Appunti utili per l'esame - Storia della critica d'arte - in cui vengono trattate le fonti della storia dell'arte moderna. Viene trattata la letteratura storica del Rinascimento e i maggiori esponenti, tra i quali Ghiberti, Landino, Savonarola, Leon Battista Alberti, Brunelleschi ecc. Un'ampia parte è dedicata al Rinascimento, in particolare alle opere del Vasari.
Storia della critica d'arte
di Gherardo Fabretti
Appunti utili per l'esame - Storia della critica d'arte - in cui vengono trattate le
fonti della storia dell'arte moderna. Viene trattata la letteratura storica del
Rinascimento e i maggiori esponenti, tra i quali Ghiberti, Landino, Savonarola,
Leon Battista Alberti, Brunelleschi ecc. Un'ampia parte è dedicata al
Rinascimento, in particolare alle opere del Vasari.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Storia della critica d'arte
Docente: Valter Pinto
Titolo del libro: La letteratura artistica
Autore del libro: Julius Schlosser Magnino
Editore: Nuova Italia
Anno pubblicazione: 20061. L'arte di Cennino di Drea Cennini di Colle di Valdelsa
Cennino di Drea Cennini di Colle di Valdelsa nasce intorno al 1390. Fu scolaro di Agnolo Gaddi e delle sue
opere pare che nulla si sia conservato all'infuori dell'affresco di cui parla Vasari, firmato, ma ora
completamente guasto, nei magazzini di Santa Maria Nuova, a Firenze. Il suo nome non appare nella
matricola (= registro degli iscritti ad una associazione) dei pittori fiorentini, ma sappiamo che emigrò a
Padova, alla corte di Francesco da Carrara, dove appare il suo nome in documenti dell'anno 1398. È l'unica
data certa che possediamo di lui, ma il suo soggiorno potrebbe risalire ad anni prima. A Padova è, con ogni
probabilità, morto.
La più antica copia del suo trattato, scritta, come dice l'explicit, nel carcere fiorentino dei debitori (le
Stinche) è del 1437, quindi, probabilmente, non autografa. Della sua vita nient'altro è noto.
Cennino ribadisce la dua discendenza artistica, attraverso il maestro Agnolo Gaddi, da Giotto, e nella sua
esatta indicazione del lungo apprendistato (dodici anni) ci prospetta efficacemente la tradizione corporativa
delle botteghe d'arte del '300. Mette in rilievo con orgoglio nazionale il fatto che Giotto abbia insegnato
all'arte a parlare il latino, anziché il greco, medievale, e tutto il libro tradisce un autore colto, capace di
sfornare un'opera chiara e penetrante, che riassume efficacemente i risultati del Trecento giottesco.
È importante l'introduzione di Cennini al suo scritto, perchè rivela una stretta connessione col pensiero
enciclopedico scolastico. Come Teofilo, anche Cennino inizia ab ovo, col peccato originale e il conseguente
lavoro di tutti gli uomini, dal quale sono derivate tutte le arti, nel senso medievale, provocate dalla
necessitas. Prima si pensava che Cennino avesse desunto proprio da Teofilo le sue nozioni, ma Cennino
viveva in una città dotta e non aveva bisogno delle imbeccate del suo predecessore poiché quelle nozioni
erano bagaglio comune di tutta la letteratura scolastica.
Tra le arti che devono la loro origine alla necessitas, Cennino inserisce anche la pittura, introducendo però
un fattore che avvicina la sua concezione di arte alla nostra: la fantasia artistica, che deve accompagnarsi
alla tecnica, per rappresentare come reale ciò che in effetto non è presente. Una nozione già incontrata in
Dante, nel Convito. La pittura merita dunque di sedere di diritto in seconda fila, sotto la scienza, e di essere
incoronata dalla poesia. Come il poeta, anche il pittore è libero di foggiare, secondo quanto gli suggerisce la
fantasia, figure sedute o stanti, metà uomini e metà cavalli.
È una affermazione utile per tre punti di vista:
- troviamo l'antichissimo confronto tra pittore e poeta, risalente già alla Grecia arcaica e poi ripreso da
Orazio nella famosa locuzione “ut pictura poesis”, anche se con significato diverso.
- Si annuncia per la prima volta, anche se di sfuggita, il tema della disputa per la precedenza delle arti, il
“paragone”.
- C'è un primo accenno - importantissimo per la nostra trattazione, proprio alla vigilia del Rinascimento, e
all'infuori della pratica artistica – alla liberazione dell'arte figurativa dai legami del mestiere, dell'ars
mechanica, con un elemento che, tuttavia, appartiene ugualmente al pensiero antico. Alla pittura spetta il
secondo posto, dopo la scienza, accanto alla poesia e prima di essa. Per questa medesima via andranno
anche i teorici successivi, fino a giungere al concetto dell'arte bella indipendente.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 2. Il trattato di Cennino Cennini
Il libro di Cennini non sta inutilmente al limite di due periodi, quello antico – medievale e quello moderno.
Lo stesso autore mette espressamente in rilievo il “moderno” nello stile di Giotto. Per la prima volta, nella
teoria italiana dell'arte, appare il termine “moderno”, importante e del resto non nuovo. La natura è già
indicata come la guida più sicura, dato comprensibile in un tempo e in un ambiente che aveva abitudine ad
un immediato, fecondo, studio del modello. Ma per Cennini, trapiantato nel settentrione, non ha molto
maggiore significato che per i suoi compatrioti non artisti, come Boccaccio e Villani, e Cennino rimane
sostanzialmente attaccato alle tradizioni della sua scuola. In quasi tutti i suoi precetti e consigli permane il
predominio dell'exemplum medievale. Se la regola di disegnare liberamente e di avere sempre il sole a
sinistra conduce subito su un terreno antico e meridionale, gli altri particolari sono formulati in maniera
interamente medievale, poiché nella bottega del Cennino si sarà lavorato proprio su calchi di antichi modelli
come nei laboratori del monte Athos, che egli stesso cita. Si indicano esattamente le parti del volto dove
deve figurare l'ombra, come naso, orlo della bocca, mento, labbra e così via. Si descrive minutamente la
maniera con cui Agnolo Gaddi metteva il rosso delle guance, raccomandandone l'imitazione perchè da più
rilievo al viso. Anche il termine “rilievo” spunta per la prima volta qui. In eguale modo sono formulati i
precetti della prospettiva: parlando delle cornici architettoniche più alte, stabilisce che siano rappresentate
discendenti, mentre quelle più basse ascendenti. Per la pittura di paesaggio troviamo il consiglio più volte
citato di tenere come exempla, nel proprio studio, delle grosse pietre grezze, alludendo alla
rappresentazione, schematica ed ereditata dall'antichità, del terreno con rupi digradanti, che si conserva
tenacemente nella pittura del Trecento.
È notevole il capito sulle proporzioni dell'uomo, di cui si parla per la prima volta in un trattato d'arte. Da
allora conservano un posto fisso nella teoria. Nessuna pratica di laboratorio, dalla più antica età egiziana, ha
potuto fare a meno di queste formule empiriche. Tutti i precetti del Cennini rivelano chiaramente la fonte
antica: l'inscrizione della figura umana nel circolo, le otto lunghezze del volto cui deve corrispondere il
corpo, la tripartizione del viso nel senso della lunghezza del naso.
Il Cennini, però, pare che non abbia utilizzato come fonte Vitruvio, la fonte antica per eccellenza, poiché
poco noto. Schiettamente medievale è poi l'esclusione della donna dalla teoria delle proporzioni, poiché essa
non possiede alcuna “simmetria”, causato in parte dall'atteggiamento negativo della Chiesa nei confronti del
femminile umano. La completa ignoranza di anatomia mostra come il Cennini sia uomo del Medioevo,
fermo alla credenza biblica che l'uomo abbia una costola in meno della donna, come ai discorsi in merito
alla scelta del colore più conveniente, bruno per l'uomo e bianco per la donna, eco di antiche consuetudini di
laboratorio.
L'antico come forma non ha la minima parte nel Cennini, e potrebbe sorprendere la cosa, vivendo in un città,
Padova, apertamente umanistica, apertamente proclamante il pregio dell'antichità. Ma Cennini è troppo
imbevuto della pratica dei compatrioti giotteschi e quanto egli sia in fondo estraneo all'antichità lo dimostra
la favola medievale che usa per spiegare l'origine delle antiche statue nude, imitazioni di forme tratte dal
vero sulla figura intera. È facile vedere anche qui l'impronta del formulario accademico. Il trattato del
Cennini rimane la prima testimonianza di una terminologia delle espressioni artistiche sviluppatasi dalla
pratica dei laboratori e già sufficientemente determinata: disegno, colorire, naturale, sfumare, maniera.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 3. Il commentario di Lorenzo Ghiberti
Lorenzo Ghiberti (Pelago 1378 – Firenze 1455).
Fu scultore, orafo, architetto e scrittore d'arte. Figlio adottivo dell'orafo Bartoluccio Ghiberti, nacque da
Cione di Ser Bonaccorso Abatini o Batini, e da sua moglie donna Fiora. Ghiberti è l'antenato della
letteratura storico – artistica rinascimentale. Proveniendo direttamente dalla bottega di un pittore giottesco
del secolo precedente, egli congiungeva nella sua persona l'età nuova con l'antica e nel secondo dei suoi tre
Commentari, comincia la sua autobiografoia proprio con la genealogia dei trecentisti.
I tre Commentarii di Lorenzo Ghiberti sono opera della sua età tarda, come dimostrano sia la citazione delle
sue ultime grandi creazioni sia la data del suo soggiorno romano, 1447, che si deduce dal suo bizzarro
calcolo delle Olimpiadi. Prima dei Commentarii è apparso solo, nel 1439, il primo scritto teorico dell'età
nuova, il libro dell'Alberti sulla pittura. È molto significativo il titolo dato da Ghiberti alla sua opera, un
titolo nel quale vuole riassumere tutta la sua opera in tutti i sensi; il libro si connette, però, nella sua natura
spirituale alla lettura memorialista fiorentina dei Ricordi. Nell'unica copia che ci è pervenuta, che è la stessa
che utilizzò il Vasari (che la vide nella mani di Cosimo Bartoli, importante matematico, filologo e umanista)
il grande trattato di Ghiberti risulta incompiuto, bruscamente interrotto. Seppur esistesse una versione
migliore, come quella che pare abbia utilizzato il cosidetto Anonimo Magliabechiano, è comunque certo che
il terzo trattato rimase solo un abbozzo. Ghiberti voleva dedicarlo ad un personaggio importante di cui però
non fa il nome: forse Niccolò Niccoli, umanista appassionato quasi esclusivamente di antichità, collezionista
e bibliofilo.
Il primo Commentario, così come si presenta, è antico interamente, sia nella forma sia nel contenuto. Lo
dimostra il proemio, preso a prestito da un dimenticato architetto militare dell'età dei Diadochi – Ateneo il
vecchio – con quella ignoranza o incomprensione dell'idea di plagio tipica della sua età; il programma, da lui
stabilito, dell'educazione enciclopedica dell'artista, tolto ad un altro autore antico, Vitruvio, anche se
Ghiberti vi mette qualcosa di suo, indicando la prospettiva e l'anatomia come discipline essenziali. La storia
degli artisti antichi è presa malamente da Plinio, ma Ghiberti è giustificato dalla totale assenza di una
efficace critica filologia dell'opera pliniana, ancora carente al momento della sua morte, compresa la
pubblicazione della traduzione completa ad opera del Landino, uscita comunque posteriormente al 1455.
L'atteggiamento del Ghiberti di fronte alla tradizione antica si rivela indipendente e critico, ma anche
ingenuo.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 4. Il secondo e il terzo Commentario del Ghiberti
Il secondo Commentario continua la trattazione storica. Al periodo della media età seguono le biografie di
artisti (le più antiche che ci siano note, ad eccezione di quelle dei trovatori provenzali), su base stilistica e
non su base aneddotica. Vere e proprie biografie condotte attraverso le opere.
Ghiberti è il nostro principale testimone per il Trecento, e riferisce ciò che egli stesso ha visto senza alcun
proposito letterario. Partendo da Giotto parla dei maggiori artisti trecenteschi e quattrocenteschi, in maggior
numero fiorentini e toscani naturalmente, ma cita anche artisti romani e napoletani e lo scultore tedesco
Gusmin, suo contemporaneo. Segue la prima autobiografia artistica della storia, basata non su racconti di
fatti esteriori, ma sulla vita interiore delle proprie opere, ripercorrendo criticamente il suo operato artistico;
alla fine del libro annuncia la realizzazione di un trattato sull'architettura.
Il terzo ed ultimo Commentario, il più esteso, contiene il tentativo di determinare le basi teoretiche dell'arte.
A Ghiberti sta a cuore soprattutto l'ottica, ed è commovente vedere come si avventuri nel mare della
speculazione scientifica. Sono nozioni scolastiche antiche o medievali, tratte di solito dal manuale arabo del
X secolo di Alhazen, l'Ottica, che cita spesso accanto a Tolomeo e Vitello. Ghiberti mostra grande valore coi
suoi frequenti tentativi di paragonare criticamente le opinioni di diversi autori, precorrendo l'infinita schiera
di coloro che tenteranno, dopo di lui, di dare una base scientificamente fondata all'arte figurativa. Un valore
che si palesa soprattutto nelle sue importantissime notizie sulle antichità di Firenze, Siena e Roma, che
inserisce nella sua trattazione com calma e libertà intellettuale; la prima volta che un artista parla con un
senso artistico di queste sacre reliquie nazionali.
La conclusione del libro è incompleta, ed è costituita dal tentativo di creare una teoria delle proporzioni.
Ghiberti mostra anche qui di avere un pensiero originale e indipendente, criticando la teoria di Vitruvio,
punto di partenza permanente di queste ricerche, e mettendo accanto al canone vitruviano un altro canone,
che nel Rinascimento va sotto il nome di varroniano. Con Ghiberti appare per la prima volta il metodo di
costruire la figura umana su un reticolato.
La grande importanza storico – artistica di Ghiberti sta nella sua quasi assoluta sicurezza, nella sua
sensibilità artistica e nella sua onestà. Il suo valore storico generale va molto al di là di quello della fonte,
poiché per primo ha tracciato i contorni di quella vera storia degli artisti che il Vasari e i successori hanno
invece travisato.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 5. I commenti di Cristoforo Landino (1424 – 1498)
Fu il primo a tradurre interamente Plinio in volgare. L'editio princeps del testo, latino però, era stata
stampata nel 1469 a Venezia, presso Giovanni da Spira. La traduzione il volgare di Landino apparve per la
prima volta nel 1476 sempre a Venezia e, nonostante i difetti, ebbe molte edizioni. Sorte fortunata se lo
confrontiamo all'opera di Ghiberti, che rimase, ahimé, semi ignota fino ai tempi recenti.
Per noi è invece più importante il suo Comento sopra la Comedìa, sullla Commedia di Dante Alighieri,
pubblicato nel 1481, preceduto da una apologia del poeta e della sua città contro i suoi detrattori. Qui
Landino dà uno sguardo a tutto quello che Firenze ha fatto nel campo della cultura, ordinando il suo elenco
secondo le categorie degli uomini illustri che l'avevano fatta grande, tra le quali non mancava naturalmente
la categoria riservata all'arte figurativa. Sono commenti brevi e recisi, notevoli come indizi dell'opinione
contemporanea; riguardano, inoltre, solo personalità defunte, che permetteva un giudizio quasi definitivo.
Anche il Vasari, nella sua prima edizione, si comportò alla stessa maniera. Vediamole meglio.
A Cimabue (vero nome Cenni di Pepi, Firenze 1240 – Pisa 1302) attribuisce il merito della invenzione dei
lineamenti naturali, e della vera proporzione, che i Greci chiamano simmetria. Di Masaccio (vero nome
Tommaso di Ser Giovanni di Mone Cassai, Castel San Giovanni, 21 dicembre 1401, Roma 1428) vengono
messe in rilievo l'imitazione del reale, il rilievo delle figure e l'eccellente prospettiva.
Filippo Lippi (Fra Filippo di Tommaso Lippi, Firenze 1406 – Spoleto 1469) è giudicato abile
particolarmente nel colorito e nel rilievo (termini che ricorreranno continuamente in tutta l'opera, fino a
ridursi sempre più a categorie scolastiche). Andrea del Castagno (Andrea di Bartolo di Bargilla, Castango
1421 – Firenze 1457) è lodato come grande disegnatore e come amante delle difficoltà, specie negli scorci.
Paolo Uccello (Paolo di Dono di Paolo, Firenze 1397 – 1475) è considerato gran compositore, fote nella
pittura di animali e nella prospettiva. Di Fra Angelico o Beato Angelico (al secolo Guido di Pietro Trosini,
nome da frate Giovanni da Fiesole, Vicchio 1395 – Roma 1455) si rileva la grazia e la devozione.
Brunellesco (Filippo di Ser Brunellesco Lippi detto Filippo Brunelleschi, Firenze 1377 – 1446) non è solo il
glorioso costruttore della cupola del Duomo (Santa Maria del Fiore) ma anche il battistrada della pittura e
della scultura, specialmente per quanto riguarda la prospettiva. Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi,
Firenze 1386 – 1466) è degno di essere messo alla pari degli antichi, “nella varietà pronto” e vivissimo
nell'espressione delle sue figure, che sembrano tutte in movimento.
A Ghiberti è dedicato uno spazio immeritatamente breve, e viene considerato come suo capolavoro “la porta
del Paradiso”. Il catalogo finisce con i due Rossellini. Ne fece una continuazione Francesco Sansovino nella
sua edizione (1564) del commento dantesco, che rivela uno spirito e uno stile facenti parte di un tempo
ormai mutato.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 6. L'anonimo codice miscellaneo Magliabechiano
In questo codice figura una continuazione del lavoro di Filippo Villani, Liber de origine civitatis Florentiae
et eiusdem civitatis civibus, titolata I XIV uomini singhulary in Firenze dal 1400 innanzi. Qui compaiono
otto pittori e scultori del Quattrocento: Brunellesco, Donatello, Ghiberti, Masaccio, Fra Angelico, Fra
Filippo, Paolo Uccello, Luca della Robbia, considerabili anche allora come i principali artisti del primo
Quattrocento. Questo codice proviene, come attestano numerose note, dal famoso matematico Antonio di
Tuccio Manetti. Che ne sia l'autore effettivo o soltanto un copista si vedrà in seguito. I giudizi espressi si
ricollegano strettamente al modo del Villani. Quanto alla datazione dell'opera, è pressapoco collocabile tra
gli anni di morte di Luca della Robbia, di Paolo Toscanelli (di cui si parla come già defunto, e sappiamo che
egli è morto nel 1482) e del Verrocchio (1488). Il Frey ha giustamente fatto notare come anche quest'opera
tratti soli di artisti già morti, mancando accenni ai più illustri fiorentini del tempo, come il Verrocchio, il
Ghirlandaio e il Poliziano.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 7. Ugolino Verino, Raffaele Volterrano e Camillo Leonardo
Scrive il De ilustratione urbis Florentiae libri tres, che pare dovrebbe risalire agli anni tra il 1502 e il 1512.
L'opera tratta, come da titolo, solo artisti che abbiano avuto a che fare con il contesto fiorentino. Gli artisti
fino a Leonardo e al Perugino sono designati brevemente in esametri, ma ci sono vistose lacune, mancando
artisti come Filippino, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, i Rossellino, Fra Angelico e Michelangelo.
Raffaele Volterrano e Camillo Leonardo
Il primo scrive una curiosa Antropologia (Roma 1506) che contiene un capitolo sui principali rappresentanti
della arti figurative da Giotto a Raffaello e Michelangelo. Il secondo scrive uno Specchio delle pietre, che ha
una prefazione datata 1502, che tenta di caratterizzare non soltanto gli incisori di pietre ma anche una
quantità dei più famosi artisti dell'Italia settentrionale della fine del Quattrocento, vale a dire Melozzo, Piero
della Francesca, Giambellino, Perugino, Mantegna.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 8. Michele Savonarola e l'elogio di Padova
Michele Savonarola, nonno del più famoso Girolamo, fu un eminente medico e umanista. Nel suo elogio di
Padova inserisce anche un capitolo sugli artisti del luogo, circoscritto però al Trecento. Le sue sono notizie
spesso caratteristiche ed intime, dettate da un interesse innanzitutto materiale e nazionale. Esempio ne è la
descrizione del modo in cui, durante la festa della Sensa, viene concesso alla folla l'accesso alla grande sala
del Consiglio di Venezia, di come i visitatori si accalcano avanti alla pittura di Guariento di Arpo e non
intendono smuoversi dal loro posto.
Dopo gli accenni agli artisti indigenti Guariento e Giusto, seguono i maestri “stranieri” che lavorano a
Padova, secondo una classificazione curiosa. Giotto occupa naturalmente il primo posto, in quanto colui che
per primo abbia foggiato modernae figurae dopo lo stile musivo. Il secondo posto è dato a Iacopo Avanzi di
Bologna, il terzo ad Altichiero da Verona e il quarto ad uno sconosciuto Stefano da Ferrara.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 9. Bartolomeo Facio : De viris illustribus
Nacque a La Spezia intorno al 1400 e morì a Napoli nel 1457. Di famiglia colta e agiata (il padre era notaio),
svolse la sua formazione culturale tra Verona, Firenze e Genova. Proseguì la carriera paterna ed esercitò
l’attività cancelleresca a Lucca e a Genova. Si trasferì a Napoli nel 1445 al servizio di Alfonso d'Aragona,
famoso re umanista, in qualità di segretario e di storiografo ufficiale. Scrive un libretto nomato De viris
illustribus dove tratta l'arte figurativa all'interno di una cornice più ampia, che tratta, come sarà poi abitudine
consolidata, gli uomini illustri dell'epoca assegnandoli a diverse classi, a seconda del ruolo che hanno svolto
in vita. Compaiono così gli eroi, i medici, gli scrittori e naturalmente i pittori e gli scultori. Facio si occupa
solo dei maggiori suoi contemporanei, quindi le sue notizie meritano molta attenzione e sono di parecchio
valore.
Il capitolo rispecchia innanzitutto ciò che passava all'epoca per “arte mondiale” o “arte alla moda” alla corte
di Napoli, che era il grande centro umanistico dell'Italia di allora. Sorprende il grande rilievo dato agli artisti
dei Paesi Bassi: le notizie date da Facio sono la più antica fonte scritta per la storia dell'arta primitiva di
quelle regioni, spesso vicina e congiunta all'Italia. Dei quattro pittori “classici” di Facio, Jan Van Eyck è
definito nostri saeculi pictor princeps, e da Facio deriva la nostra conoscenza di una serie di opere di Van
Eyck che allora dimoravano a Napoli e che oggi sono, purtroppo, andate perdute. Viene messa in rilievo la
bravura del fiammingo nella resa della “geometria” - cioè della prospettiva – e si parla di come abbia
perfezionato la sua tecnica dei colori grazie alla lettura degli antichi, e specialmente di Plinio.
Facio è un commentatore onesto, e si spende in descrizioni approfondite di singoli particolari delle opere da
lui direttamente osservate. Confessa anche di non voler parlare di opere di Eyck di cui non ha diretta notizia.
È da sfatare la teoria di Becker secondo la quale Vasari prese da Facio il nucleo delle sue notizie su Jan Van
Eyck.
Il capitolo su Van Eyck è preceduto da uno su Gentile da Fabriano e seguito da uno su Pisanello. Entrambi,
infatti, erano strettamente congiunti all'arte dei Paesi Bassi e stimati e ricercati in tutta Italia. Il quarto posto
è occupato da un altro fiammingo, Rogier van der Weyden, ritenuto da Facio scolaro di Van Eyck e delle cui
opere aveva potuto apprezzare la bellezza.
Le descrizioni di Facio fanno vedere quali tendenze dell'arte quattrocentesca abbiano maggiormente attirato
gli umanisti italiani della prima metò del secolo: l'arte di moda nelle corti, vale a dire quella fiamminga
antica. Il capitolo di Facio sugli scultori è molto più breve. Nomina alcuni toscani, afferma che ce ne siano
pochi veramente illustri, e di alcuni profetizza il futuro successo, come Donatello, di cui dice ad antiquorum
gloriam proxime accedere. Proprio la menzione del Gattamelata di Donatello (collocato al posto nel 1453) ci
dà un indizio prezioso per la datazione dello scritto. Con più ampiezza parla solo di Ghiberti e di suo figlio
Vittorio.
L'opera di Facuo è la prima che, in conformità dell'ambiente in cui nacque, oltrepassi il punto di vista
limitato del fiorentino e tenga conto di tutta l'Italia. È la nostra fonte più antica per la tendenza artistica non
italiana che esercitò maggiori influssi, la fiamminga.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 10. Giovanni Santi e l'epilogo della pittura
Fu rinomato e importante pittore. Nato a Urbino, è il padre di Raffaello Sanzio. Scrisse un elogio della
pittura contenuto nella cronaca in terzine delle gesta del duca Federico. Composta dopo il 1482, anno della
morte del duca, fu dedicata al di lui figlio Guidobaldo. Questa disputa sulla pittura nasce dall'ammirazione
manifestata dal Duca per le opere di Mantegna, durante un soggiorno a Mantova, definito come vessillifero
della pittura moderna (“Andrea”, dice, “porta l'insegna”). Per bocca di Giovanni Santi, il Duca addita come
classico ed esemplare lo stile del Mantegna, mettendo convenientemente in rilievo l'elemento antico e la
maestria degli scorci.
Segue un elogio della pittura, per cui vengono addotti come testimoni Plinio e Vitruvio. Posto d'onore è dato
alla prospettiva, “invention del nostro secul novo”. Segue poi la enumerazione e la sobria caratterizzazione
dei pittori illustri. Al primo posto stanno Jan Van Eyck e il suo discepolo Rogier, di cui si mette ancora una
volta in rilievo il “colorito”. È chiaro come la stima per l'arte settentrionale fosse una costante di tutto il
Quattrocento, e in particolare di Urbino, dove aveva dipinto Giusto di Gand.
Seguono Pisanello e Gentile da Fabriano, poi i Toscani, la cui lunghezza della lista mostra come già fosse
definita la scelta dei migliori (Fra Angelico, Fra Filippo, Pesello, Domenico Veneziano, Masaccio, Paolo
Uccello, Andrea del Castagno, i due Pollaiuoli, Piero della Francesca, Leonardo e Perugino, Ghirlandaio,
Sandro, Signorelli) e i pittori dell'Italia Settentrionale (Antonello, Giovanni e Gentile Bellini, Tura, Ercole
Grandi, Melozzo, che era anche personale amico di Giovanni Santi). Arriva poi il turno degli scultori:
Donatello, Quercia, Rossellino, Vittorio di Lorenzo Ghiberti, Andrea del Verrocchio, Andrea Bregno a
Roma, Antonio Riccio, Francesco di Giorgio e Ambrogio da Milano. L'elogio finisce con una tirata contro il
“secul vile” che disprezza la pittura.
L'elogio di Giovanni Santi è un documento importante, che rispecchia fedelmente le opinioni dell'arte che si
avevano in uno dei più notevoli centri del Rinascimento italiano.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 11. La biografia anonima di Leon Battista Alberti
Si è supposto che essa provenga dalla penna di un suo stretto amico. Le notizie sulle sue particolari
disposizioni d'animo, sulle sue lotte interiori, sulla sua melanconia primaverile, sulle sovreccitazioni nervose
da cui spesso era turbato, descritto come indefesso nelle sue lontane aspirazioni ma non del tutto immune
dalla posa e dalla maniera, non potrebbero far pensare altrimenti.
Questa Vita di Leon Battista Alberti parla poco della sua produzione artistica e tace della sua attività
architettonica ma fa osservazioni comunque importanti, ad esempio quando racconta che negli anni
giovanili, gravemente leso nel sistema nervoso per il soverchio studio, pur dimenticando tutti i luoghi che lo
circondavano, rimaneva in lui sicura ed acuta la memoria delle cose viste, testimonianza della sua non
comune capacità visuale. È una biografia che tenta di dare un sunto generale del carattere complessivo
dell'uomo, puntando molto sulla sua persona intima e, di riflesso, su quella artistica, ad esempio quando
parla del suo forte senso della bellezza, che spesso riecheggiava nelle descrizioni di paesaggi che inseriva
nel suo libro dell'architettura.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 12. La biografia anonima di Filippo di Ser Brunellesco
Milanesi suppose che l'autore fosse Antonio di Tuccio Manetti, famoso matematico ed espertissimo
architetto,nominato nel 1491 nel concorso per la facciata del Duomo di Firenze e che appare accanto a
Brunellesco anche nel notevole dipinto descritto dal Vasari dove Paolo Uccello ritrasse a mezza figura dei
fiorentini illustri. L'opera deve comunque appartenere ad un amico intimo di Brunelleschi, o ad un
ammiratore. Il fatto che vi sia citata l'opera dell'Alberti sull'architettura, allora conosciuta solo da pochi
umanisti, fa pensare effettivamente al Manetti, anche se egli alla morte di Brunelleschi (1446) aveva solo 23
anni. Vasari si servì di questa biografia senza citarla.
È un'opera apologetica, che fa apparire Brunelleschi come innovatore e classco, il cui influsso è normativo
ed esemplare.
Lo scritto ci porta però anche in mezzo alle lotte partigiane nate dopo la sua morte, dato che le sue grandi
costruzioni religiose erano rimaste notoriamente incompiute e avevano finito per diventare polveriere pronte
a scatenare risse. Verso i suoi successori e rivali è ingiusto, e dimostra un rancore che si rivolge anche verso
Donatello e il Ghiberti, che per molti anni fu collaboratore di Brunelleschi e dei cui meriti non si fa
assolutamente menzione. Ha uno stile fresco e popolare, animoso.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 13. Il De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti
Fatta eccezione per il Ghiberti, tra i teorici del primo Rinascimento troneggia il grande capolavoro di Leon
Battista Alberti, la raccolta in dieci volumi del De Re Aedificatoria. Nonostante i numerosi elogi dei suoi
contemporanei, la sua efficacia inizia realmente solo nel 1500. L'editio princeps dell'originale latino appare a
Firenze nel 1485, solo qualche anno dopo la morte dell'Alberti.
L'umanista suo contemporaneo Matteo Palmieri ci informa che la redazione dell'opera risale all'epoca del
soggiorno romano di Alberti alla corte di Niccolò V, al quale dovette presentare l'opera già nel 1452. Il
trattato non ebbe immediato successo tra i contemporanei, anzi, e le citazioni non numerose che troviamo
negli scritti del Filarete, del Manetti e di altri, mostrano come l'opera fosse conosciuta più per sentito dire
che per effettiva lettura.
Alberti fu definito un nuovo Vitruvio, e al De Architectura si rifà effettivamente anche nel numero di libri. I
primi tre trattano di tutto quello che è compreso nell'antico maestro sotto il nome di firmitas: scelta del
terreno, costruzione, fondazioni. I libri IV e V parlano dell'utilitas, cioè le varie sorta di edifici secondo la
loro destinazione. Il libro VI tratta la bellezza architettonica (la venustas). I libri dal VII al IX della
costruzione dei fabbricati1. Il libro X dell'idraulica2.
Nel trattatto manca totalmente un filone dedicato all'architettura militare e di fortificazione, che stava
conoscendo un sempre maggiore successo. Vitruvio fu per molto tempo noto agli eruditi medievali, ma nel
Rinascimento fu restituito alla lettura per merito di Poggio Bracciolini. Ma la prima edizione di Poggio è
comunque successiva al De Re Aedificatoria, e dell'opera di Vitruvio giravano allora solo poche e malfatte
copie manoscritte di cui Alberti si duole (allo stesso modo in cui si doleva Ghiberti della sua edizione
pliniana) parlando di inintelligibilità e brutto stile. Il rapporto Vitruvio – Alberti è costruttivo e critico.
Alberti, infatti, esercita la critica sulle regole del suo predecessore, fa delle misurazioni nella stessa Roma e
talvolta scava egli stesso fino alle fondamenta.
Particolarmente significativo è il fatto che non si rivolga alla gente del mestiere ma al grande pubblico di
educazione umanistica, come accadrà poi nel '500 per molti trattati importanti. Da qui si capisce anche la
scelta della redazione nella lingua dotta del latino. L'Alberti vorrebbe avvicinarsi all'ideale vitruviano
dell'ars liberalis, cercando passo passo di abbandonare il terreno del mestiere. Nonostante, però, la sua
evidente ambizione di diventare il Vitruvio moderno; nonostante tutta la erudizione retrospettiva di cui dà
notizia nel libro II, in cui elenca tutti gli scrittori (anche greci) di cui si è servito, è ugualmente chiarissima la
volontà di riferirsi al moderno, di voler influire per mezzo di esso.
In Alberti non troviamo più l'ingenuo “exemplare” medievale che ancora domina, ad esempio, nel Ghiberti.
Prendiamo ad esempio le norme topografiche, o l'enumerazione di luoghi dove si trova il materiale edilizio:
si manifesta spontaneo il riguardo per i rapporti locali e contemporanei; altri luoghi come quelli dove si
tratta della richiesta di prigioni umanitarie, o degli ospedali e degli altri stabilimenti di utilità pubblica,
permettono di riconoscere il toscano moderno; anche la notevolissima discussione sull'effetto paesistico
dell'edificio è totalmente moderna.
Agisce molto sull'Alberti il sentimento di unità nazionale, e già nell'introduzione parla dei “nostri antichi”
(all'interno dei quali compaiono pure gli etruschi). Il modernismo e l'orgoglio nazionale finiscono per
renderlo ingiusto verso il progresso del tempo dei suoi avi, e a questo si ricollega il suo tentativo di
latinizzare la terminologia greca che Vitruvio impiegava nel suo trattato
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte 14. Il De pictura di Leon Battista Alberti
Datato 1436, è la più antica espressione teorica del Quattrocento, anteriore anche al Ghiberti. Reca all'inizio
una dedica al Brunelleschi che esprime chiaramente lo scopo che l'Alberti persegue nel suo scritto: dare ai
contemporanei ciò di cui più sentono la mancanza in confronto agli antichi, vale a dire la regola e il sistema
delle arti figurative. Alberti, però, vuole parlare al popolo come pittore e non come matematico, anche se
tratta degli immutabili fondamenti teoretici dell'arte. Notevole è la sua confessione, nel II libro, di dedicarsi
alla pittura solo nelle ore di ozio, solo come dilettante (e Vasari dà un giudizio piuttosto negativo sull'abilità
pittorica dell'Alberti). La sua è una trattazione basata principalmente su Euclide, ma non mancano
caratteristiche di indipendenza ed originalità.
In una introduzione notevole, Alberti fa una distinzione oggettiva tra la forma presente e la forma apparente,
che va interpretata alla luce della moderna psicologia del sentimento. La prima è palpabile, stereometrica; la
seconda ottica. La forma apparente ha proprietà mutabili, subordinate alla variazione di luogo e di luce e si
riconnette alla teoria dei raggi visivi, trattata nella maniera usuale perchè non era ancora intervenuto
Benedetto Castelli, che nel 1600 la porrà su basi scientificamente moderne.
Segue un breve paragrafo sui colori che contiene qualche osservazione sottile, ad esempio quella sui riflessi
su un prato verde. Alberti distingue quattro colori principali: rosso, azzurro, verde e giallo, che vengono
posti in corrispondenza dei quattro elementi, alla maniera medievale. Contrariamente alla dottrina
aristotelica, il bianco ed il nero non sono considerati colori ma modificazioni della luce. Segue la moderna
definizione naturalistica della rappresentazione pittorica come di una sezione trasversale ottenuta mediante
la piramide visiva, che dimostra come l'Alberti sia completamente nel suo tempo e nel suo ambiente
fiorentino. È una dimostrazione condotta matematicamente con grande ampiezza, e l'applicazione all'arte
figurativa è nuova, non riconnettibile all'antichità. Kern ha provato come il Trecento italiano, specie quello
senese, aveva compiuto già dei passi in tal senso.
Alberti è ancora imperfetto nel suo metodo della costruzione prospettica e della determinazione del punto di
vista, ma il suo scritto darà principio a quella serie infinita di scritti sulla prospettiva artistica che si
protrarrano fino al Settecento. Nel II libro segue la sistematica della pittura. Anche qui Alberti è capostipite
dei numerosi sistemi della teoria dell'arte che sboccheranno nell'estetica classicistica dei secoli XVIII e XIX.
Alberti divide la pittura in tre parti: contorno lineare (circonscriptione), composizione dei piani
(compositione) e modellatura dei corpi nella luce colorata (receptione dei lumi).
Nella prima parte parla del velo, cioè dell'espediente di cui egli si vanta espressamente come autore, anche
se sappiamo che era conosciuto anche dal Ghiberti. Nella seconda parte parla della teoria della proporzione,
che trova nell'anatomia un fondamento solido e nuovo. Alberti insegna il procedimento, già in uso nella
Rinascenza (VIII – X secolo) di tracciare prima le figure nude, cominciando con una conoscenza sicura della
posizione delle ossa, dei tendini e dei muscoli, e solo dopo di rivestirle.
La terza parte parla del colorito e ha anch'essa caratteri schiettamente fiorentini. Si accentua soprattutto la
rigorosa modellatura plastica, il rilievo, per amore del quale si raccomanda la massima parsimonia nell'uso
della luce e delle ombre più intense. Anche l'armonia dei colori è tipicamente fiorentina, con un accordo di
rosa, verde e celeste. Controcorrente si rivela nel suo mettere in guardia contro le eccessive dorature pure,
che tollera solo in ornamenti e parti architettoniche di secondo ordine, a differenze dell'epoca sua, che
dell'oro puro faceva largo uso.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della critica d'arte