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La poligamia: aspetto religioso, sociale e giurisprudenziale


Nella prospettiva costituzionale, gli interventi legislativi in materia di unione di fatto si possono interpretare come frammenti di un sistema di tutela globale degli interessi superindividuali di quest’altro modello di comunità familiare.
I nuclei di regolazione giuridica di ciascun modello tendono così ad accostarsi e trovano una base comune nella convivenza (stabile) e nell’affectio (con funzione educativa e di sostentamento).
In realtà, il matrimonio poligamico ha in sé il germe della disuguaglianza ed è, quindi, potenzialmente lesivo di un valore che fa corpo ormai con il nostro concetto di democrazia.
La poligamia è espressione della prima delle tre relazioni di disuguaglianza (tra uomo e donna, tra musulmano e non musulmano, tra libero e schiavo) su cui il diritto musulmano classico si basa, in quanto, come il ripudio, non ha carattere bilaterale ma è esercitabile solo dall’uomo.
Non mancano, di tale disciplina, giustificazioni di carattere sociale, che tendono a presentarla come legislazione di sostegno della donna e del suo stato di bisogno: a parte i benefici effetti demografici, la poligamia agevola il matrimonio della donna, assicurandole la conseguente protezione maritale e disincentiva nell’uomo, così, la fornicazione in costanza di matrimonio come il ripudio, che lascia la donna priva del mantenimento e della stessa potestà sui figli.
È tuttavia evidente che l’istituto finirebbe per non trovare una giustificazione di fondo se mancasse la base scritturistica della superiorità dell’uomo rispetto alla donna.
Se questo è il diritto musulmano classico, è manifesto il contrasto con il diritto europeo e occidentale, che si basa sull’opposto principio della uguaglianza assoluta tra gli esseri umani, senza distinzione e discriminazione di sesso e, quindi, “uguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento”.
La negazione del riconoscimento del diritto al matrimonio poligamico è temperato dalla giurisprudenza, che ad esso attribuisce rilevanza come un fatto produttivo eventualmente di effetti giuridici di secondo grado, a parte la possibilità di ricongiungimento familiare dei figli minorenni di “un altro coniuge”.
Questi, peraltro, non può fruire personalmente della possibilità di ricongiungimento, essendo ulteriore rispetto a quello con cui il marito già vive insieme.
Ma il problema del congiungimento al coniuge, emigrato e regolarmente soggiornante in Italia, della donna con lui sposata con matrimonio poligamico, che, posto sul piano dell’analogia delle garanzie verso la famiglia legittima non può trovare soluzione, potrebbe trovare tutela nel quadro di uno “statuto minimo della famiglia di fatto”.
L’apertura alla famiglia di fatto, attraverso uno statuto di garanzie minime, comporterebbe l’abbandono dell’accettazione o della conformazione del marito al modello normativo di famiglia del Paese di accoglienza come condizione per l’accesso al territorio anche delle mogli ulteriori.
Questa intersezione di regolamenti giuridici rifugge dagli estremi, tanto del diritto speciale, che nel legalizzare le scelte autonome delle parti finisce in realtà per lasciare il diritto di famiglia “interamente alle autorità religiose tradizionali”, quanto di un diritto statale, che non tiene conto delle diversità, ispirandosi a un concetto di laicità espressiva solo di una civiltà come quella occidentale che non esaurisce più in sé le potenzialità di sviluppo della convivenza umana ed è quindi di impossibile universalizzazione.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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