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L'uomo e la sua abitazione


La casa è un universale condiviso dall’umanità intera: non esiste popolo che non abbia studiato un modo di chiudersi rispetto all’ambiente esterno, e non solo per le intemperie, ma anche per ripararsi dagli sguardi altrui e per delimitare spazi sociali d’azione. Ogni tipo di abitazione risponde non soltanto ad esigenze di tipo pratico, ma è anche un segno nello spazio ricco di simboli. La casa è il particolare tecnico più comune a uomini e animali, la cui costruzione dipende spesso dalla natura, per quanto riguarda materiali e clima: si esprime la relazione tra cultura e natura. Sul piano tecnologico le diverse tipologie abitative si fondono su due fattori principali: la disponibilità di materiali e le esigenze climatiche, più la trasportabilità per le società nomadi.
Nella maggior parte delle società tradizionali e in quella occidentale prima della rivoluzione agricola, la casa si evolveva intorno a materie prime locali, dal momento che il trasporto era costoso o difficile da effettuare, con una profonda interazione con l’ambiente circostante. Un’abitazione non è solo una costruzione, ma si carica di simboli e valori, esprimendo un concetto spaziale di appartenenza che non si limita all’edificio. In molti villaggi africani le abitazioni sono raggruppate in compound all’interno di un cortile recintato, che è già casa, tant’è che ci si toglie le scarpe prima di entrarci; negli Stati Uniti esiste la balloon frame, costruzione di legno dal telaio molto leggero e dalla forma standardizzata, che corrisponde alle esigenze di mobilità che caratterizzano la sua popolazione, in modo da avere ovunque gli stessi spazi e la stessa disposizione. Diverso il concetto di casa nella società italiana, dove costituisce uno dei più importanti investimenti della vita, con una scelta lunga e laboriosa, con un’idea di stabilità, si investe economicamente ed emotivamente nell’abitazione. Nella lingua inglese abbiamo due parole per abitazione, house e home: la prima indica una costruzione qualsiasi, la seconda è carica di simbologie legate alla famiglia e alla vita domestica, uno spazio fisico e simbolico.
L’avere o non avere una casa determina l’inclusione o l’esclusione sociale, tanto che i barboni vengono chiamati "senza tetto" e in inglese "homeless", che indica anche la mancanza di un contesto domestico più ampio. Presso i walser del Monte Rosa, l’abitazione tradizionale è costruita in legno e poggia su una base di pietra contenente la cantina, con la stalla separata dal corpo della casa, per non condividere gli stessi spazi con gli animali, mentre la parte superiore della casa è costruita in tronchi appena squadrati con la tecnica del blockbau (tipica delle popolazioni di origine germanica), e in alto c’è una piccola apertura detta seelenbaggen: quando un familiare moriva, l’apertura veniva liberata per far uscire l’anima del defunto, e dopo veniva richiuso per evitare che tornasse a spaventare i vivi. I costruttori di tende da campeggio hanno scoperto la razionalità e l’efficacia della forma a igloo: dagli inuit viene costruito con blocchi di neve compatta, disposti a cerchi sempre più stretti fino ad assumere la forma a cupola, assestando la temperatura all’interno intorno agli 0 gradi, non poco rispetto all’esterno. Le moderne trasformazioni sociali ed economiche, legate alle ricchezze del sottosuolo artico, hanno portato gli inuit verso una maggiore sedentarizzazione, con nuove case in legno e la costruzione di nuovi centri abitati. Alcuni giovani lavorano presso i grandi complessi estrattivi durante i mesi estivi per poi trascorrere il resto dell’anno all’interno degli igloo con le famiglie e lavorando come cacciatori, con un aumentare dei campi nomadi stagionali. I boscimani kung, che abitano nel deserto del Kalahari, costruiscono ripari semisferici con materiali vegetali, dato il loro nomadismo, e sono le relazioni familiari a determinare la disposizione e le distanze tra le diverse capanne. Presso gli shuar delle regioni amazzoniche dell’Ecuador sono le relazioni sociali a determinare forma e disposizione dell’abitazione, chiamata jibarìa (a pianta ovale); simile situazione anche nel Ladakh, dove la casa (unico spazio non diviso da muri) presenta delle rigide divisioni sociali, con la zona del focolare riservata alle donne, lo spazio vicino al muro che da alla strada per gli uomini e gli ospiti, dove anche qui si trova una rigida gerarchia basata sul genere, importanza dell’ospite e età (l’uomo più prestigioso siede accanto alla ruota di preghiera e viene servito per primo, per esempio).
L’abitazione, quindi, diventa una metafora visibile della società, come ben si capisce nel caso della casa lunga degli irochesi (popolo che vive nella regione dei Grandi Laghi tra USA e Canada), organizzati nella "lega delle cinque nazioni": l’intero territorio era un’unica grande abitazione comune in cui ardevano cinque fuochi, con villaggi dove c’erano le long house, abitazioni collettive per un massimo di 20 famiglie, orientate lungo l’asse est-ovest, per connettere lo spazio abitato con quello cosmico, e tetto, pareti e pavimento riflettevano il cielo, il suolo e la terra, oltre a riproporre la divisione sociale in 3 gruppi di clan che rappresenterebbero l’umanità, mentre la porta orientale simboleggiava l’inizio di tutte le cose e quella occidentale, sempre chiusa, la fine di tutto.
La casa, in molte lingue, diventa anche metafora di uno spazio più ampio di quello strettamente domestico, indicando familiarità, come quando diciamo "giocare in casa" o "sentirsi a casa".

Tratto da IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA di Elisabetta Pintus
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