Questi appunti schematizzano il libro di Colaianni "Eguaglianza e diversità culturali e religiose". I temi trattati ruotano attorno al rapporto tra la libertà religiosa e i limiti definiti dalla legge civile.
Tra gli argomenti trattati: la diatriba sulla presenza del crocifisso in classe, le libertà religiose garantite dalle religioni che recentemente si sono diffuse in Occidente (Islam, Buddismo, Testimoni di Geova, Scientology), la tutela delle confessioni religiose in Italia.
Si passa poi a vari aspetti collegati al rapporto tra doveri legati all'adesione ad un culto religioso e doveri civili derivanti dalla giurisprudenza statale.
In particolare l'educazione a scuola e l'insegnamento della religione, la libertà di abbigliamento, la poligamia e la gestione famigliare, le mutilazioni rituali e in generale i costumi religiosi contrari alla legge.
Eguaglianza e diversità culturali e religiose
di Stefano Civitelli
Questi appunti schematizzano il libro di Colaianni "Eguaglianza e diversità
culturali e religiose". I temi trattati ruotano attorno al rapporto tra la libertà
religiosa e i limiti definiti dalla legge civile.<br />
Tra gli argomenti trattati: la diatriba sulla presenza del crocifisso in classe, le
libertà religiose garantite dalle religioni che recentemente si sono diffuse in
Occidente (Islam, Buddismo, Testimoni di Geova, Scientology), la tutela delle
confessioni religiose in Italia.<br />
Si passa poi a vari aspetti collegati al rapporto tra doveri legati all'adesione ad
un culto religioso e doveri civili derivanti dalla giurisprudenza statale.
In particolare l'educazione a scuola e l'insegnamento della religione, la libertà di
abbigliamento, la poligamia e la gestione famigliare, le mutilazioni rituali e in
generale i costumi religiosi contrari alla legge.
Università: Università degli Studi di Firenze
Facoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto Ecclesiastico, a.a. 2006/2007
Titolo del libro: Eguaglianza e diversità culturali e religiose
Autore del libro: N. Colaianni1. Tra eguaglianza e diversità culturali e religiose
L’eguaglianza, forza di richiamo del moderno Stato costituzionale di diritto, è oggi disturbata dalla forza
centrifuga insita nella nuova “voglia di differenza”.
Egualitarismo e differenzialismo sono ormai le polarità opposte verso cui si muovono le legislazioni: nel
primo caso le differenze culturali sono lecite, ma confinate nel privato, senza alcuna rilevanza nella sfera
pubblica; nel secondo acquistano predominanza tendendo a ridurre al minimo il modello sociale condiviso.
Il liberalismo intransigente è cieco verso le differenze religiose e culturali, si autodifende dal pericolo della
frammentazione sociale e giuridica, teme la dissoluzione del comune patrimonio di valori e perciò esclude
dalla sfera pubblica perfino l’esibizione vistosa dei valori particolari, confinandoli nella sfera privata.
Viceversa, nell’ottica differenzialista l’esercizio di quei diritti diventa possibile solo in accordo con la
comunità.
La recente legge francese 2004/228 sui segni religiosi portati in maniera vistosa nelle scuole pubbliche è
stata percepita quasi come il frutto di una “crociata culturale” condotta dei sostenitori dell’unità nazionale
contro i particolarismi disgregatori di quell’unità.
Laddove una vicenda giudiziaria relativa ad un problema del genere era stata risolta dalla magistratura
inglese fin dal 1978 in senso opposto, riconoscendosi il diritto di uno scolaro di religione Sikh a indossare il
turbante, anziché il copricapo previsto dalla divisa della scuola.
Invero, la tradizionale politica britannica, che si muove nel solco delle proprie tradizioni coloniali, implica il
lasciar decidere alle comunità sulle materie che esse ritengono essenziali per la conservazione della propria
identità.
Tuttavia, nonostante gli esiti evidentemente contrapposti, queste politiche presuppongono la stessa
concezione statica delle culture come sistemi di senso rigidi e impenetrabili, insiemi compatti, che possono
evolvere, ma senza oltrepassare i loro confini, senza interagire.
Il liberalismo consente di abbattere, in nome dell’universalismo, muri e recinti spinati, ma respingendo le
differenze nella sfera privata pur di assoggettare all’inclusione obbligatoria, alla omologazione nella sfera
pubblica.
Il comunitarismo spinge i diversi, siccome non adattati, verso l’esclusione: possono vivere in loro comunità
finché non danno fastidio e non accampano nella sfera pubblica pretese incompatibili con i diritti della
comunità statale.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 2. Le differenze nella giurisprudenza CEDU
La stessa visione essenzialistica è ricavabile anche dal diritto vivente della Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo.
Infatti, la giurisprudenza di Strasburgo è costante nell’ancorare le culture a schemi tralatici, acriticamente
ricevuti o programmaticamente conservatori di identità fisse, predefinite, non soggette a evoluzione.
Tale visione certo non emerge quando il ricorrente deduce tra l’altro anche la violazione del divieto di
discriminazione contenuto nell’art. 14: motivo, questo, che la Corte ha cura di affrontare per primo, in modo
che il suo eventuale accoglimento renda superfluo l’esame del motivo specifico sulla violazione del diritto
sostanziale evocato in giudizio.
Quando non è applicabile la norma antidiscriminatoria, invece, i diritti sostanziali stentano a trovare
riconoscimento diretto e ancor più, tra essi, quelli culturali, siccome interpretati secondo una visione statica
e non evolutiva.
Un caso emblematico di presupposizione di un’identità ormai definitivamente prefissata è quello dei rom.
In diverse sentenze, viene esaminato il loro diritto ad insediarsi stabilmente per un certo periodo dell’anno in
modo da consentire ai figli di frequentare la scuola.
Il Regno Unito è convenuto per aver negato quel diritto a motivo della soggezione a vincolo paesaggistico di
inedificabilità del luogo di insediamento.
La Corte nega che si tratti di un’illegittima interferenza statale perché la tutela paesaggistica ben può valere
come uno di quei limiti che nel suo margine di apprezzamento lo Stato può opporre a numerosi diritti
individuali.
Non rileva qui valutare la plausibilità dell’esito del bilanciamento operato dalla Corte.
Il fatto è che essa ha negato che nel caso si facesse questione di un diritto culturale, quale lo stile di vita
zingaresco, sul presupposto che, per il fatto di risiedere stabilmente per un lungo periodo dell’anno, “la
ricorrente non vive una vita itinerante” come altri nomadi.
Insomma, lo stile di vita nomade comporta indefettibilmente, secondo la visione tralaticia accolta dalla
Corte, di girovagare in continuazione.
Lo stile di vita dei rom secondo la Corte, resta inchiodato allo stereotipo del nomadismo continuo, senza
possibilità di evoluzione alla stregua anche dell’ambiente circostante e delle politiche degli Stati nel cui
territorio vengono a trovarsi.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 3. Fissità culturali e religiose della CEDU
Questo esito trova ovviamente una clamorosa conferma nel modo di considerare l’Islam, rispetto al quale gli
stereotipi si sprecano.
Significative sono le sentenze riguardanti lo scioglimento, da parte della Turchia, di un partito politico, il
Refah Partisi, avente come programma quello di instaurare, senza escludere chiaramente l’uso della forza,
un sistema multigiuridico fondato sulla discriminazione secondo le credenze religiose e sulla shar’a come
legge fondamentale.
Secondo la Corte risulterebbe oltremodo lesivo:
- del principio di non discriminazione, che comporta un “giusto equilibrio tra le rivendicazioni di certi
gruppi religiosi che aspirano a reggersi secondo proprie regole e l’interesse della società nel suo complesso,
che deve basarsi sulla pace e sulla tolleranza tra le diverse religioni o convinzioni”;
- del “ruolo dello Stato di garante dei diritti e delle libertà individuali e di organizzatore imparziale
dell’esercizio delle diverse convinzioni e religioni in una società democratica, perché obbligherebbe gli
individui ad obbedire non già alle regole dettate dallo Stato nell’esercizio delle funzioni precisate, ma alle
regole statiche di diritto imposte dalla rispettiva religione”.
La Corte coglie esattamente la staticità delle regole delle comunità religiose e culturali, ma da per scontato
che essa sia un carattere fisiologico dell’Islam, tradendo il pregiudizio fissista con cui si guarda alle culture e
alle religioni.
Non è questo l’unico punto in cui la motivazione ruota intorno ad una “essenza” artificiosamente astorica di
un Islam sempre e dappertutto uguale a se stesso.
Ancora più impressionante è l’idea fissista di una shar’a “stabile e immutabile nel suo riflettere fedelmente i
dogmi e le regole divine prescritte dalla religione”.
Come norme contrastanti con i principi democratici e i diritti umani accolti dalla Convenzione Europea,
vengono indicate quelle di diritto e procedura penale, sulla condizione giuridica della donna e, in genere,
sulla conformazione di tutti gli aspetti della vita privata e pubblica a norme religiose.
Ma il carattere oppressivo e democraticamente inaccettabile di queste norme discende direttamente e
autenticamente dalla shar’a, appartiene alla sua “grande tradizione”, o deriva dalle interpretazioni secolari e
dagli usi locali, che essa ha subito e subisce, ma che non reggono al giudizio storico-critico?
La sentenza di condanna a morte a causa delle sue idee innovatrici eseguita nei confronti di un “martire
musulmano per la libertà di coscienza”, il sudanese Mahmoud Mohamed Taha, secondo cui la perfezione
della shar’a “risiede proprio nella sua capacità di evolversi e di integrare le forze vive degli individui e delle
collettività”: laddove il revival islamico attuale si basa su “semplici formulazioni storiche dell’Islam”
finalizzate a “distinguere” i musulmani dal resto del mondo e, in particolare, dall’Occidente.
Forse, inconsapevolmente, una giurisprudenza del genere porta acqua appunto a questo mulino, il mulino
degli islamisti radicali, accreditandone la visione archeologica e storicamente falsa dell’Islam.
La riduzione delle culture a “totalità ermetiche, sigillate e internamente coerenti”, riguarda non soltanto
l’Islam, ma anche le culture pubbliche, quelle che informano i profili fondamentali della forma di Stato e
che, perciò, vengono irrigidite si da non poter che entrare in irrimediabile conflitto con le culture religiose e
minoritarie.
La giurisprudenza della Corte europea ne da prova quando tratta della laicità, e in particolare, della
neutralità dell’insegnamento pubblico assicurato dallo Stato, con riferimento al divieto a docenti o
studentesse di indossare il velo islamico e non un “vestiario moderno”.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose Essa è costante nell’escludere, in questi casi, una violazione dell’art. 9 CEDU, riconoscendo che il divieto è
necessario in una società democratica al fine di non discriminare le studentesse che non portano il velo, dato
il potenziale espressivo di un simbolo difficilmente conciliabile con il principio di eguaglianza di genere.
Il concetto di laicità che traspare da questa giurisprudenza è quello rigido, comunemente dello alla francese.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 4. Le culture negli atti giuridici
È ricorso finora più volte il termine cultura, ma è necessario verificarne l’assetto normativo e a tale stregua
le possibilità di evoluzione della concezione statica che di esso traspare dalla sociologia e dalla
giurisprudenza europea.
In atti giuridici impegnativi, le espressioni diritti culturali e vita culturale, compaiono per la prima volta solo
nel 1966.
Si tratta dei due Patti internazionali di New York, relativi ai “diritti economici, sociali e culturali” e ai
“diritti civili e politici”.
L’espressione “vita culturale” ha però un senso diverso in ciascuno dei due Trattati.
Nel Patto sui diritti culturali ha un significato oggettivo, riconoscibile da e a tutti gli individui, e quindi di
portata generale.
Si tratta quindi della cultura in senso stretto, o se si vuole tecnico-giuridico, e della relativa formazione,
insita nel concetto di diffusione o di insegnamento.
Nel Patto sui diritti civili e politici, viceversa, il significato è tratto piuttosto dall’antropologia culturale e
dunque il patrimonio non solo di conoscenze, ma anche di credenze, di costumi e di stili di vita, modelli di
comportamento.
Intesa in questo senso ampio, la cultura non ha più un carattere generale, ma si particolarizza, si differenzia,
si soggettivizza in relazione a determinate comunità: le minoranze etniche, religiose o linguistiche.
I “diritti culturali”, indicati nella rubrica del primo Patto, hanno finito per assumere come oggetto la “vita
culturale” intesa nel senso del secondo Patto e sotto questo profilo hanno dato luogo a una nuova categoria
di diritti.
Certo, si può osservare che tutti i diritti fondamentali sono, in un senso più profondo, diritti culturali, ma
l’osservazione vale ad allargare l’orizzonte dei diritti fondamentali, non ad individuarne un ulteriore
categoria priva di utilità pratica.
Comunque, è precisamente tale senso ampio quello in cui la parola “cultura” e le espressioni derivate sono
state prevalentemente adoperate nei successivi documenti giuridici internazionali, fino alla Carta di Nizza,
secondo la quale “l’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”.
La cultura del rispetto, che si colloca nell’alveo della CEDU a specifico riguardo della vita privata e
familiare, appare più corretta di quella della semplice non privazione.
Essa implica, infatti, un giudizio positivo della diversità, ma il passo in avanti si ferma qui.
In particolare, esso non vale a configurare un diritto soggettivo o collettivo alla diversità.
Vero è, peraltro, che la “non privazione” (che di per se implica solo la mancanza di discriminazioni
negative) è stata autorevolmente interpretata in positivo come “protezione” finalizzata ad “assicurare la
sopravvivenza e lo sviluppo permanente dell’identità culturale, religiosa e sociale delle minoranze”: “di
conseguenza, gli Stati dovranno talvolta anche adottare misure positive per proteggere l’identità delle
minoranze”.
Una evidente differenza di formulazione tra il Patto sui diritti civili e politici e la Carta di Nizza si rinviene
piuttosto con riferimento all’oggetto della garanzia.
Nel primo, la cultura trova riconoscimento in quanto patrimonio di una minoranza esistente all’interno degli
Stati; nella norma europea (in fondo proprio per la sua vaghezza: un difetto che si trasforma in pregio) la
diversità viene, invece, rispettata per sé, sganciata dal suo essere espressione di minoranze già “esistenti” e
quindi predefinite.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose La mancanza di confini della norma europea potrebbe essere utilizzata come premessa (aperta) per un
superamento del quadro di riferimento statico delle minoranze e delle loro culture.
La norma europea pare idonea ad aprirsi alle acquisizioni dell’antropologia culturale sulla disomogeneità
strutturale e sul carattere dinamico, processuale delle culture, le quali, quindi, più che separarsi
interagiscono reciprocamente.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 5. L’unità tra culture e religioni nella Carta di Nizza
L’elemento di novità introdotto dalla Carta di Nizza, per la mancanza di un riferimento a minoranze
predefinite, sembra disegnare appunto un quadro flessibile e differenziato che assume positivamente il dato
dello scambio e della comunicazione tra le culture.
Tale implicito riconoscimento può ritenersi operante non solo nei rapporti reciproci tra le culture, ma anche
in quelli tra le culture e le religioni.
È proprio l’indivisibilità dei diritti l’ostacolo fondamentale a una lettura divisa della diversità culturale,
religiosa e linguistica.
Nella realtà, religione e cultura (e lingua, talvolta) si presentano appunto strettamente intrecciate.
La lingua è un bene culturale, anzi è il bene culturale fondamentale.
La religione, a sua volta, è un sistema culturale; la libertà di religione, proprio perché libertà originaria, è
stata anche l’antesignana della democrazia nella protezione delle minoranze culturali: ha costituito il primo
diritto culturale, “matrice e primo esempio” della libertà di manifestazione del pensiero, stimolo e modello
per l’introduzione di diritti culturali ulteriori.
Sarebbe un cedimento all’integralismo, oltre che all’approssimazione, risolvere le diversità culturali in mere
diversità religiose.
Come si vedrà nei capitoli seguenti, dedicati alle radici e ai simboli d’Europa, non mancano e tendono anzi a
conquistare la dominanza pubblica, letture del genere.
Il forte rischio del riduzionismo non può, comunque, indurre a trascurare l’origine religiosa di molte culture.
Le convinzioni e le pratiche in materia religiosa in ogni cultura influenzano l’autocomprensione etica dei
credenti (e, anche per reazione, dei non credenti e degli agnostici).
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 6. L’assalto del multiculturalismo
Il problema posto dalla coesistenza di culture comprensive ed escludenti è molto simile a quello della
coesistenza di una molteplicità di religioni, postosi storicamente con il distacco delle chiese della Riforma
della Chiesa di Roma.
Questo problema è stato teoricamente risolto in Occidente con l’adozione del principio di laicità.
La laicità consente, appunto in linea di principio, a tutte le differenze in materia di religione, positive o
negative, di coesistere in maniera giuridicamente equiparata.
Il diritto non è espressione di una cultura, sì che le altre possano sentirsi escluse, né ha il fine di sostenere
una determinata cultura a scapito delle altre: è (deve essere) neutrale e imparziale.
È applicabile questo principio anche ai conflitti propri della società multiculturale, bensì essi si presentino
come conflitti fra gruppi, si direbbe tra tribù, e non tra idee, credenze, valori?
A parte il fatto che anche i conflitti religiosi si sono presentati, all’inizio dell’età moderna e tuttora in alcuni
Paesi (si pensi all’Irlanda), come conflitti tra gruppi, la risposta può essere negativa solo se si accede a una
certa retorica del multiculturalismo, quella dello scontro fra culture irriducibili.
Secondo questa impostazione ideologica, infatti, l’universalismo dei diritti (e della laicità) è falso: esprime
una particolare cultura, quella Occidentale, che con una più raffinata forma di imperialismo o di
colonialismo (culturale) si vuole imporre anche a chi appartiene ad altre culture.
La laicità intesa come separazione del diritto dalle culture è una cultura non universale, ma particolare; a sua
volta non ha maggiore dignità e non può pretendere maggiore rispetto dei particolarismi comunitari e delle
altre culture e, quindi, non può essere imposta a chi fa riferimento a queste diverse culture.
Ma il relativismo culturale, nei suoi esiti estremi, pecca di fondamentalismo e universalismo a sua volta.
Ciò spiega la lettura dell’estremismo politico di alcuni movimenti di matrice islamica come intrinseco alla
natura stessa dell’Islam, ridotto appunto a religione “pervasiva, fatalistica, fanatica, immutabile, medievale”.
L’approdo coerente di questa lettura è oggi come ieri la città lagunare, in cui ogni isolotto celebra
l’assolutizzazione dello specifico comunitario, un mosaico di comunità reciprocamente impenetrabili.
Il multiculturalismo, insomma, “implica, anche se in forma mitigata, un’identità e una rivalità
essenzialistiche delle culture”: un ordinamento a compartimenti stagni, già sperimentato per mezzo
millennio nell’impero ottomano, ciascuno con valori propri.
La biasimata assolutezza non viene sconfitta, ma si moltiplica frantumandosi “in una serie di mondi chiusi e
irrelati”.
Caratteristico di questa visione, invero, è il trasferimento del principio di uguaglianza dal piano degli
individui (tutti sono uguali) a quello delle culture (tutte sono eguali), pervenendosi così ad una posizione di
relativismo che spinge all’irresponsabilità sociale e finanche alla “pigrizia intellettuale”: a non trovare, cioè,
ragione per difendere quei valori, la cui conquista è constata all’Occidente lotte e sacrifici secolari.
Si tratta di principi supremi, secondo il lessico costituzionalistico, stabiliti dal potere costituente a garanzia
dei diritti fondamentali contro le stesse maggioranze democraticamente elette, le quali, se li modificassero,
compirebbero un atto di rottura della legalità costituzionale, un mutamento di regime, vale a dire una
rivoluzione.
Tra questi principi irreformabili, ha sentenziato la Corte Costituzionale italiana nel 1989, figura proprio la
laicità.
Il multiculturalismo, nella sua versione radicale, porta alla revisione anche dei principi supremi.
La laicità, per sopravvivere, ha bisogno di una recezione più o meno ampia delle culture sottostanti, ma il
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose raggiungimento di questo obiettivo va perseguito con metodi politici e non giuridici: cioè con il consenso e
non con l’imposizione.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose 7. La decostruzione del concetto di laicità
Proprio per questa sua attitudine a garantire tutti senza chiedere garanzie, o adesioni culturali o religiose ai
movimenti storici da cui è nata, la laicità conserva la capacità di fungere da criterio direttivo delle politiche
di riconoscimento delle differenze in un quadro di eguaglianza dei diritti pur nel mutato scenario della
società multiculturale.
È necessario però che essa non venga utilizzata per imporre, contro la sua natura, valori che avvantaggiano
alcuni e svantaggiano altri.
Ad evitare queste situazioni di ingiustizia serve individuare il nucleo essenziale e irriducibile del principio di
laicità, sfrondarlo delle addizioni ideologistiche che esso ha subito nel corso dei secoli, liberarlo dalle
impostazioni usualmente seguite per sistemarlo all’interno degli schemi culturali e giuridici: in perfetta
coincidenza (laico = Occidentale) e/o in opposizione rigida agli altri principi (laico/religioso, laico/cattolico)
presentati come irriducibili.
In queste impostazioni è la laicità stereotipata “alla francese” che ordinariamente si assume come parametro
assoluto: una separazione tra diritto e culture senza il combinato carattere del riconoscimento.
Ne consegue un’imparzialità interessata e non proprio indifferente, perché, in realtà, solo apparente rispetto
ai fattori cultural-religiosi.
Si tratta di una imparzialità sostanzialmente asimmetrica, per cui i valori della République sono obiettivi e si
debbono comunicare agli altri, agli immigrati (credenti, tanto più se di altre religioni, o non credenti),
mentre i valori degli altri sono soggettivi, leciti solo nella sfera privata, non possono comunicarsi ai nativi.
A ben guardare, la separazione, per quanto tenda ad assicurare l’universalismo dei diritti, non esaurisce il
campo della laicità; questa si compone anche del riconoscimento pieno e rispettoso della dignità dell’altro e,
quindi, della salvaguardia della sua diversità culturale, religiosa, morale.
Il carattere separatistico e perciò universale della laicità è quello comunemente realizzato nelle esperienze
costituzionali, ma esso è intimamente legato all’altro, quello del riconoscimento, senza il quale la laicità non
apre gli occhi, rimane cieca alle differenze, correndo il rischio, perciò, di lasciare le cose come stanno e di
rafforzare indirettamente la posizione della cultura dominante.
Stefano Civitelli Sezione Appunti
Eguaglianza e diversità culturali e religiose