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Il crocifisso secolarizzato


Questa sfumatura tra le due motivazioni è frutto dell’implicita ma evidente sforbiciata, che hanno subito in secondo grado le molteplici e avide considerazioni svolte dal Tar nell’ostentato abbandono dell’argomentazione giuridica in favore di quella storica, teologica, sociologica, semiologica, moralistica.
Ad esso va tuttavia dato uno sguardo rilevando almeno la strumentalità di alcune asserzioni: per esempio, che il crocifisso è simbolo non solo del cattolicesimo ma anche delle altre confessioni cristiane, comprese quelle della Riforma.
Il tentativo di allargare strumentalmente l’area di riferimento dei simboli religiosi, in modo da diluirne la peculiarità se non l’esclusività del risultato, è ricorrente.
Un’altra tesi sentenzia che il cristianesimo “considera secondaria la stessa fede nell’onnisciente di fronte alla carità”, virtù che “privilegia su ogni altro aspetto, fede inclusa”.
È facile obiettare che storicamente questo rispetto dell’altro da parte della Chiesa, almeno come istituzione, non sempre si è manifestato e che, infatti, l’ultimo Papa ha più volte pronunciato richieste di perdono per i misfatti del passato.
Ma nella potente sintesi del giudice storico questi sono dettagli, perché nel cristianesimo, “nonostante l’inquisizione, l’antisemitismo e le crociate, si può agevolmente individuare il principio di dignità dell’uomo, della tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi, in ultima analisi, il fondamento della stessa laicità dello Stato”.
Così il cristianesimo è un’eccezione rispetto alle altre religioni, perché non esclude, non rifiuta il non credente: e, quindi, il simbolo della croce reggerebbe anche alla luce della scienza semeiotica.
Perciò (non nonostante, ma proprio) perché “la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari” si deve esporre quel simbolo, essendo “importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo (religioso o laico che sia) che impregnano di sé il nostro ordinamento”.
La conclusione è che proprio per evitare lo scontro con altre culture è “indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità” (qui il giudice si coinvolge e con quel nostro diventa militante e si pone decisamente nell’ottica del “noi” e gli “altri”), legittimamente collocando nelle aule della scuola pubblica il crocifisso “in quanto non solo non contrastante, ma addirittura affermativo e confermativo del principio di laicità dello Stato repubblicano.
Si potrebbe obiettare che, comunque, per i cristiani consapevoli e maturi il crocifisso continua ad avere un valore strettamente religioso, di “simbolo del Dio agonizzante”, con cui si vuol significare che “questo è Dio e così Dio è”: sicché la limitazione di tal senso, ottenuta attraverso l’interruzione del collegamento del simbolo ad uno specifico credo, appare a essi una “profanazione della croce” e ai non cristiani, ugualmente consapevoli e maturi, una preferenza, comunque, di una religione, una forma di istruzione o di propaganda subliminale.
Il Tar si fa carico della questione e la respinge sulla base dell’argomento maggioritario.
Quanti sono i “cittadini aderenti in maniera non superficiale alle varie religioni”?
Una minoranza nella nostra società secolarizzata e dunque bisogna proteggere la maggioranza: e questa vede nel crocifisso un “segno culturale e anche religioso, ma interpretato nel limitato e non limitativo senso sopra indicato” (vale a dire non di fede, ma di “adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, che appare invece patrimonio largamente diffuso”).

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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