Gli appunti prendono in considerazione gli eventi storici relativi al periodo 1943 - 1973.
Storia contemporanea
di Gherardo Fabretti
Riassunto del testo Storia d'Italia 1943-1996. il riassunto prende in
considerazione gli eventi storici relativi al periodo 1943 - 1973.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Storia contemporanea
Docente: Salvatore Adorno
Titolo del libro: Storia d'Italia 1943 - 1996
Autore del libro: Paul Ginsborg
Editore: Einaudi
Anno pubblicazione: 19891. L'assetto postbellico, 1945 – 1948
Il 21 giugno del 1945, dopo otto settimane di serrata contrattazione – atteggiamento questo che si rivelerà
peculiare nel processo di formazione dei futuri governi – viene eletto come Presidente del Consiglio dei
Ministri del Regno d'Italia Ferruccio Parri, ex partigiano del Partito d'Azione col nome di Maurizio che
illuse la Resistenza italiana con la speranza di potere essere effettivamente parte integrante del processo
politico di formazione postbellico. Illusione destinata quasi immediatamente a rimanere tale. Si formarono
invece ben presto due opposti schieramenti partitici attorno ai quali si riunirà l'intero elettorato italiano: la
Democrazia cristiana, legata al mondo padronale e agli USA, e il partito comunista e socialista, legato alla
classe operaia e all'Unione Sovietica (destinata a crollare il 26 dicembre del 1991). Il forte conflitto di
interessi tra i due mondi fu inizialmente stemperato dalla prolungata cooperazione dei partiti antifascisti, ma
già nella primavera elettorale del 1948 fu chiaro l'esito delle segrete lotte iniziate già nel 1943.
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Storia contemporanea 2. Il fronte capitalista postbellico
La classe imprenditoriale postbellica uscì intimorita dallo spettro della Resistenza e della rivoluzione
sociale, spingendo con veemenza per una decisa e prolungata presenza statunitense sul territorio a fini di
deterrenza. Gli imprenditori italiani erano meno compromessi di quelli francesi e ben presto le accuse di
collaborazionismo furono giustificate dallo stato di necessità, complice anche l'antologico spirito di
proteismo dell'italiano. Incoraggiante era pure lo stato delle fonti energetiche e degli impianti industriali,
non così compromessi dal conflitto. Tre erano allora i settori dominanti dell'economia industriale italiana:
idroelettrica, alimentare e tessile, attorno ai quali si strinsero tutti i membri più conservatori; i più
progressisti occupavano i settori che presto sarebbero diventati punte di diamante del tessuto economico
italiano: metallurgia (Olivetti, Fiat, RIV – Roberto Incerti Villar Perosa), gomma (Pirelli), e acciaio
(Finsider). Il progressismo dei più piccoli industriali andava inteso come stato di necessità per affrontare una
situazione di cambiamento vitale per il loro futuro, non certo per presunte tendenze democratiche, e la cosa
fu chiarissima nel compattamento omogeneo che tutti gli imprenditori mostrarono attraverso Angelo Costa,
allora presidente di Confindustria, il quale pretendeva due risultati irrinunciabili al di là di ogni tipo di
sistemazione postbellica decisa:
- rientrare in possesso in maniera totalmente libera del controllo sul luogo di lavoro
- deciso e incondizionato laissez faire dello Stato nei confronti delle decisioni della classe capitalista, che
non doveva minimamente essere condizionata da ipotetiche pianificazioni
statali di marca socialista
- libertà di licenziamento incondizionato
- nessun progetto di partecipazione o di controllo operaio.
Gli imprenditori non guardavano di mal occhio solo la classe operaia ma anche lo Stato, visto come
istituzione ambigua e non sufficientemente schierata in difesa dei loro interessi. Se durante il ventennio
fascista lo Stato era stato garante del silenzio operaio, adesso assumeva contorni sfumati di nebbie socialiste;
del resto gli esempi di statalizzazione dell'industria di Attlee in Inghilterra e di Stalin in Russia non
invogliavano gli imprenditori ad intavolare un maggiore dialogo. Fu proprio lo spauracchio socialista che
orientò gli imprenditori verso la DC, che aveva scalzato il troppo elitario Partito Liberale nel ruolo di guida
e riferimento degli elettori imprenditori.
Ma non solo. La DC lavorava attraverso la Coldiretti e le ACLI, creando un sucesso una base di massa tra i
contadini proprietari e i lavoratori cattolici. Riaffermava la morale cattolica, prometteva di salvaguardare la
proprietà, la libera iniziativa, i consumatori e i produttori. Rivolgeva soprattutto un appello speciale ai valori
familiari, in una società dove quasi ovunque la famiglia era il nerbo dell'attività economica.
Alcide De Gasperi, fondatore e leader della DC, dovette certamente scontrarsi con visioni interne diverse,
dagli ultraconservatorismi della Chiesa Romana ai progressismi di Giuseppe Dossetti, ma fu alla fine il suo
centrismo a vincere, non ultimo grazie alla sua strenua attenzione nei confronti dell'imprenditoria, alla sua
solida alleanza con gli USA della dottrina Truman – che da lì a poco avrebbero varato il Piano Marshall –
che fece arrivare in Italia parecchie centinaia di migliaia di dollari laddove l'URSS del partito comunista non
poteva reggere certamente il paragone.
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Storia contemporanea 3. Il movimento operaio postbellico
Nel corso della guerra le condizioni di vita della classe operaia erano peggiorare drasticamente sia in città
sia in campagna. L'inflazione aveva rapidamente eroso i salari reali degli operai cittadini e i braccianti del
Meridione erano anche più svantaggiati dei colleghi settentrionali, rispetto ai quali percepivano poco più
della metà. La condizione dei disoccupati era anche peggiore: alla fine della guerra decine di migliaia di ex
internati nei campi di lavoro tedeschi o di ex prigionieri di guerra avevano iniziato a tornare a casa. Un aspro
conflitto di interessi sorse così tra questo insieme di disoccupati e le parecchie migliaia di donne che a loro
si erano sostituiti durante il conflitto e che non volevano rinunciare allo stipendio.
Le dure condizioni or ora descritte erano mitigate al Nord dalla sensazione di potere e dalla posizione di
forza che gli operai avevano conquistato durante la Resistenza. Là dove commissioni interne o CLN di
fabbrica svolgevano un ruolo fondamentale nella gestione delle aziende, vi furono modificazioni sostanziali:
- abbandono del cottimo perché considerato fonte di disunità tra i lavoratori
- modifica degli orari di lavoro
- esautoramento, e talvolta incriminazione, di molti dirigenti industriali, come Valletta alla Fiat o Rosini
all'Ansaldo Fossati. A volte tale atteggiamento sfociava in mere e vaghe accuse di stampo classista.
Non si può comunque parlare di coscienza rivoluzionaria diffusa a livello nazionale tra gli operai. La
Resistenza era stata un movimento di enorme importanza ma limitato geograficamente al centro – nord e
anche qui la massa aderente era comunque limitata rispetto alla totalità della popolazione, che non mancò a
volte di riservare al movimento atteggiamenti ostili, come nel caso degli impiegati di Roma, dei sottoccupati
e disoccupati di Napoli, dei contadini del Veneto e di molte parti del Sud. In questo periodo è impossibile
trovare qualsiasi spontaneo tentativo di creare organi alternativi di potere politico come i soviet o i consigli
operai. In altre parole, se socialismo si voleva, certamente non sarebbe nato dall'interno, ma dall'esterno, in
particolare dalla Russia. L'esperienza della Seconda Guerra Mondiale aveva ormai abituato il proletariato
settentrionale a considerare il futuro dell'Italia come risultato dei conflitti che avevano luogo su scala
mondiale, e da ciò derivo l'assunto secondo il quale se la liberazione nazionale era arrivata con gli Alleati, la
liberazione di classe sarebbe giunta con Stalin.
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Storia contemporanea 4. L'alleanza comunista del dopoguerra
Ciò non vuol dire che gli operai non avessero maturato delle istanze e delle richieste compiute. Il desiderio
di ricostruzione dopo le tremende distruzioni degli anni della guerra era forte, come la diffusa attesa di
profonde riforme sociali ed economiche. Eppure queste aspirazioni non trovarono uno sbocco politico
adeguato nel Partito Comunista, anche se sulla carta esso sembrava rispondere perfettamente ai bisogni del
movimento operaio. È innegabile però il fatto che i comunisti continuassero a sostenere che la rivoluzione
era impossibile (truppe alleate rimasero fino al 1947 in Italia), per quanto sostenessero una realizzabilità
concreta delle riforme, magari grazie ad una forte e continua alleanza a larghe maglie tra PCI, DC e PSIUP,
i tre grandi partiti di massa. Non si può del resto accusare i comunisti di non avere tentato la rivoluzione,
impraticabile, oggettivamente, per la continua presenza alleata prima e per la dottrina Truman dopo, e
soggettivamente, per la mancanza di una diffusa coscienza rivoluzionaria.
È anche vero che le colpe ci furono: sprecarono tutte le occasioni di ottenere per il movimento operaio
significativi progressi pur all'interno di un quadro capitalistico. Nel periodo 1943 – 1945 il PCI rinviò ogni
riforma in nome dell'unità nazionale, e negli anni successivi, fino alla disfatta del 1948, la sua miopia lo
portò a vedere come unici strumenti per la realizzazione delle riforme il terreno politico e l'alleanza con la
DC. Togliatti vide in De Gasperi un progressista e si illuse di poter giungere con lui a grandi riforme
condivise; non solo era un giudizio sbagliato sulla persona, ma anche un tragico errore di valutazione della
natura della DC.
Tra il 1945 e il 1947 il PCI, per mantenere l'alleanza, fece larghe concessioni alla DC, che non mancò di
coglierle al volo, diventando sempre più il partito di tutti coloro – ed erano tanti – che vedevano nella
democrazia progressiva una brutta minaccia. Questo desiderio di intesa tra i partiti tanto sbandierata da
Togliatti era un fossile della Terza Internazionale che finì per azzoppare il partito a colpi di moderazione ed
elettoralismo, vedendo il PCI nell'aumento del consenso elettorale l'unico strumento per spostare l'equilibrio
del potere nel parlamento. Era invece
l'attivismo della classe operaia lo strumento più forte e il partito lo affossò miseramente.
Non solo. Il PCI registrò minori successi della DC anche nell'attrarre i settori intermedi della società,
compito per loro parecchio più arduo: come si fa a parlare di alleanza con la classe operaia contro il
capitalismo monopolistico ad una classe la cui cultura era di formazione fascista e capitalista? Se in alcune
aree dell'Italia centrale le fatiche furono ripagate con i voti dei mezzadri e degli artigiani, in altre, la lentezza
nel costruire una organizzazione di contadini proprietari antagonista alla Coldiretti fallì, lasciando le mani
libere alla DC.
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Storia contemporanea 5. Nenni e la fiducia nella rivoluzione socialista
Ma il dilemma intrinseco che avrebbe perseguitato il partito per decenni era un altro: annacquare il
contenuto socialista del loro programma attirando così il consenso elettorale dei negozianti e dei piccoli
imprenditori, o varare una linea intransigente? Anche l'argomento famiglia era un discorso complesso. Il
PCI difficilmente poteva presentarsi come campione della famiglia rispetto alla DC, nemmeno portando
come esempio quello della famiglia proletaria.
I socialisti di Pietro Nenni erano terribilmente subordinati rispetto al PCI e l'assurdità diventa ancora più
grave se si pensa che nelle prime elezioni del dopoguerra essi avevano preso più voti del PCI. Le
motivazioni comunque c'erano. In una fase in cui il mondo appariva sempre più diviso in due, toccava al
PCI rappresentare il mondo socialista e fin quando il PSIUP rimaneva filosovietico aveva poche chance di
scartare dal binario tracciato dal PCI. Nenni non era poi, certamente, un grande dirigente politico, mancando
dell'abilità strategica di Togliatti e incapace di tenere assieme un partito che diventasse una grande “chiesa”
di opinioni socialiste; l'infelice uscita sul finto socialismo borghese delle classi medie lo condannò. Nel
PSIUP del resto non mancavano le correnti e il movimento non fu mai unitario: Giuseppe Saragat portava
avanti le idee di Filippo Turati e sosteneva che il partito socialista aveva assunto un irrigidimento operaistico
che limitava la sua capacità di attrazione; accusava Nenni di vederci per l'unità ma di essere cieco per
l'autonomia: il socialismo occidentale doveva essere libero rispetto al modello sovietico, autoritario e
antidemocratico. Saragat portava avanti l'ala antistalinista, socialdemocratica ed esplicitamente riformista
del PSIUP. Ma proprio le continue discussioni lasceranno del partito socialista solo sciabli e sbiaditi ricordi.
Il sindacato era il solo altro strumento importante. La CGIL poteva vantare un dirigente di eccezionale
talento e umanità, Giuseppe Di Vittorio, fiero antagonista della Confindustria di Angelo Costa. Eppure,
nemmeno l'ascendente di questo grande dirigente sindacale poteva mascherare la situazione per la quale la
CGIL, al di là degli sforzi togliattiani, non divenne mai un sindacato unito e omogeneo in difesa della classe
operaia, essendo i suoi dirigenti appartenenti a ciascuno dei tre partiti di massa, con una netta preponderanza
democristiana nel tono degli accordi man mano presi.
In campo internazionale l'URSS era per il partito comunista ciò che gli USA erano per la DC e questo
devoto stalinismo fu deleterio almeno per due motivi:
- la fiducia nella rivoluzione socialista come un qualcosa che arrivava dall'esterno privò la classe operaia
italiana di qualsiasi possibilità di elaborare una strategia trasformativa basata sulle proprie forze.
- l'accettazione cieca e adulatoria della dittatura stalinista, vista come modello virtuoso anche per l'Italia,
divenne una pesante arma di distruzione appena cominciarono a diffondersi le voci sull'inferno di tale
dittatura in Russia.
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Storia contemporanea 6. Il governo Parri - 1945 -
Il governo di Ferruccio Parri non durò nemmeno sei mesi, da giugno 1945 a novembre dello stesso anno.
Uno dei principali motivi della caduta fu Parri stesso, uomo coraggioso, onesto e largamente rispettato ma
senza la stoffa del Presidente del Consiglio. Non stabilendo mai un preciso programma di interventi, ma
lasciandosi sopraffare dai problemi quotidiani contingenti, si mostrò spesso tentennante e incerto: quando
Togliatti lo sollecitò ad iniziare la riforma agraria, Parri rifiutò col dubbio pretesto che gli Alleati sarebbero
intervenuti con la forza a fermare le operazioni. In fondo dietro il suo fallimento stava il fallimento della
sinistra in generale: il Partito d'Azione, a cui apparteneva, boccheggiava, stretta nel braccio di ferro tra il
socialismo di Emilio Lussu e la liberaldemocrazia di Ugo La Malfa, mentre di PCI e PSIUP abbiamo già
detto.
Nel governo Parri il trio dei partiti di sinistra era preponderante, ma non sfruttarono mai la fortuna che
avevano in mano: i socialisti vedevano male Parri, volendo Nenni come presidente, mentre i comunisti erano
così convinti della loro vittoria alle successive elezioni che lasciarono mano libera alla DC per evitare rinvii
elettorali. La DC colse la palla al balzo, nella persona di De Gasperi, che essendo ministro degli Esteri nel
governo Parri, era in frequente e costante contatto con gli USA, che consigliarono di far precedere le
elezioni amministrative e solo dopo quelle nazionali. Un ritardo enorme quello delle nazionali, nella
primavera del 1946, molto più tardi di qualsiasi altro paese. Perchè? Perché più passava il tempo e più i
bollori della rivoluzione antifascista andavano scemando, lasciando più possibilità ai democristiani di essere
eletti. In questo periodo furono i CLN a soccombere, colpiti dalle destre e abbandonati da comunisti e
azionisti.
Nel novembre del 1945 le destre decisero che i tempi erano maturi per salire e silurare Parri: i liberali tolsero
l'appoggio al governo e la DC di De Gasperi li appoggiò a ruota. Nessuna lacrima da PCI e PSIUP, che
paradossalmente vedevano bene proprio De Gasperi al governo, così bravo da sollecitare rispetto e fiducia
pure dalle sinistre.
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Storia contemporanea 7. Il governo De Gasperi - 1945 -
Il 10 dicembre 1945 nasce l'ultimo governo del Regno d'Italia con De Gasperi presidente, Nenni vice,
Romita agli Interni (PSIUP) e Togliatti alla Giustizia. Le sinistre si accorsero ben presto dell'infelice scelta:
De Gasperi, contrariamente ad accordi pregressi, pretese che la discussione sul passaggio da monarchia a
repubblica fosse decisa da un referendum e non dall'Assemblea Costituente, e volle che la nuova Assemblea
non avesse poteri legislativi ma limitasse le sue funzioni soprattutto alla stesura della nuova costituzione.
Perché? Il referendum serviva ad intorbidare le acque, nascondendo le divisioni interne al partito,
monarchico nell'elettorato e repubblicano nella dirigenza. Il limitato potere dell'Assemblea era voluto per
paura della nascita di una convenzione sul modello rivoluzionario francese, con Nenni o Togliatti come
presidenti; meglio le decisioni prese in Consiglio dei Ministri, dove egli regnava come un grande stratega.
Amministrativamente e statalmente la sinistra non fece nulla per mutare gli apparati di epoca fascista,
lasciando mano libera a Bonomi. Nessuno degli apparati dello Stato fu messo in discussione:
- nessun tentativo di rinnovamento dell'amministrazione centrale a Roma, dilatatasi enormemente sotto
Mussolini
- nessuno degli enti speciali semi – indipendenti creati dal fascismo per intervenire nel campo dell'assistenza
sociale o dell'economia fu sottoposto a critiche serie
- nessuna modifica nel sistema di reclutamento e carriera dei giudici, nonostante alla Giustizia vi fosse
Togliatti
- il personale statale di trascorso fascista fu epurato nei bassi livelli (tesserati obtorto collo) e fu salvato il
grosso blocco della marmaglia peggiore, quella di alto livello, salvata spesso con assoluzioni dalle formule
oltraggiose, basate spesso sulla indecente distinzione tra torture normali e sevizie particolarmente efferate.
Sulla base di ciò le scariche elettriche ai testicoli erano normali intimidazioni se condotte con un voltaggio
da telefono da campo anziché con quello della corrente ordinaria
- presto De Gasperi sostituì tutti i prefetti nominati dal CLNAI con funzionari di sua scelta, e Mario Scelba,
ministro dell'Interno dal 1947, epurò rapidamente la polizia dal consistente numero di partigiani che vi erano
entrati nel luglio del 1945.
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Storia contemporanea 8. La stabilità economica dell'Italia - 1945 -
Si assiste ad una stabilità relativa dei prezzi e ad un livello assai basso della produzione, essendo nel 1945
meno di un terzo di quella del 1938. L'Italia aveva sempre sentito la mancanza di quelle materie prime che
erano alla base dello sviluppo industriale. Essa dipendeva in modo oneroso dall'importazione di materie
prime e cercava di coprirne i costi con una intensificazione delle esportazioni. Nel 1945 vi fu un accordo
unanime sulla necessità di abbandonare l'artificioso sistema autarchico fascista a favore di una
liberalizzazione degli scambi commerciali e di una ripresa di quelle importazioni necessarie a rimettere in
sesto l'economia italiana.
Comunisti e socialisti non furono mai in grado di offrire una valida alternativa al liberismo democristiano,
ciò perché la preparazione economica di gran parte dei dirigenti era nulla o ferma ai dogmi degli economisti
sovietici dell'epoca, centrati sullo strangolamento del capitale produttivo ad opera del capitale finanziario.
Questa povertà di idee si trasformò in una sostanziale subordinazione al liberismo voluto dagli imprenditori.
Del resto se era il comunista Mauro Scoccimarro il ministro delle Finanze, il Tesoro rimaneva saldamente in
mani democristiane o liberali. I ministri dell'economia non elaborarono mai una qualche forma di intervento
pianificato e l'edilizia fu l'esempio più lampante di tale neghittosità: a fronte di 1.200.000 vani distrutti in
città con oltre 50.000 abitanti, nel 1946 ne furono ricostruiti 15.063!
La ricostruzione non fu mai statalizzata ma ad opera e voglie dell'imprenditoria privata, che ricavò per pochi
enormi profitti, e che rimase sempre vicina al personale dirigente della burocrazia di Stato – non ultima la
Banca d'Italia di Einaudi – pur paventando pubblicamente la sua diffidenza per il settore pubblico.
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Storia contemporanea 9. Il problema monetario dell'Italia nel doppguerra
Il modo in cui questa élite operò e l'inadeguatezza con cui i suoi avversari la fronteggiarono, è ben visibile
nel modo in cui si affrontarono i due principali problemi monetari dell'epoca:
- il controllo sui cambi nei primi anni del dopoguerra l'industria tessile italiana si avvantaggiò di una
notevole crescita delle esportazioni, così che le aziende guida del settore pretesero piena libertà di usare e
scambiare la valuta straniera che acquistavano senza essere sottoposte al controllo del governo. La cosa
andò in porto nonostante nel marzo del 1946 al Commercio vi fosse un azionista, all'Industria un socialista e
alle Finanze un comunista. L'incoraggiamento della speculazione fu naturalmente enorme.
- il cambio della lira fu affrontato brillantemente dal ministro comunista Mauro Scoccimarro che aveva un
progetto assai più innovativo del semplice cambiamento del valore nominale della lira. Voleva sostituire la
vecchia lira con una nuova lira che valesse come cento lire vecchie, eliminando quegli zeri in eccesso che
ostacolavano l'economia italiana e alleggerendo il processo inflattivo. Il Tesoro (democristiano) pretese una
trattenuta del 10% sul denaro presentato per il cambio ma la misura usuraia fu bloccata dal ministro, che
propose invece una tassazione progressiva. Tutto finì nel nulla, essendo Scoccimarro ostacolato ad ogni
passo, tra opposizioni liberali, scomparse di matrici e meline della Banca d'Italia. Ostacoli in fondo
superabili con una presa di posizione decisa delle sinistre, che invece preferì lasciar perdere, lasciando di lì a
poco il ministero al liberale Epicarmo Corbino, che affossò tutto.
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Storia contemporanea 10. Le battaglie sul lavoro nel dopoguerra
Anche le principali battaglie sociali dell'epoca furono all'insegna degli smacchi della classe operaia rispetto
alla classe padronale.
- La disciplina sul licenziamento durante il governo Parri la Confindustria fece pressione perché fosse
revocato il divieto di licenziamento e la CGIL nel 1946 acconsentì parzialmente alle richieste, lasciando che
il 13% dei lavoratori fosse licenziato.
- Gli accordi salariali a livello nazionale escludevano la possibilità di agitazioni locali o di fabbrica e vi era
incluso l'obbligo per le commissioni interne di accettare gli accordi nazionali e di non cercare miglioramenti
di propria iniziativa. L'accordo di unico salario a livello nazionale fu accettato da Di Vittorio per paura che
si accentuassero le differenze tra poveri e poverissimi in un momento in cui la popolazione operaia doveva
essere unita.
- L'intesa sui consigli di gestione creati dal CLNAI al tempo dell'insurrezione nazionale, erano organi di
pianificazione e cooperazione tra direzione e maestranze; anche se la presidenza spettava alla direzione, era
previsto un equilibrio tra i membri delle due parti. I consigli dovevano essere responsabili per lo sviluppo
generale dell'azienda e per decisioni di lungo periodo su investimenti, produttività eccetera. Non mancarono
gli imprenditori soddisfatti, come Adelio Pace, patron della Montecatini, ma l'opposizione della
Confindustria fu enorme. Il ministro dell'Industria Rodolfo Morandi, socialista, tentò una timida opposizione
ma dopo la citazione di De Gasperi sull'accordo Fiat, prima azienda a imporre un accordo secondo il quale i
consigli avrebbero avuto solo ruolo consultivo, il precedente divenne regola e i consigli di lì a poco
scomparirono.
L'unica vittoria delle sinistre fu quella dell'introduzione della scala mobile ma solo perché non trovarono
opposizione dagli imprenditori, che tardi si accorsero dell'importanza dello strumento, più volte poi tentato
di manomettere fino al referendum del 1985.
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Storia contemporanea 11. Le elezioni del 1946
Il 2 giugno 1946 gli italiani, e per la prima volta le donne, votavano liberamente dopo vent'anni, per
scegliere tra monarchia e repubblica e per eleggere i loro rappresentanti all'Assemblea Costituente. Con il
54,2 % dei voti vinse la repubblica e il referendum mise in luce la profonda spaccatura tra il repubblicano
centro – nord e il monarchico sud, eccezion fatta per la poverissima Basilicata, rovinata durante la guerra da
enormi occupazioni di terre.
All'inizio Umberto chiese tempo, attaccandosi a pretesti quale il fatto che il risultato era valido solo sulla
base dei voti ritenuti validi ma non sulla base di tutto l'elettorato; si iniziò a vociferare di un appoggio
dell'esercito al re ma De Gasperi e gli altri ministri rimasero al loro posto, così che alla fine Umberto fu
esiliato ed Enrico De Nicola, giurista liberale napoletano e ultimo presidente della camera prima di
Mussolini, divenne capo provvisorio dello Stato.
L'elezione dell'Assemblea Costituente regalò alla Democrazia Cristiana il primato di voti (soprattutto nel
sud rurale), seguita da PSIUP e poi PCI. Nei diciotto mesi successivi essa si dedicò alla stesura della
Costituzione della Repubblica. Vennero definite una forma di Stato e di governo conformi ai tradizionali
canoni della democrazia rappresentativa; il regime parlamentare venne organizzato secondo il principio
bicamerale e le elezioni erano su base proporzionale pura, così che nessun partito fosse escluso. Il Vaticano
spinse per un sistema statale presidenziale, all'americana, ma i rifiuti furono unanimi.
Alcuni articoli della Costituzione furono storici, come il 4, il 5, il 42 e il 46 ma la loro importanza fu
vanificata quasi interamente nel febbraio del 1948 quando la Cassazione stabilì una distinzione tra norme
dette precettizie e norme dette programmatiche. Molti articoli innovatori rimasero lettera morta, alcuni
codici e alcune leggi fasciste non furono mai abrogate e alcuni organi stabiliti dalla Costituzione
comparirono in enorme ritardo: Corte Costituzionale (1956), CSM (1958), così anche l'autonomia regionale
e il diritto di ricorrere ai referendum, solo nel 1970 realizzati.
Il lavoro dell'Assemblea Costituente fu contraddistinto da due battaglie per le libertà civili:
- Articolo 7: i rapporti tra Chiesa e Stato il Vaticano spingeva per il mantenimento dei Patti Lateranensi del
1929 e la ferma opposizione del PCI crollò vergognosamente il 24 marzo del 1947, quando votarono
anch'essi a favore dell'articolo 7, Teresa Noce esclusa.
- Articolo 29: la lotta contro l'indissolubilità del matrimonio lo sconosciuto deputato Umberto Grilli,
socialdemocratico, presentò emendamento perché si togliesse qualsiasi accenno all'indissolubilità del
matrimonio. Nonostante la pavidità del PCI l'emendamento incredibilmente passò, per 194 voti contro 191;
una vittoria che servirà molto durante il conflitto sul divorzio del 1974.
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Storia contemporanea 12. Il secondo governo di De Gasperi - 1946 -
Il 12 luglio del 1946 De Gasperi formò il suo secondo governo. Come capo del partito di maggioranza
relativa la sua posizione di Presidente del Consiglio non fu messa in discussione ed egli ne approfittò per
rafforzare la presenza democristiana all'interno del governo, eliminando azionisti e liberali e riducendo la
presenza di ministri comunisti o socialisti, come Fausto Gullo, sostituito dal democristiano Antonio Segni.
Non fu però tutto rose e fiori e proprio allora, quando sembrava che il potere democristiano fosse
irraggiungibile da altri partiti, la DC entrò in un'enorme spirale di crisi, di cui fu soprattutto causa la forte
inflazione del periodo, aggravata dalla politica monetaria del governo di cui si è già discusso. Una grossa
parte dell'elettorato accusò la DC e le amministrative del novembre 1946 punirono il partito con una
bastonata epocale. De Gasperi fu pressato più volte e da più lati affinché rompesse i rapporti con la sinistra
ma tenne sempre duro, convinto dei propri tempi e delle proprie idee sul come e quando farlo. In questo
contesto va inserita la visita di De Gasperi negli USA del gennaio 1947, al ritorno del quale portò in dote
all'Italia un prestito da cento milioni di dollari: entrambi i governi miravano ad un arginamento delle forze di
sinistra.
Tali forze, comunque, per tutto il secondo governo De Gasperi, rimasero in uno stato di fondamentale
immobilismo, preoccupati soprattutto di mantenere la loro partecipazione al governo e di tenere salda
l'alleanza con la DC, che già maturava di sganciarsi. I comunisti avevano poi una grossa croce da portare,
quella relativa alla questione di Trieste. Un cieco appoggio alle rivendicazioni di Tito significava esporsi
alle critiche dei conservatori, ma una critica alle comuniste truppe di Tito, alleate all'epoca di Stalin era
impensabile.
Il partito socialista di unità proletaria (PSIUP) nel frattempo non se la passava meglio, con la scissione di
Saragat, la cosidetta secessione di palazzo Barberini, che nel 1947 fondò il PSLI, presto destinato a
diventare PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano). Una secessione incoraggiata sia dalla DC che
voleva confrontarsi con un alleato più moderato, sia dal PCI, che voleva un PSIUP libero da elementi
anticomunisti. La scissione fu una disgrazia per il socialismo italiano: il PSIUP divenne un subordinato del
PCI e il PSDI uno sterile partito alle dipendenze della DC.
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Storia contemporanea 13. I decreti Gullo - 1946
I conflitti aumentarono nell'estate del 1946, con la picchiata in salita dei prezzi e del livello di
disoccupazione, direttamente proporzionale al malcontento per l'azione delle sinistre dentro il governo. La
situazione di maggiore tensione era nelle campagne: le agitazioni contadine per assicurare l'attuazione dei
decreti Gullo raggiunsero il culmine nell'autunno del 1946, ma malgrado l'intensità e l'impegno, il
movimento si concluse complessivamente con una sconfitta. Alcuni punti del programma Gullo, come
quello sull'abolizione dei mediatori, non fu nemmeno preso in considerazione, ma anche i più moderati
decreti sull'occupazione delle terre incolte e sulla revisione dei patti agrari ottennero successo solo
localmente e temporaneamente. La causa politica di tale sconfitta risiede principalmente nell'ostilità di
liberali e democristiani, che imposero una serie di modificazioni essenziali. La più importante fu certamente
la loro insistenza affinché òe commissioni locali, che dovevano decidere sulla legittimità delle occupazioni
delle terre, fossero composte dal presidente della Corte d'Appello, da un rappresentante dei proprietari e da
uno dei contadini. I democristiani, inoltre, preoccupati che la popolarità di Gullo potesse corrodere la vasta
riserva di voti rurali meridionali su cui facevano grande affidamento, lavorarono sodo per rimpiazzare Gullo
con Antonio Segni. Va anche detto che gli oppositori della riforma agraria meridionale non avrebbero avuto
vita facile senza la complicità del partito comunista, disposto a venire incontro a Gullo solo fino a quando
ciò non avrebbe compromesso l'alleanza con la DC. Una pavidità che diventa plateale quando si analizza
l'ultimo dei principali decreti del pacchetto Gullo: premi di produzione ai contadini e riduzione degli affitti
in cambio della consegna dei prodotti ai granai del popolo. Un decreto dichiarato illegale prima dalla
magistratura di Sassari, poi a ruota da altri e infine confermato in Cassazione nel maggio del 1946,
nonostante il ministero della Giustizia fosse in mano a Togliatti, che nulla fece per epurare
l'amministrazione giudiziaria dagli elementi fascisti che la popolavano.
Occorre infine notare che gli stessi contadini ebbero difficoltà a mantenere una loro unità. Le terre che le
cooperative riuscivano ad acquistare non erano solo limitate per estensione ma anche qualitativamente
povere: troppi membri per troppo poca terra. In queste condizioni si affacciarono subito divisioni, e i
contadini più poveri dovettero spesso disfarsi dei loro piccoli appezzamenti e venderli a quelli più ricchi. Si
aggiunga che i piccoli proprietari, la base della Coldiretti, si sentiva minacciata da queste riforme che
indebolivano il loro ruolo.
Se i decreti Gullo fossero stati accompagnati da un esteso programma di aiuti statali ai contadini medi e
poveri, forse i piccoli proprietari avrebbero potuto essere sottratti alla loro tradizionale alleanza con le élites
proprietarie. Gullo si premunì, infatti, inserendo nella legislazione delle garanzie per ampie facilitazioni di
credito alle cooperative, che però mai furono liquidate.
Intanto in Italia centrale, Umbria, Toscana e parte dell'Emilia e delle Marche, i mezzadri ingaggiarono una
battaglia senza precedenti per modificare i rapporti tra proprietari e contadini. Le principali richieste erano:
almeno il 60% del prodotto, il diritto di partecipare alla gestione dell'impresa, la giusta causa per la disdetta,
la fine dei servizi gratuiti e delle regalie, pagamento dei danni subiti dalle case coloniche e dal bestiame
durante la guerra e saldo dei conti a scadenza annuale. Un programma ambizioso ma realistico, che diede
vita ai consigli di fattoria. Fu un periodo di aspri scontri, minacce, e persino di intimidazioni a colpi di
pistola. La dove il governo Parri fallì nella mediazione, riuscì De Gasperi con quello che divenne famoso
come il lodo De Gasperi: esso stabiliva una contribuzione del 24% da parte dei proprietari per riparazioni
post belliche, da aumentare al 34% il successivo anno, convenendo comunque sull'impossibilità di dividere
il prodotto a metà e stabilendo lo scioglimento dei consigli di fattoria. Una soluzione di vantaggio a breve
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Storia contemporanea termine per i mezzadri e di lungo termine per i proprietari, che vinsero poi nel 1947 con Antonio Segni, il
quale stabilì il 53% di produzione ai mezzadri e un 4% annuo di accantonamenti padronali per migliorie;
sostanzialmente un fiasco per i contadini.
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Storia contemporanea 14. La cacciata delle sinistre di De Gasperi
De Gasperi era incoraggiato dal clima di generale malcontento a cacciare fuori le sinistre dal governo ma
temeva l'ingovernabilità del paese senza il loro contributo. Ritornato dall'America, il 31 gennaio 1947 De
Gasperi fa un rimpasto e dà il via al suo terzo governo, con 16 ministeri anziché 21, sei dei quali andavano
alle sinistre. Scoccimarro perse le Finanze e Nenni perse gli Esteri. Nell'ottobre del 1947 gli italiani
avrebbero dovuto votare il primo parlamento della Repubblica ma il generale malcontento
antidemocristiano, infuocato dai milioni di risarcimenti dovuti a Russia, Grecia, Iugoslavia, Albania ed
Etiopia, dalla perdita di tutte le colonie in seguito al recente Trattato di Pace e dall'inflazione galoppante,
convinsero De Gasperi del fatto che non si poteva aspettare tanto. Le regionali siciliane dell'aprile 1947, con
mostruosi picchi di caduta delle preferenze DC, ne furono la conferma.
Due avvenimenti internazionali incoraggiarono De Gasperi alla rottura con le sinistre: la cacciata dei
comunisti dal governo francese e la maturazione della dottrina Truman. La strage di Portella della Ginestra
del 1 maggio 1947 sembrò affondare prematuramente i piani di De Gasperi, che in seguito all'accorata
orazione del deputato e primo segretario del PCI in Sicilia, Girolamo Li Causi, si dimise. Al suo posto
l'antifascista Francesco Saverio Nitti che non riuscì però a formare un governo stabile, lasciando il posto di
nuovo a De Gasperi che dichiarando di voler formare un governo di centro con l'apporto dei soli partiti di
destra, cacciò la sinistra dal governo e pose fine al govero di coalizione antifascista.
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Storia contemporanea 15. La politica economica di Luigi Einaudi - 1947 -
Il nuovo governo aveva due ministri chiave: Mario Scelba agli Interni e Luigi Einaudi al Tesoro. Scelba era
un conservatore inflessibile, e sotto la sua direzione polizia e carabinieri non solo vennero epurati da tutti gli
ex partigiani, ma furono incoraggiati a intervenire con forza e brutalità contro tutte le manifestazioni operai
e contadine che oltrepassavano i limiti di tolleranza, la cui soglia, naturalmente, era risicatissima. La
malfamata Celere di Scelba avrà un posto tutto suo nella storia.
Einaudi nel giro di pochi mesi fece quello che Scoccimarro non era riuscito a fare perché gli era sempre
stato impedito: abbassare il livello dell'inflazione. Quella di Einaudi fu una classica politica deflazionista:
nel 1947 ridusse drasticamente la quantità di moneta in circolazione congelando il 25% di tutti i depositi
bancari e introducendo altre restrizioni di credito, raggiungendo lo scopo. L'innegabile vittoria della politica
antinflazionistica portò però con sé alcune conseguenze negative, tra cui il duro colpo assestato alla
PMIndustria, danneggiata dalla restrizione del credito, e a catena, al proletariato industriale, vittima di
numerosi licenziamenti. Ne guadagnò invece la classe media urbana, a stipendio fisso, che vedeva
finalmente un tentativo di salvaguardare il loro livello di vita.
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Storia contemporanea 16. La nascita del Cominform - 1947 -
I comunisti pure tentarono di cambiare rotta ma con risultati scarsi, anche perché in quel momento il PCI
non era del tutto libero. Era infatti nato da poco il Cominform. La sigla Cominform (derivata da
"Communist Information Bureau") indicava l'Ufficio di Informazione dei Partiti Comunisti e Laburisti,
costituito a Szklarska Poreba nel settembre del 1947 allo scopo di scambiare informazioni tra i partiti
comunisti dei vari paesi europei, fra cui il Partito Comunista Italiano. Nacque in seguito ad una conferenza
dei principali esponenti dei partiti comunisti dell'est europeo, tenutasi a Szklarska Poreba (Polonia) e
convocata da Stalin tra il 22 e il 27 settembre 1947 per risolvere uno stallo nel quale si erano posti i governi
dell'Europa orientale, in contrasto fra loro sui metodi per sviluppare le "democrazie popolari" di recente
createsi, e sulle vie per lo sviluppo socialista. Fu filiazione del bisogno di Stalin nel dare un'organizzazione
alla propria sfera d'influenza politica, atta a controbattere il "Piano Marshall" e la "Dottrina Truman" Il
primo radicale effetto derivante dalla prima conferenza del 1947 fu quello di promuovere nei mesi ed anni
successivi, l'assorbimento di tutti i vecchi partiti socialdemocratici dell'Europa dell'est coi partiti comunisti,
al governo nei diversi "Fronti Nazionali" sotto l'influenza sovietica (Ungheria, Bulgaria,
Romania, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia), di modo da consolidarne il potere ed entrare de facto sotto
l'ala d'influenza dell'URSS.
Critiche durante il primo congresso furono mosse a Polonia e Cecoslovacchia, ove i comunisti si trovavano
al potere in coalizioni molto ampie e di matrice più prettamente parlamentare. Più aspri invece furono i
rimproveri nei confronti dei partiti Italiano e Francese (gli unici due partiti invitati che in europa non erano
al potere), in quanto non avevano saputo approfittare della forza derivante dalla resistenza per ottenere un
potere più ampio, e di essersi lasciati intrappolare nel sistema parlamentaristico fornendo aiuto alle forze poi
sostenute dal Piano Marshall. Da questi eventi e timorosi delle conseguenze nelle prossime elezioni, PCI e
PSI decisero di fondersi in un unico partito: il Fronte Democratico Popolare.
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Storia contemporanea 17. Le elezioni del 1948
Mai elezioni furono più dure e mai l'ingerenza americana fu più grande. Schieratasi platealmente con la DC,
gli USA di Truman concesse nei primi tre mesi del 1948 aiuti all'Italia per 176 milioni di dollari.
L'ambasciatore a Roma James Dunn si assicurò che tutti i movimenti non passassero inosservati agli italiani:
navi cariche di beni, parate, treni dell'amicizia (idea del giornalista Drew Pearson). L'ultimo richiamo fu
assolutamente esplicito: far vincere i comunisti significava perdere gli aiuti degli USA. La comunità italo –
americana, inoltre, si diede da fare per pubblicizzare la DC, attori e attrici di Hollywood registrarono
messaggi d'appoggio e oltre un milione di lettere di chiaro stampo anticomunista partirono dagli USA per
l'Italia con qualche dollaro dentro. Gli USA promisero pure la riconsegna della Zona A, con Trieste,
all'Italia, risolvendo uno dei punti più irritanti del Trattato di Pace.
Ma non c'era solo melliflua generosità da parte degli USA. Essi si erano preparati anche in caso di vittoria
comunista, con un largo finanziamento di sommosse e con l'occupazione militare diretta di Sicilia e
Sardegna, rafforzando la loro flotta nel Mediterraneo nelle settimane precedenti alle elezioni.
I sovietici avevano ben poco da offrire in cambio e il colpo di stato di Praga non fece altro che affossare le
sorti del Fronte Democratico in Italia, che non trovò di meglio da fare se non giustificare vergognosamente
le violenze degli stalinisti, rivelando agli italiani cosa sarebbe successo se una forza comunista avesse vinto
nel paese.
La DC fu largamente aiutata dalla propaganda Vaticana, tra comizi, moniti e prediche che erano spudorati
appelli a favore del partito di De Gasperi. La stessa propaganda DC non fu solo alimentazione di fantasie
cartellonistiche, tra bambini strappati alle fauci di lupi comunisti o serpenti perversi che rompono l'armonia
familiare; molti furono anche gli slogan concreti, tra cui quello che recitava: coi discorsi di Togliatti non si
condisce la pastasciutta. Perciò le persone intelligenti votano per De Gasperi che ha ottenuto gratis
dall'America la farina per gli spaghetti e anche il condimento.
La DC fu anche intelligente nel non voler apparire unicamente come il partito dei padroni, e questa globalità
gli fu possibile grazie alla presenza della corrente progressista di Giuseppe Dossetti. Confindustria, infine,
approvò un rilevante aumento salariale agli impiegati, rabbonendo un settore dell'elettorato che era stato
incapace di difendere i propri livelli di vita nei tre anni precedenti.
La differenza macroscopica tra DC e FP è che il secondo godeva solo dell'appoggio della popolazione
politicamente attiva; i suoi discorsi erano fumosi, i programmi vaghi. La DC trionfò con la maggioranza
assoluta, il 48,5 % e 305 seggi su 574. Il Fronte Popolare vinse 181 seggi divisi macroscopicamentre tra i
140 dei comunisti e i 41 dei socialisti; da allora l'egemonia comunista sulla sinistra non fu più in
discussione.
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Storia contemporanea 18. Agitazioni contadine e risposta governativa - 1949 /1950 -
Nella storia d'Italia dal 1943 ad oggi, sono pochi i provvedimenti legislativi a cui è possibile attribuire senza
riserve la qualifica di vere e proprie riforme: uno di essi fu costituito dalla serie di tre decreti riguardanti
l'agricoltura approvati tra il maggio e il dicembre del 1950. Il tentativo di Gullo di riformare l'agricoltura
meridionale non era stato coronato da successo, e Antonio Segni, ricco proprietario terriero sardo e suo
successore dal luglio del 1946 fino al luglio 1951, si diede da fare per smantellare ciò che era stato fatto.
L'articolo 7 del primo decreto dava in particolare ai proprietari il diritto di reclamare la terra se i contadini
avessero violato le condizioni alle quali era stata concessa, una clausola di cui i proprietari abusarono
ampiamente contro le cooperative agricole. Segni così si garantì nuovamente la fiducia delle élites
meridionali, recuperando gran parte del terreno elettorale che era stato perso nel Meridione agricolo. I
problemi però rimanevano e l'85% di famiglie povere al Sud non erano una favola. Nel 1949 il movimento
contadino mosse di nuovo all'offensiva. Anche se mancava il sostegno legale dei decreti Gullo, gli occupanti
continuarono a rivendicare il loro diritto alla terra. Le colonne di contadini che in quell'anno marciarono sui
latifondi avevano spesso attaccata all'asta delle loro bandiere una copia della Costituzione repubblicana del
1948; in particolare l'articolo 42 era stato imparato a memoria.
Un grosso paradosso dominava il territorio meridionale: la maggior parte dei dirigenti del movimento
contadino e parecchi tra i suoi esponenti più attivi appartenevano al PCI ma tutte le sezioni del partito erano
completamente dominate dai contadini più poveri. Un aspetto, questo che causò non poca preoccupazione
all'interno della direzione nazionale, preoccupata di fornire ai contadini guide efficaci che evitassero
escalation rivoluzionarie, ora che il fallito attentato a Togliatti aveva distrutto ogni superstite illusione
insurrezionale nel PCI settentrionale; una rivoluzione contadina di marca comunista al sud avrebbe, tra
l'altro, offerto alla DC il destro per nuove offensive anticomuniste su scala nazionale. Non condividevano le
medesime preoccupazioni i militanti dei territori interessati, riluttanti, quando non impotenti, a controllare
efficacemente il movimento contadino già avviatosi. Su questo sfondo va inquadrata la strage di Melissa del
29 ottobre 1949, che puntò ancora una volta, dopo Portella della Ginestra, i riflettori sulle disumane
condizioni dei contadini del Sud e che amplificò, anziché frenare, l'ondata rivoluzionaria contadina, che si
estese a tutto il Meridione, oltre la Calabria, in particolare in Basilicata, Abruzzo e Sicilia, e addirittura al
Nord, nel malmenato e povero Polesine.
Nel corso di queste lotte l'equilibrio tra le diverse componenti della coscienza contadina si spostò
radicalmente. La sfiducia atavica, il fatalismo e l'individualismo tipici del Sud furono soppiantati da
una nuova solidarietà. Si creò una straordinaria ed esaltata fede pubblica, devota all'organizzazione e
all'azione collettiva. Eppure il quadro non fu sempre e dovunque così roseo. In realtà esso fu percorso da
tensioni e dissensi, anche perché le solidarietà cresciute in quel momento di azione collettiva non avrebbero
potuto protrarsi indefinitamente. Quando furono occupate le terre, furono respinti tutti i tentativi di coltivarle
collettivamente, così che si passò rapidamente alla lottizzazione a sorteggio. Nonostante ciò il movimento
contadino degli anni 1944 – 1947 e 1949 – 1950 costituirono l'ultimo tentativo di spezzare il modello di una
società frantumata dalla sfiducia e di collocare la famiglia entro un contesto collettivo. Il risultato più grande
ottenuto fu il decreto sull'imponibile di manodopera, una norma di legge ottenuta dai sindacati dei braccianti
italiani nel 1947 e che prevedeva l'obbligo da parte dei datori di lavoro agricoli di assumere e di impiegare
una certa quantità di mano d'opera per un certo numero di giornate. Fatta applicare per un decennio grazie a
durissime lotte, soprattutto nella valle padana, in Puglia e in Sicilia, sarà abrogato, nel 1958, dalla Corte
costituzionale.
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