli tra i vivi, riorganizzando anche le relazioni di carattere amicale o amoroso.
Nonostante si dica che la morte rende tutti uguali, sono poche le popolazioni che cercano di fare riti uguali per tutti: solitamente la morte di una persona importante si traduce in un fatto politico, che implica non solo la glorificazione del defunto, ma anche la conferma del successore. Presso molte popolazioni la morte del capo o del re dà il via a una sorta di vuoto istituzionale, in cui tutto è concesso, dove la gente può tenere qualsiasi comportamento voglia: questo per far capire il caos in cui si vivrebbe se non ci fosse qualcuno a reggere le sorti della società. Soprattutto nei casi in cui il sovrano possieda qualità divine: il re incarna il legame con l’aldilà, con le divinità, con gli antenati, depositario del benessere e del buon funzionamento della società intera. La costruzione di monumenti funebri, talvolta colossali, sottolinea come si voglia fissare nella memoria in ricordo degli uomini più potenti. La morte sacralizza i ruoli, li enfatizza.

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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