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La giurisprudenza e le mutilazioni “rituali”


Non sempre i diritti delle comunità possono ottenere riconoscimento, sia pure opportunamente rivisitati e, in un certo senso, trasformati.
C’è un’intransigenza dello Stato nella tutela di un ristretto numero di beni, corrispondente al settore della tutela penale, rispetto al quale diritti culturalmente orientati in senso diverso, quando non contrario, non possono che essere negati.
Emblematico è il caso delle mutilazioni genitali femminili, come l’OMS definisce “le procedure che interessano la parziale o totale rimozione dei genitali esterni femminili e/o le offese agli organi genitali femminili fatte per motivi culturali o per ogni altro motivo non terapeutico”.
In un ampio concetto di mutilazione, come questo, dovrebbero rientrare anche le mutilazioni genitali maschili.
E potrebbero rientrarvi anche altri interventi sul corpo femminile comunemente tollerati, come per esempio le episiotomie senza vera necessità, il piercing o qualche forma di tatuaggio invasivo.
E, se queste forme di intervento sui genitali non fanno problema e non vengono considerate mutilazioni, una normale cautela definitoria imporrebbe di non trattare senz’altro come mutilazioni anche le pratiche suindicate.
Per vero, anche alcuni dei Paesi africani e asiatici dove le mutilazioni dei genitali femminili sono pratica tradizionale diffusa ed estesa la vietano esplicitamente: ma il diritto ufficiale, statale, configge qui con il diritto consuetudinario, ben più cogente e vincolante.
La sanzione della trasgressione della consuetudine è certamente sociale, e, concretizzandosi nell’isolamento delle ragazze non mutilate, è vissuta come ben più pesante di quella che eventualmente consegue alla trasgressione della norma ufficiale.
Questo fatto imporrebbe un approccio diverso da quello esclusivamente repressivo, più aperto alla comprensione, perché “ciò che ora è necessario è non meno la tolleranza verso concezioni sociali, politiche e culturali differenti”: che è vano, e culturalmente scorretto, liquidare senz’altro come “sub-culture relative ad ordinamenti diversi da quello italiano”.
Certo si tratta di proteggere gli interessi della vittima all’integrità fisica, ma questa finalità è plausibile solo nella misura in cui il processo di integrazione nella collettività di accoglienza sia reale e le mutilazioni subite o minacciate vengano vissute come tali e, quindi, non accettate.
Altrimenti prevale il timore dell’isolamento come è dimostrato dal basso numero di denuncie da parte non solo di persone appartenenti alla comunità coinvolta, orientate ovviamente all’accettazione della pratica, ma anche di medici, assistenti sociali, operatori scolastici, pur in grado di cogliere sintomi od effetti delle mutilazioni.
Benché foriera di rischi e contraddizioni, l’utilizzazione dello strumento penale è tuttavia imprescindibile.
D’altro canto, è applicabile in ogni legislazione la fattispecie del reato di lesione e, quindi, per rinunciare ad iniziare l’azione penale occorrerebbe semmai introdurre una categoria di reati culturali, o culturalmente orientati, scriminanti della condizione di nativo o di appartenente ad una cultura minoritaria, dell’autore del reato.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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