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- IL PENSIERO POLITICO DALL'UMANESIMO ALL'ILLUMINISMO
Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo:
Appunti utili per l'esame - Storia delle categorie politiche - Storia del pensiero politico, completa ed accurata, da Macchiavelli a Beccaria.
Dettagli appunto:
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
Indice dei contenuti:
- 1. Umanesimo e politica
- 2. Niccolò Macchiavelli e la politica
- 3. Francesco Guicciardini
- 4. Erasmo da Rotterdam
- 5. Thomas More
- 6. Martin Lutero
- 7. Giovanni Calvino
- 8. I monarcomachi calvinisti
- 9. Michel Montaigne
- 10. Etienne de la Boétie
- 11. La politica dei gesuiti
- 12. Giovanni Botero
- 13. Jean Bodin
- 14. Johannes Althusius
- 15. Ugo Grozio
- 16. Tommaso Campanella
- 17. René Descartes
- 18. Blaise Pascal
- 19. Jacques-Benigne Bossuet
- 20. François de Fénelon
- 21. Gottfried Wilhelm Leibniz
- 22. I livellatori e gli zappatori
- 23. John Milton e James Harrington
- 24. Thomas Hobbes
- 25. Baruch Spinoza
- 26. John Locke
- 27. Giambattista Vico
- 28. La filosofia dell'Illuminismo
- 29. Charles-Louis Montesquieu
- 30. Jean Jacques Rousseau
- 31. Voltaire
- 32. Diderot
- 33. Claude-Adrien Helvétius
- 34. Paul Henri Thiry d'Holbach
- 35. Anne-Robert-Jacques Turgot
- 36. Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat
- 37. David Hume
- 38. Bernard Mandeville
- 39. Adam Smith
- 40. Gaetano Filangieri
- 41. Cesare Beccaria
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Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo di Viola Donarini Appunti utili per l'esame - Storia delle categorie politiche - Storia del pensiero politico, completa ed accurata, da Macchiavelli a Beccaria. Università: Università degli Studi di Milano Facoltà: Lettere e Filosofia Corso: Storia Esame: Storia delle categorie politiche Docente: Maria Luisa Cicalese Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo Autore del libro: Antonio Zanfarino Editore: CEDAM Anno pubblicazione: 19981. Umanesimo e politica La tradizione medievale Considerare il Medioevo un blocco di tenebre e pregiudizi, dominato da un'autorità teologica costrittiva che discredita e reprime ogni altro ideale culturale e politico, è semplicistico poiché esso presenta grandi profondità di pensiero ed è ricco di fermenti che già preparano motivi propri dell'Umanesimo e del Rinascimento. Inoltre non si può dire che la tradizione aristotelico-tomistica sia stata l'unico punto di riferimento intellettuale: Duns Scoto, Marsilio da Padova e Guglielmo d'Ockham, infatti, hanno introdotto nel campo del sapere elementi volontaristici ed individualistici e hanno consentito la difesa della razionalità umana anche rispetto ai valori della trascendenza. Si può affermare che il Medioevo è attraversato da profonde tensioni e dilacerazioni e la cultura medievale ha cercato di dare sicurezza simbolica ad un mondo insicuro. Il razionalismo teologico Le stratificazioni storiche e culturali del Medioevo non smentiscono tuttavia il valore di centralità che in esso assumeva la trascendenza e la visione organica della comunità religiosa e mondana; quella medievale è essenzialmente una conoscenza teologale ed anche l'ordine politico si costituisce e si spiega in funzione di principi teocratici. Per quanto vasti fossero gli ambiti della sua applicazione, la ragione umana non poteva smentire la sua subordinazione alla fede e si sentiva soprattutto impegnata a scoprire ciò che si credeva munito di un intrinseco valore oggettivo. Nella conoscenza medievale i testi sacri erano considerati deposito della verità e non era immaginabile un disaccordo tra fede e ragione; ogni scienza dell'uomo appariva soprattutto scienza del rapporto tra uomo e verità divina. La stessa cosa vale per il concetto medievale di realismo: esso non aveva un significato di conoscenza per tentativi e di verificabilità di situazioni empiricamente determinate ma era connesso al convincimento che gli universali fossero delle realtà e non delle immaginazioni e che dovessero condizionare il sapere e costituire insieme le fondamentali connessioni dell'ordine politico. A questo intendimento del realismo si contrapponeva il nominalismo, quella corrente di pensiero rappresentata soprattutto da Duns Scoto e Guglielmo d'Ockham, che assecondava: -nel campo morale e conoscitivo il soggettivismo; -nel campo politico la separazione del potere temporale da quello spirituale; -nel campo giuridico il positivismo, cioè l'idea che la legge è posta da un atto della volontà. Il tema della esistenzialità è ben conosciuto nella religiosità medievale, soprattutto nella patristica. Le "Confessioni" di S. Agostino sono la più alta espressione di un orientamento spirituale in cui l'individuo assume in prima persona il problema della sua salvezza senza demandarlo integralmente a tutele esterne istituzionalmente. Ciò non implica tuttavia una libera e spregiudicata analisi di sé, nella ricerca di una verità da ritrovare in interiore homine come una verità umana: Agostino vuole che l'uomo analizzi se stesso non perché la soggettività è diventata l'oggetto più importante del suo conoscere ma per comprendere quanto vulnerabile sia la sua natura e quanto condizionante il problema del male, della finitezza e caduta dell'uomo. Il termine stesso "confessione" sta ad indicare non soltanto la sincera manifestazione di un proprio pensiero interiore ma, soprattutto, il dovere del penitente di porsi al cospetto di una verità divina che ispira e che sovrasta la sua stessa confessione. Questa confessione deve avere un esito ed attraverso di essa l'uomo deve Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo sapere a che cosa ricongiungersi e come situarsi nel mondo spirituale. La confessione esistenziale, così configurata, è tenuta a negare, come inammissibile atto di superbia, ogni pretesa umana di autonomia spirituale e critica dell'individuo rispetto al suo creatore. Nel Medioevo anche il misticismo era tenuto a bada dalla vigilanza del razionalismo teocratico che lo consentiva ma non ne voleva uno sviluppo tale da portare ad una soggettivizzazione della fede e della realtà. Considerazioni analoghe possono farsi anche a proposito del concetto di persona umana come elaborato del pensiero teologico e politico di S.Tommaso. Tale personalismo vuole riaffermare la dignità dell'uomo come appartenenza ad una catena degli esseri, come immedesimazione in una gerarchia dei valori; la persona umana deve includersi in un ordinamento che preesiste all'uomo ed occuparvi il posto che le spetta. Il Medioevo è preoccupato di proteggere questa idea emergente di persona entro un sistema di verità ontologiche, mentre l'Umanesimo fa valere una diversa armonia tra l'uomo ed il cosmo, una diversa alleanza fra l'individuo e la divinità, riconoscendo alla ricerca autonoma della coscienza soggettiva un suo proprio significato universale. Ordine politico e diritto naturale Il giusnaturalismo medievale presume che vi siano anche nel mondo politico regole normative sottratte alla umana competenza perché volute direttamente da Dio. In questa prospettiva la legge di natura non è soltanto espressione di imperativi morali scritti nel cuore dell'uomo, ma si riferisce anche a dei rapporti di gerarchia che devono sussistere fra le diverse comunità e fra i diversi elementi costitutivi dell'ordine sociale. Tutto questo configura un'idea di ordine sociale che non concede molto ai poteri critici ed innovativi della libertà umana e che predilige invece stabili assegnazioni e preventivate spartizioni di status e di funzioni. Ambizione del giusnaturalismo medievale è anche quella di rappresentare un principio di legalità da opporre all'arbitrio del potere politico; al rispetto della legge di natura è infatti obbligata anche l'autorità che deve essere sempre condizionata e controllata da vincoli etici e giuridici oggettivamente validi. Si può così parlare di un costituzionalismo medievale, fondato sul presupposto che la iurisdictio, cioè la legalità naturale, ha una sovranità superiore a quella del gubernaculum, cioè dell'attività potestativa. Questo giusnaturalismo sfocia in una visione organicistica e corporativa della società in cui le comunità feudali precedono gli individui e dominano le parti componenti. Religione, politica, economia, morale si trovano in uno stato di reciproca compenetrazione e costituiscono totalità armoniche, cooperanti solidalmente al bene comune. Questi principi di legalità sono tuttavia sempre esposti agli urti ed alle prevaricazioni del potere. Le essenze qualitative delle leggi di natura non si affermano da sole, non si ordinano per impulso spontaneo; occorre che qualcuno le scopra, le interpreti e le faccia valere e l'autorità ha in questo un ruolo privilegiato. Perciò l'essenzialismo politico medievale può conciliarsi con una visione autoritaria della politica. Alla stabilità simbolica del Medioevo non corrisponde una stabilità reale, sempre minacciata dai particolarismi feudali e da condizioni di insicurezza personale, sociale ed economica. Ciò che fa apparire stabile l'ordine medievale è l'assenza di alternative; tutto sembra dominato da una legge di necessità cosmica, così la critica e la contestazione diventano solo oggetto di repressione. La libertà umanistica L'Umanesimo muta queste prospettive culturali del Medioevo. Esso accerta ed insieme promuove una Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo decomposizione dell'universo come ordinatio ad unum, in cui ogni vita umana è intesa come una ascesi culminante nella inclusione in un cosmo entificato. A questa visione l'Umanesimo sostituisce l'idea che ogni vita abbia in sé una sua ragione, legittimata dall'esistenza concreta di ciascuno. Si può dire che l'Umanesimo nasce con una certa coscienza del valore morale della separatezza, vista come condizione attraverso la quale il soggetto, riflettendo su se stesso, assume migliore cognizione della propria umanità e di quella degli altri. Nell'Umanesimo vi è un'idea di partecipazione connessa all'idea dell'umanità e della filantropia. Tutto questo, però, deve essere preparato da un affinamento della coscienza personale, possibile se ciascuno assume coscienza della propria dignità, la quale non deriva solo dall'adesione dell'uomo a dei valori eterni ma soprattutto dal fatto che l'individuo si assume la responsabilità della propria realizzazione umana. Nel farsi libero dell'uomo emerge quel senso della virtù che non è, come l'intenderà Machiavelli, forza ed astuzia ma bontà feconda ed operosa. Virtù umana è saper reggere le proprie responsabilità, elevando a nuova dignità il lavoro, fondamento di quelle "buone e sante discipline del vivere" con le quali si riesce a padroneggiare la fortuna ed a regolare i condizionamenti esterni. La vita dell'uomo diventa dunque nell'Umanesimo il principale oggetto della conoscenza umana e prelude ad una valorizzazione dell'umano ovunque esso si manifesti. L'Umanesimo sente l'insufficienza di quelle litterae divinae, cioè di quella cultura puramente teologica e teocratica che dominava la grammatica, l'etica, la retorica, la filosofia ed il sapere naturalistico e che pretendeva di tradurre i valori assoluti della trascendenza in ordine politico ed in gerarchie sociali. Il distacco dalla religiosità medievale non significa tuttavia discredito dei valori religiosi; è piuttosto esigenza di svincolare la fede dalle costrizioni e dagli anatemi e renderla più pacata, rasserenata, meglio conciliata con le vocazioni di coscienze personali aperte e tolleranti. L'uomo dell'Umanesimo si considera munito di quel coraggio teorico e pratico necessario a controllare gli impulsi inferiori e le passioni devastatrici. Spetta all'uomo continuare nella storia, con le sue risorse spirituali e pratiche, la creazione di Dio; aspirazione questa che non è distruzione o disprezzo del legame con la divinità ma fondamento di una nuova alleanza fra il mondo e la trascendenza. L'Umanesimo non ha paura che l'uomo si esprima attraverso personali valutazioni critiche e scelte morali; questo è anche il significato dell'arte figurativa dell'Umanesimo e del Rinascimento. L'uomo non è più l'essere che si nasconde quasi per non far vedere il suo volto umano, che si consuma nella penitenza, che guarda soltanto al suo destino celeste trascurando ed umiliando la dimensione terrena. L'uomo sa di esporsi, con il suo libero arbitrio, a tensioni e contraddizioni ma sa anche apprezzare l'intima ricchezza della sua condizione umana e vedere il dubbio e l'incostanza del suo pensare e del suo agire non più come limite inesorabile della sua finitezza ma come segno distintivo del suo valore. La cultura umanistica esalta la simmetria, la proporzione e l'armonia delle cose ma questi principi sono diversi da quelli che il Medioevo costruiva in riferimento ad essenze prestabilite. Nell'armonia umanistica la libertà non è strumento di peccato e munisce l'uomo di quel potere supplementare che è il potere della conoscenza sul pregiudizio, della responsabilità sull'irresponsabilità, della mediazione sull'immediatezza. Nella ricerca di questa armonia rientra la rivalutazione della vita mondana contro le negazioni dell'ascetismo. L'armonia dell'Umanesimo deve essere prima di tutto armonia dell'anima, risultante non dalla repressione di ciò che non corrisponde ad astratte misure di perfezione morale ma prodotto di una ragionevole composizione di spirito e natura, di spontaneità e di riflessione, di virtù e di passione. A sua volta questa simmetria che l'uomo realizza nel suo microcosmo spirituale è considerata Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo carattere di tutto l'universo e questo universo può legittimamente diventare oggetto di una libera ricerca dell'intelligenza. Di qui una rinnovata competenza umana a penetrare i segreti della natura perché l'uomo è fatto della stessa materia con la quale è stato costruito il cosmo. Ciò spinge l'Umanesimo a prendere le distanze dalla tradizionale fisica di Aristotele, denunciata come matrice di conformismo intellettuale. Gli Umanisti sono invece più inclini a riscoprire ed a valorizzare Platone che, nel ‘400 e nel ‘500, veniva visto più che come filosofo del sistema chiuso, come l'antesignano di tutte le aperture critiche e di tutte le possibilità di intesa e di convergenza. Il naturalismo umanistico e rinascimentale ha certo delle componenti più ambigue, come la cabala e la magia, ma questi interessi derivano dalla presupposizione che Dio avesse disegnato l'universo attraverso proposizioni matematiche. Questo diverso intendimento della individualità e della natura modifica le idee del tempo e dello spazio: -il tempo diventa umano e può essere fatto proprio dagli individui che lo sappiano impiegare in attività positive; -lo spazio non è più inteso come porzione prestabilita del cosmo ma come luogo di convergenza di attività umane e perciò suscettibile di essere continuamente indagato e valorizzato. Lo spazio umanistico non è lo spazio chiuso del Medioevo; è uno spazio aperto che si può di continuo arricchire in senso culturale, sociale ed economico e, come l'uomo si educa a varcare le soglie della sua interiorità e a dilatare lo spazio della sua coscienza, così si educa a varcare spazi fisici e geografici prima sconosciuti per esplorarli e padroneggiarli. Il ritorno umanistico alla cultura classica è da intendere come affinamento critico volto a smentire l'assolutismo e l'immobilismo della cultura medievale. Questo interesse per il passato non esprime l'atteggiamento retrogrado di un pensiero che, incapace di affrontare le sfide del presente, situa la sua età dell'oro in un tempo lontano. Non si tratta di una fuga dalla realtà ma di un atto di audacia intellettuale con il quale si riconosce che anche il mondo pagano sapeva dire cose significative sull'uomo, sulla sua libertà, sulla sua sapienza, sulla sua virtù, sulle sue leggi morali e politiche e con il quale si afferma che la divergenza delle opinioni e delle dottrine alimenta la libertà della coscienza e dell'intelligenza. Nel Medioevo il mondo classico veniva prevalentemente visto come preparazione al trionfo del Cristianesimo ed assumeva quindi una funzione strumentale. Si afferma con l'Umanesimo l'idea di una nuova scienza del passato in cui la filologia è chiamata a riportare alla luce quanti più materiali possibile, considerandoli nel loro giusto valore, interpretandoli per quello che dicono, liberandoli dalle manomissioni e deformazioni subite nei secoli, ripristinandoli nella loro autenticità, rinunziando a servirsene per fini estranei al sapere critico. L'Umanesimo con questo nuovo stile di pensiero e metodo di lavoro, che faceva della filologia il fondamento della conoscenza storica, non ritorna al passato per contrapporre valori antichi a quelli moderni ma per saggiare la qualità di ciascun valore nei propri tempi e nelle proprie situazioni, per ribadire la competenza dell'uomo a padroneggiare criticamente le sue esperienze temporali. L'Umanesimo e lo stato Il passaggio dall'universalismo teocratico al riconoscimento del valore delle autonomie individuali e il diverso intendimento del lavoro creativo che soppianta il simbolismo della vita ascetica, hanno certo una loro fondamentale incidenza anche nella concezione della politica e della vita civile. La libertà moderna è nata dall'Umanesimo e si appoggia sull'etica umanistica della dignità e della responsabilità personale. Si deve riconoscere, tuttavia, che alla grande stagione di vita culturale non ha corrisposto nell'Umanesimo Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo un'altrettanto felice stagione di rinnovamento politico. Permane in esso una contraddizione non risolta fra lo splendore delle sue conquiste artistiche, filosofiche, scientifiche e gli aspri contrasti di sette e fazioni che degradavano la vita civile, specie in Italia. Il programma politico dell'Umanesimo non è stato all'altezza delle sue prospettive culturali. Nel periodo dell'Umanesimo si manifestano in Europa, ma non in Italia, profondi rivolgimenti politici dovuti al formarsi degli stati nazionali. Questi rivolgimenti sono più importanti in Francia ed in Spagna dove si assiste ad un progressivo accentramento della sovranità nella monarchia. Tutto ciò che la monarchia in quei paesi ha conquistato attraverso scambi di carattere feudale viene trasformato ed assume i caratteri di una sovranità personificata dallo Stato, istituzione politica sconosciuta nel Medioevo. Lo Stato diventa il rapporto politico dominante e mette in posizione di dipendenza e di derivazione l'insieme degli altri rapporti e delle altre lealtà sociali. Questo fenomeno non si manifesta in Italia che rimane divisa in diverse entità politiche rivali, in grado di porsi reciprocamente dei veti ma non di costituire quella autorità comune necessaria per opporsi alle invasioni e dominazioni straniere e per suscitare una coscienza nazionale. La cultura e la politica Nel dibattito sulla superiorità della vita attiva o di quella contemplativa la maggior parte degli Umanisti sostenne la superiorità etica del vivere civile ed i vantaggi della sintesi fra attività politica ed attività del pensiero. Non mancano comunque degli Umanisti che, pur avendo parte attiva nella vita civile, sembrano volersi ritrarre da compromissori politiche troppo impegnative. Così Leon Battista Alberti vede la virtù, per il suo tempo, connessa soprattutto alla cura degli affari domestici: meglio garantirsi una sfera di vita relativamente appartata in cui coltivare il proprio otium o il proprio negotium senza interferenze troppo pressanti da parte del potere e senza partecipazioni troppo attive alle lotte delle fazioni. Esaltazione dell'operosità, vista però al servizio di intraprese economiche in grado di accrescere il patrimonio familiare e con esso le opportunità di una vita più agiata e relativamente al di fuori di più rischiose occupazioni politiche. Sembra così che l'Umanesimo fermi le sue capacità di rinnovamento alle soglie del potere e che, non disponendo di strumenti adatti a modificarlo, si volga ad altre attività sociali ed economiche più facilmente padroneggiabili. Chi penetra negli arcana imperii e modifica radicalmente l'intendimento della fenomenicità politica è Machiavelli ma la sua analisi realistica è improntata ad un pessimismo antropologico che non può certo considerarsi la sintesi dei valori umanistici. Vi è però un altro filone dell'Umanesimo, non particolarmente presente in Italia, che si sente impegnato a trasferire nella politica quei danni umani ed esistenziali scoperti e valorizzati in altri campi del sapere e dell'agire umano. Per alcuni autori (Erasmo da Rotterdam, Thomas More) la Renascentia non deve rimanere solo un fatto di cultura ma deve esercitare anche nei confronti del mondo politico la sua funzione critica e di orientamento ideale. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 2. Niccolò Macchiavelli e la politica L'autonomia della politica Machiavelli può considerarsi umanista perché nel suo mondo intellettuale il protagonista è l'uomo con le sue passioni ed i suoi interessi ma il suo realismo, i criteri con i quali analizza i comportamenti individuali e collettivi e gli strumenti con i quali intende regolarli non sono quelli degli altri Umanisti. Più della cultura delle bonae litterae e degli interessi mercantili, ciò che lo appassiona è lo studio dei meccanismi complessi della politica, visti anche nella loro fondamentale incidenza sulla vita culturale ed economica. Universalismo e realismo La politica non è tuttavia per Machiavelli rappresentazione di un ordine architettonico prestabilito: egli considera anacronistica la visione della politica come sistema di equilibri e di proporzioni stabili al servizio di un bene pubblico determinato ed è incline a pensare che verità politiche intese come essenze qualitative prestabilite non siano mai esistite. I valori sacralizzati del diritto naturale possono influenzare i comportamenti umani ma solo se un'autorità superiore sa farli valere; senza di essa non vi sono leggi di natura capaci di stabilire rapporti necessari fra le cose e di legittimarli metafisicamente. Talvolta Machiavelli si riferisce al "bene comune" ma non lo vincola ad un sistema di verità eterne e lo considera come la risultante di una dinamica di interessi; la nozione di bene comune non è dunque precostituita e la sua formazione soggiace al gioco della virtù, della fortuna e della necessità. Machiavelli ambisce a sostituire la respublica christiana con una respublica umanistica fondata e garantita dalla forza persuasiva di idee culturalmente superiori. Non è con atteggiamenti spirituali distesi, prudenti e distaccati che si riesce a fare ordine nell'intrigo dei fenomeni sociali; il controllo della realtà è più difficile del controllo delle idee e la politica sbaglia se crede di potersi ridurre a strumento di applicazione di un disegno culturale. L'immaginazione politica che Machiavelli fa oggetto della sua riflessione non è quella rivolta alla ricerca di valori e di leggi universali ma è quell'arte ideologica di cui si vale il principe per camuffare le cose, per farle apparire agli altri diversamente da come sono in modo da influenzare meglio i comportamenti delle controparti ed assoggettarli al suo volere. Anche se manca la parola, vi è in Machiavelli il concetto di ideologia come arte delle dissimulazione. E' dannoso ad un principe avere ed osservare sempre delle virtù etiche ma è conveniente che finga di averle per colpire la fantasia del popolo e per accrescere, attraverso la manipolazione dei fatti e delle idee, i suoi poteri di controllo sulla realtà sociale. Vi è quindi nella teoria politica di Machiavelli un netto mutamento di prospettiva rispetto alla vecchia trattatistica politica volta a conciliare virtù morali e politiche in un sistema dove trascendenza, natura e società cooperavano per la costituzione di stabili equilibri sociali e normativi. Tale stabilità è considerata da Machiavelli puramente fittizia. Le leggi del potere Il crudo realismo di Machiavelli deriva anche dalle tormentate condizioni politiche del suo tempo, in cui ogni possibilità di equilibrio e di sviluppo civile della sua patria gli sembra frustrata dalle insanabili Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo divergenze degli stati italiani e dalla loro rovinosa politica di sollecitare gli interventi francesi, spagnoli e tedeschi, rendendosi così preda delle loro ambizioni espansionistiche. C'è in Machiavelli la consapevolezza della gravità di questo stato di cose, la cui massima responsabilità egli fa risalire alla Chiesa. Si può dire che Machiavelli veda la politica come un campo aperto di possibilità in cui i protagonisti si muovono secondo la logica dei loro bisogni e delle loro utilità particolari. Il primo compito di una scienza politica nuova è perciò la valutazione realistica delle forze in campo che non è chiuso e predeterminato perché nuovi elementi possono entrare in gioco ed altri possono uscirne. La politica è quindi all'insegna della mutabilità dei rapporti e degli equilibri e la natura dei popoli è varia, come vari sono i moventi dell'azione umana. Per lui l'individuo è dominato soprattutto dagli impulsi naturali che lo sospingono alla ricerca del potere e quindi all'assoggettamento degli altri e delle cose al suo volere. Gli appetiti umani sono insaziabili e poiché è dato agli uomini desiderare tutto ma ottenere poco, ne risulta un'inevitabile situazione di antagonismo e di conflitto. Bisogna perciò conoscere ed accettare il mondo politico quale esso è, un mondo di forze e di volontà animate da un continuo antagonismo potenziale o reale. E'necessaria per questo una valutazione realistica delle forze contendenti ed un accertamento esperto delle ripercussioni che lo spostamento di ogni elemento comporta nell'intero ambito di situazioni. La virtù politica La conoscenza politica implica virtù ma la nozione di virtù muta i suoi caratteri tradizionali: essa non consiste nella disposizione dell'uomo al bene, alla mansuetudine, alla benevolenza, all'etica del perdono. La virtù in senso cristiano poco si addice alla politica e affidarsi ad essa significa non fare il bene del popolo e garantire la ricchezza della nazione, bensì predisporsi ad essere travolti da forze reali. Per la conoscenza e per l'azione politica occorre un altro tipo di virtù ed è lo sguardo lucido e deciso che l'uomo politico sa gettare sulle cose che lo circondano per valutarle nelle loro effettive potenzialità, è il suo atteggiamento disincantato che gli consente di conoscere le cose come stanno e non come dovrebbero essere e di valutare gli uomini. La conoscenza politica serve per agire ed i suoi precetti devono valutarsi in base alla loro applicabilità e alla loro efficacia pratica. La politica non è solo una scienza concettualizzante, è anche e soprattutto un'arte che deve sempre misurarsi con le situazioni reali e che dipende dalla "fortezza d'animo" delle singole personalità che devono comandare e farsi obbedire. La ragione di stato La politica è anche ragione di stato. Questa espressione, usata talvolta da Guicciardini e divulgata soprattutto da Giovanni Botero, non c'è in Machiavelli ma c'è pienamente il suo concetto, cioè l'affermazione che l'azione politica misura la sua razionalità sulla sua capacità di raggiungere i fini che il potere si propone. La ragione deve essere anche ragionevolezza, valutazione di ciò che si può fare per non inasprire le tensioni e i conflitti, calcolo realistico di ciò che è necessario. Un certo senso del limite deve caratterizzare l'azione politica ma la ragionevolezza come persuasione intellettuale e come fiducia nella mediazione e nella cooperazione spontanea non basta alla politica, la quale ha il suo carattere fondamentale nella forza e nella decisione ad usarla. La forza che serve alla politica, tuttavia, esige anche calcolo e ponderazione. Dove è possibile le lotte politiche devono essere combattute in modo umano, cioè con le leggi, ma dove non è Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo possibile subentra la natura animale del potere e quando il potere manifesta la sua animalità, deve saper essere volpe e leone. Questa virtù politica, combinazione di legge e di forza, di astuzia e di violenza, di calcolo e di brutalità, non basta però a prevedere e a controllare tutto: c'è la presenza di elementi imponderabili che costituiscono ciò che Machiavelli chiama la "fortuna". Bisogna cercare di intravedere i segni della fortuna, profittarne quando essa sembra volgersi a nostro favore e cercare di fare rientrare la sua volubilità nel sistema delle nostre convenienze. Al concetto di virtù e di fortuna Machiavelli aggiunge anche quello di necessità: ciò che l'uomo fa, non lo fa interamente per libera scelta ma anche perché è necessitato ad agire in un certo modo. L'azione umana non è indipendente ma si muove in relazione ad un insieme di specifici dati vincolanti. La necessità è espressione del determinismo sociale che tuttavia non priva l'uomo della sua possibilità di iniziativa e di scelta. L'ordine politico C'è una "comune utilità del vivere libero" in uno "stato libero" istituito per difendere i cittadini dalle minacce della paura e della discriminazione ma non è questo l'orientamento complessivo del pensiero di Machiavelli. La politica di Machiavelli persegue un'altra finalità essenziale che è quella di fondare uno stato, di costituire un ordine politico personificato da un potere centrale in grado di esercitare una influenza egemonica sulle parti sociali. Il problema preliminare della politica è drastico: si tratta di trovare degli strumenti efficaci per passare da uno stato di conflittualità incontrollata ad un ordine normativo la cui coerenza e stabilità si fondi sull'azione cosciente e deliberata di un potere in grado di opporsi alle tendenze disgregatrici. La politica è personificata soprattutto dalla virtù del principe, la cui sovranità è necessaria al passaggio dall'anarchia ad uno stato di sicurezza sociale. Nel realismo politico di Machiavelli vi è un certo riconoscimento della libertà creativa degli individui e delle forze collettive ma questo non basta a modificare il suo pessimismo sulla natura dell'uomo e sui limiti della spontaneità sociale. Nessun ordine sociale spontaneo può sussistere se non nell'ambito e sotto l'egemonia di un ordine politico costruito. Questa esigenza gli sembra ancora più assillante in Italia, il cui stato di sfaldamento morale e di liquidazione politica richiede la creazione di un potere sovrano capace di dare consistenza strutturale e qualitativa ad una comunità nazionale. Al pessimismo sull'uomo si accompagna così un certo ottimismo sulle capacità creative del potere e sulla sua idoneità a convertire la forza e l'astuzia da strumenti per l'appagamento di impulsi inferiori in strumenti al servizio di scopi politici positivi. La ragione di stato non può ispirarsi a modelli idealistici, non può perseguire solo le leggi della morale e neppure può rispettare sempre i patti che ha sottoscritto. La slealtà, l'inganno, la menzogna e la dissimulazione rimangono mezzi imprescindibili dall'azione di governo. L'ultimo capitolo del Principe è un inno alla possibilità che un nuovo "redentore" liberi l'Italia dal "barbaro dominio" e la costituisca come una nazione dotata non solo di una comune identità culturale, ma anche di una comune organizzazione politica e statale. Machiavelli sente che per questo impegno occorre l'azione di una forza politica perseverante, intelligente e decisa ad applicare nella politica i metodi del realismo e non quelli dell'immaginazione. Società e governo In questa prospettiva realistica bisogna consapevolmente accettare la costante relazione che deve sussistere Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo fra la politica e la potenza militare: la guerra non è vista da lui come dannazione dei popoli ma piuttosto come matrice di virtù civili, come educazione alla fermezza ed alla fierezza del carattere dei cittadini. Anche su questo tema Machiavelli cerca un riferimento qualitativo, opponendosi decisamente all'impiego di milizie mercenarie e perciò l'organizzazione militare deve fondarsi sulla partecipazione popolare nell'ambito di comuni valori nazionali e di comuni finalità politiche. Non mancano quindi nel realismo di Machiavelli anche delle tensioni ideali che dovrebbero appunto impedire al potere di presentarsi solo come una maledizione che incombe nella vita umana e sociale e che gli uomini devono sopportare. Dispotismo e libertà Il pensiero di Machiavelli ha tuttavia conosciuto anche altre interpretazioni che hanno fatto di lui il teorico della critica nei confronti del potere. Questa interpretazione si è diffusa soprattutto nel periodo dell'Illuminismo, così come l'esaltazione del suo patriottismo ha potuto affascinare certe correnti del Risorgimento che hanno visto in lui l'antesignano dell'unità nazionale. L'Illuminismo considera Machiavelli come il fondatore di idee repubblicane e giudica la sua teoria più utile alla tutela della libertà dei popoli che non al dominio dei sovrani (interpretazione accreditata da Diderot e Rousseau). Non quindi un Machiavelli esempio di scelleratezza e immoralità ma un Machiavelli che descrive realisticamente le infamie del potere. Si può riconoscere che egli avverte come il potere abbia in sé una sua contraddittorietà: stabilisce un rapporto con gli altri ma al contempo li priva della loro sostanziale autonomia. E' dato perciò agli uomini ragionare sulla loro obbedienza e cercare ciò che di ragionevole ed irragionevole, di tollerabile e di intollerabile c'è nell'esercizio del potere. Il potere ha sempre bisogno di giustificarsi; ci sono tante giustificazioni del potere (antidoto all'anarchia, condizione dell'unità politica nazionale, strumento di giustizia sociale, predisposizione di difese nei confronti del mondo esterno,…) ma ogni sua giustificazione diventa contraddittoria se non è più accettata e condivisa. Si può considerare anche un'altra ipotesi interpretativa: Machiavelli, vivendo in un ambiente di grande civiltà culturale, intendeva con la sua realistica analisi del potere non solo cercare un rimedio ai rischi di decadenza politica della sua patria, ma anche proseguire l'analisi realistica dell'uomo iniziata dall'Umanesimo. Se le regole del potere teorizzate da Machiavelli vengono fatte proprie dalla ragione di stato delle grandi formazioni nazionali, diventano uno strumento di cui il dispotismo si vale senza mediazione umanistica e senza responsabilità, snaturando i fini della politica e compromettendo i valori della libertà umana. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 3. Francesco Guicciardini L'individuo e la politica Il realismo politico di Guicciardini prosegue quello di Machiavelli ma rivela un diverso spirito critico ed una diversa sensibilità morale e sociale. La meditazione di Machiavelli convergeva verso uno scopo fondamentale, lo stato, la patria, cui egli attribuiva un significato universale che gli consentiva di superare e perfino di non avvertire con particolare turbamento le contraddizioni fra politica e morale. Sembra che l'individuo, piuttosto che lo stato e la patria, sia il punto di riferimento di Guicciardini. Egli si pone il problema di conoscere che cosa la politica rappresenta per l'individuo: stato e patria possono presentarsi come degli ideali universali ma l'individuo rimane l'essere più concreto e più sensibile della realtà. I giudizi di valore sulla politica sono quindi da Guicciardini affidati soprattutto all'esperienza esistenziale dell'individuo, considerato nella sua particolarità ed originalità. La soluzione proposta da Machiavelli di risolvere lo stato nella persona del principe e di presentare questa unificazione come canone di individualizzazione e insieme di universalizzazione della politica (il principe è un individuo dotato, tuttavia, di una sua potenzialità politica universale) non è accettata da Guicciardini, il quale non vuole confondere né lo stato con l'universale concreto, né il principe con l'individuale universalizzato. Città, stati, regni non sono per lui realtà eterne ma realtà mortali e la vita delle formazioni sociali deve essere sempre confrontata con la vita degli individui. Nella dinamica delle sue forze impersonali la politica si presenta come una "machina mondana" che ci distrae dai nostri assilli esistenziali ma essa non è tutto e non può condizionare radicalmente l'uomo fino a portarlo alla rinuncia del proprio particulare. Teoria e pratica C'è sempre uno scarto fra il disegno e la realizzazione e questo scarto si manifesta in politica: non vi è sistema, per quanto metodicamente elaborato e controllato, che possa impedire l'insorgere di un caso che è fuori da quelli presupposti. Sul problema del bene e del male nei singoli individui e negli stati Guicciardini tiene conto dei giudizi di Machiavelli, riconosce quanto di plausibile e di realistico essi contengono ma non li ratifica in tutte le loro illazioni e conclusioni. Il principio machiavelliano di una natura statica della condizione umana sembra accolto anche da Guicciardini ma più consono alla sua mentalità complessiva sembra essere il riconoscimento che "d'età in età si mutano la cultura e i gusti" ed anche una certa fiducia nelle potenzialità qualitative del futuro. Guicciardini sembra dar prova di una sensibilità morale che corregge il pessimismo antropologico di Machiavelli, anche se non lo smentisce; egli non ritiene che l'individuo sia sinonimo di egoismo bensì ritiene che "gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male", tuttavia la natura dell'uomo è fragile, le tentazioni sono innumerevoli e tutto ciò porta l'uomo a deviare verso il male o verso l'indifferenza e l'inconsapevolezza morale. Le ambiguità del potere Per Machiavelli la virtù politica è il massimo dispiegamento delle potenzialità umane; per Guicciardini il potere presenta anche aspetti lesivi di importanti valori e bisogni umani. Tutti desiderano il potere ma esso rivela molestie, fatiche, inquietudini, invano compensate dal fasto delle appariscenti grandiosità. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo Guicciardini ammette, con realismo altrettanto consapevole di quello di Machiavelli, che nella politica non vale solo la volontà buona e l'intenzionalità eticamente orientata. La sua conclusione è sconsolata come quella di Machiavelli: la "ragione degli stati" e l'"uso degli stati" sono cose diverse dalla ragione e dai comportamenti della moralità comune. Governare significa anche pensare all'esistenza di uomini cattivi da disciplinare con adeguati apparati coercitivi. E' male essere governati da chi non sa governare ma chi non sa governare non è colui che ha ripugnanza a praticare le forme più aspre del dominio, è soprattutto chi non comprende che l'autorità deve essere sempre "limitata e accompagnata" dal prevalere di leggi che si articolino in istituzioni superiori alla figura stessa del principe. Il complessivo giudizio di Guicciardini è che la politica debba evitare sollecitazioni troppo brusche e che non debba fomentare crisi irrecuperabili. La logica del potere è sempre avvolta di segretezza ed è bene che certe cose non si sappiano ma non è positivo che tra il "palazzo"e la "piazza" vi sia un muro. Il tributo dovuto agli arcana imperii non impedisce a Guicciardini di denunciare le degenerazioni politiche provocate da quell'abuso di simulazione che toglie credibilità all'azione di governo. I buoni ordini Il costante riferimento al particolare non sminuisce, tuttavia, in Guicciardini il valore delle sue idealità politiche e non lo distoglie dal riproporre la validità del suo modello di regime politico, espressione di un liberalismo temperato. Tre sono le cose più di tutte vorrebbe vedere realizzate e che, per lui, costituiscono i principi ispiratori di una politica moderna: 1) una libertà ben garantita; 2) l'indipendenza nazionale; 3) la laicità dello stato. La sua concezione politica e chiede che le istituzioni assecondino processi di selezione di élites competenti. Lo "stato libero" va ordinato, non deve essere un'astrazione, una forma vuota, né deve fomentare errori e disordini. Il compito fondamentale del governo libero e popolare è quello di opporsi al dispotismo ma la lotta alla tirannia esige che, insieme all'autorità del sovrano, sia limitata e controllata anche la "licenzia populare". Il perfezionismo popolare e democratico guasta la libertà e la "guardia" di quest'ultima è connessa alla temperanza ed alla moderazione; argini e contrappesi opportunamente dosati devono valere sia nei confronti del principe, sia nei confronti del popolo. Guicciardini riconosce che "libertà non vuol dire altro che giustizia ed equalità" ma non deve ripugnare l'accettazione di distinzioni e di differenziazioni tra i cittadini e il diverso impiego pubblico delle loro competenze e dei loro meriti. Lo stato non può pretendere di eliminare sempre il malcontento ma deve almeno cercare di non portare i cittadini alla disperazione. Il particolare e le obbligazioni politiche Seguace di Machiavelli, Guicciardini ne è anche il critico: il metodo di Machiavelli di riferirsi alla storia ed all'esperienza viene accolto ma la tensione ideale per riportare la politica a modi più umani e benefici è più intensa. Il particolare di Guicciardini non sfocia nell'apologia del privato ma esprime la consapevolezza di una forza storica e morale, come appunto quella dell'individuo, che rivendica all'interno dello stato una autonomia non inferiore a quella che lo stato di Machiavelli rivendicava nei confronti dei suoi tradizionali condizionamenti. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 4. Erasmo da Rotterdam L'idea umanistica della politica Il pensiero di Erasmo rappresenta un filone di riflessione umanistica che si discosta profondamente, fino a costituirne l'antitesi culturale e politica, dalle idee di Machiavelli. C'è in lui il netto rifiuto di una teoria e di una pratica accentrate sulla ragione di stato e sugli interessi della politica di potenza. Erasmo sente intensamente la suggestione delle idee umanistiche ed in particolare di quelle dell'Umanesimo italiano ma queste rinnovate forme di cultura e di conoscenza devono essere per lui anche responsabilità a lavorare per il bene di una cristianità rigenerata che dovrebbe diventare sinonimo di umanità riconciliata. Erasmo è un intellettuale che pensa e si comporta come cittadino del mondo, cercando di umanizzare tutto attraverso l'educazione, la ragione ed il sapere e ponendo le idee della moderazione, della tranquillità, del benessere, della tolleranza, della pacificazione al posto dei valori più duri. Il suo tentativo di instaurare un dialogo positivo fra il mondo intellettuale e quello del potere ha certo conosciuto uno straordinario successo personale e la sua influenza intellettuale non ha avuto uguali nell'Europa del suo tempo. Ascoltato dall'imperatore, dal papa, dai principi (fu precettore del futuro Carlo V), ebbe contatti intensi con tutti gli ambienti umanistici e le sue opere ebbero grande diffusione. L'impegno di conciliazione e di sintesi di Erasmo, malgrado il suo successo personale, non è riuscito ad avere ragione delle opposizioni e delle contraddizioni che avrebbero caratterizzato le vicende religiose e politiche europee ma ciò non toglie che egli abbia alimentato un fermento ideale, rimasto nella vita culturale europea come simbolo di tolleranza e come visione pacifica ed umanistica della storia. Lo spirito di tolleranza La mentalità di Erasmo è educata al senso filologico, secondo la grande tradizione umanistica italiana; non si tratta però di un filologismo fine a se stesso: applicato soprattutto all'interpretazione dei testi sacri, tale metodo filologico intende contrastare le ortodossie conservatrici per favorire possibilità di revisioni spirituali e politiche. Egli rifiuta l'estremismo in tutti i modi in cui esso possa presentarsi (religioso, intellettuale, politico) e ciò che soprattutto lo attrae è lo spirito di mediazione e di tolleranza; il suo intendimento è quindi di comportarsi da dialettico, pronto a ricevere da chiunque una dottrina più corretta e meglio definita. Le bonae litterae devono per lui rappresentare soprattutto l'inesauribile repertorio culturale della ragionevolezza e del dialogo contro il pregiudizio e l'arbitrio. Il difetto che si può vedere in lui deriva dalla sua insistente tendenza ad evitare riscontri troppo duri, a non partecipare in modo totale. Nel momento dell'esplosione dello scisma religioso della Riforma egli si disimpegna e si dimostra anzi decisamente ostile alla spaccatura del Cattolicesimo. A trattenerlo nella Chiesa madre era il suo convincimento profondo che lo scisma religioso non si sarebbe limitato solo a dispute teologiche ed avrebbe provocato conflittualità sociali e dilacerazioni politiche nelle nazioni europee. Le guerre di religione si presentavano ad Erasmo come la conseguenza funesta di queste dispute in cui ragioni teologiche, politiche e nazionalistiche si sarebbero mescolate. Egli vedeva così nell'opera di Lutero una minaccia per valori essenziali della civiltà europea. Quale che fosse la validità dei motivi della protesta, che largamente Erasmo condivideva, essa avrebbe dovuto svolgersi in altro modo, senza compromettere quella unità religiosa da lui considerata come sostegno Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo e garanzia di un rinnovamento dello spirito pubblico europeo. Era stata la religione che nel passato aveva rappresentato il tessuto connettivo dell'Europa e tale patrimonio di valori doveva essere trasformato secondo i principi umanistici. La fede e la ragione La maggior parte delle opere di Erasmo sono di carattere religioso e teologico e vagheggiano un ritorno allo spirito del Cristianesimo evangelico fondato sulla semplicità dei valori e su un rapporto più diretto fra l'uomo e la Rivelazione. Per questo egli protesta contro la burocratizzazione che rischia di trasformare la Chiesa in un apparato di potere ma egli contesta alla Chiesa anche la sua ostinazione a deprimere bisogni umani leciti, utili e necessari ed a chiudersi in una visione del Cristianesimo troppo severa e tetra, troppo incline alla penitenzialità, alla rinuncia, all'esasperazione del male e dell'espiazione. Fondamentale esigenza di Erasmo è così la ricerca di una riconciliazione della Chiesa con l'Umanesimo e della conoscenza con la fede, nel convincimento che Umanesimo e religione non siano due polarità e non costituiscano un'alternativa: né la religione deve svilire e compromettere la libertà umana, né questa deve oltraggiare i valori profondi della spiritualità. La ricerca di una conciliazione tra fede e ragione rappresenta una preoccupazione tradizionale della dottrina cristiana. Quella del cristiano deve rimanere una coscienza aperta e senza libero arbitrio lo stesso problema della salvezza perde il suo significato spirituale. Dio ha posto l'uomo in questo mondo come "una replica di se stesso" e lo vuole due volte libero: per decreto della natura e per le leggi umane. Estraneo per tanti aspetti allo spirito medievale ed ai suoi valori organicistici e corporativi, Erasmo sente l'esigenza di incoraggiare quella "varietà ammirevole" delle attività umane che tanto contribuisce alla utilità sociale, così come cerca di evitare ogni forzosa ascesi dell'anima sul corpo. Il Cristianesimo non deve troppo screditare la tendenza dell'uomo a procurarsi dei vantaggi che siano fruibili anche in questa terra; non vi è incompatibilità tra la fede e la naturale disposizione dell'uomo al soddisfacimento dei bisogni leciti che rendano la vita più distesa e rasserenata. Il Cristianesimo è per Erasmo un grande sistema di moderazioni, una regola di equilibrio e di contemperamento e, perciò, tutto ciò che è più armonico e più aperto alla comprensione dei fini reali della vita può essere valorizzato e tutelato dalla fede cristiana che non richiede pratica artificiale di virtù sublimi, grandi misticismi, ascetismi e privazioni. La critica di Erasmo a certe ortodossie ristrette e cristallizzate si basa su una revisione filologica dei libri sacri, volta a dimostrare che testi sui quali la Chiesa legittimava certi precetti troppo costrittivi e punitivi non erano originali ma manipolati e come tali non dovevano costituire oggetto di obbedienza passiva. Un'operazione apparentemente non troppo dissimile da quella che andava compiendo Martin Lutero ma che Erasmo attua con intendimento molto diverso: egli non si serve dei testi evangelici per provocare scissioni ma piuttosto per valorizzare ciò che gli sembra conciliabile con la cultura umanistica. Il pacifismo Erasmo si batteva per un mutamento dello spirito politico: la sua idea era che sarebbe stato un fallimento se, dopo l'Umanesimo, l'Europa si fosse trovata dilaniata dallo spirito nazionalistico ed imperialistico, spenta intellettualmente e moralmente. Egli può considerarsi precorritore di una coscienza europea aperta, pronta a Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo lottare contro l'esclusivismo delle nazioni per valorizzare in tutti i settori della vita personale e sociale ciò che può meglio rappresentare la positività dei valori umani. La vecchia respublica christiana era entrata in crisi perché non più sostenuta né dall'autorità ormai screditata dell'Impero, né dall'ascendente spirituale di una Chiesa che aveva smarrito la sua autenticità religiosa ma gli pareva possibile e necessario ricercare una nuova intesa proprio su quei principi che l'Umanesimo aveva scoperto e valorizzato. Si doveva quindi riprendere il discorso sull'Europa riproponendo l'idea di una unità europea non monolitica, non gerarchica e pronta invece ad accogliere tutte le vocazioni europee capaci di coordinarsi e di convergere su compiti culturali e sociali di vasta portata. La sua era quindi l'immagine di un'Europa umanistica generalizzata. Di qui, in Erasmo, l'intransigente ripudio della guerra e la sua professione senza riserve di pacifismo; niente è per lui così negativo come la guerra, da essa deriva la degradazione e la demoralizzazione generale della vita. Nella filosofia pacifista di Erasmo non c'è soprattutto alcun posto per l'idea di guerra santa giustificata come esecuzione della volontà di Dio. Solo quando tutti i mezzi pacifici sono stati sperimentati senza successo e solo in caso di aggressioni dirette la guerra può diventare la estrema ratio. La sua idea del Principe è l'opposto di quella di Machiavelli. Erasmo sente una profonda ripugnanza a considerare la politica e il diritto come attività separate dalla morale. Il sovrano si legittima solo se coltiva nel suo stato le arti della pace e se supera gli altri per le sue doti di re; l'inganno e la simulazione non devono essere strumenti dell'autorità ed il sovrano è da considerare solo come amministratore di beni altrui. L'ideale di Erasmo rimane quello di una monarchia temperata, non priva però di elementi democratici. Egli sostiene così che, per evitare le degenerazioni tiranniche, è vantaggioso rinunciare alla regalità ereditaria e sostituirla con quella elettiva. Etica e spontaneità L'opera più conosciuta di Erasmo, L'elogio della follia, è stata intesa come un "divertissement" letterario, come evasione di un umanista; certo, egli vuole ironizzare sulla boria dei filosofi ma questo saggio può essere inteso in un senso eticamente più profondo e politicamente più significativo: Erasmo vuole mettere in evidenza, in modo caricaturale e scherzoso, il principio che l'esistenza umana deve qualcosa alle piccole follie. Non si può vivere secondo una virtù troppo austera: l'esperienza umana è sempre aperta ed i filosofi devono badare a non ingombrare troppo con le loro concettualizzazioni il flusso delle forze vitali dell'umanità. Diffidenza quindi di Erasmo verso una razionalità a formato chiuso e disposizione invece ad accettare anche sentimenti, propensioni, bisogni che dal punto di vista strettamente razionale possono apparire come stoltezze. La vita umana è "un gioco della follia" però questa parola è usata da Erasmo in un senso molto blando e pacato: egli si riferisce a quelle piccole follie che sono impulsi vitali del nostro agire e che non ci fanno preoccupare oltre misura di tutti i possibili risultati e di tutte le possibili incidenze dei nostri comportamenti. L'uomo è certo tenuto ad assumere responsabilità dei suoi atti ma, una volta che essi si immettono nel mondo e si mescolano all'insieme delle azioni altrui, producono delle combinazioni umane e sociali che sarebbe folle e patologico pretendere di preventivare e di padroneggiare integralmente con misure razionalisticamente pure. Non si devono progettare razionalmente tutti i moventi dell'azione, se si vuole lasciare un certo margine di libertà ai soggetti e se si vuole svincolare la società dalle ristrettezze ed improduttività dell'abitudine e della ripetizione. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo Una certa liberalizzazione delle piccole follie può costituire un antidoto alle grandi follie provocate dalla smania di imporre alla vita presunti schemi di verità assolute. Questo elogio della stoltezza esprime un'intuizione politicamente rilevante e cioè che un certo ordine spontaneo può dare più garanzie di un ordine razionalmente costruito dal potere e da esso coercitivamente imposto. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 5. Thomas More Potere e contraddizioni sociali Le idee di More hanno notevoli convergenze con quelle di Erasmo ma vi è in questo giurista e uomo politico, assurto alla massima responsabilità di cancelliere del regno d'Inghilterra sotto Enrico VIII, una più diretta conoscenza ed una più acuta sensibilità dei problemi sociali ed economici. Egli si impegna decisamente affinchè la cultura umanistica non rimanga nell'ambito di una repubblica delle bonae litterae e si confronti invece con le difficoltà più aspre e più complesse del mondo sociale. C'è in lui la consapevolezza (per la prima volta così lucida nel pensiero del Rinascimento) che il principale campo di applicazione della politica deve riguardare le condizioni reali della vita collettiva, le quali riflettono qualcosa di essenziale anche per l'esistenza individuale. Se è sempre da apprezzare e da incoraggiare la denuncia dei peccati dei principi, si tratta di ampliare questa critica cercando di comprendere che le storture e le perversità del potere non si spiegano solo con le scarse virtù dei governanti ma anche e soprattutto con le condizioni degradanti del vivere collettivo. Il male non è insito soltanto nella natura dell'uomo ma anche nella costituzione della società, dalla cui riforma dipende il miglioramento qualitativo e materiale della politica. L'Utopia di More (1516) non è un semplice esercizio di fantasia letteraria. Il primo libro rappresenta un'analisi sociologica, basata su vaste cognizioni scientifiche, della situazione sociale ed economica dell'Inghilterra del suo tempo, mentre il secondo libro esprime la complessità enigmatica di un autore che sa calcolare quanto grande è il divario fra la proposta razionale e le possibilità di assimilazione di una realtà ancora troppo al di sotto degli ideali di una civiltà umanistica. Il bene della politica dipende per More da pubbliche leggi "promulgate secondo giustizia da un buon sovrano" o "sancite con il generale consenso da un popolo non oppresso da tirannide né raggirato da inganni". La prosperità o la rovina di uno stato dipendono in modo essenziale dal comportamento dei pubblici poteri e dalla loro inclinazione a favorire o ad ostacolare una vita civile e sociale autonoma e rigogliosa. Crisi ed alternative More non indugia troppo nella fiducia che per uno sviluppo umanistico della politica sia risolutivo modificare l'educazione del principe cristiano. Il suo interesse è rivolto a penetrare più profondamente nelle strutture sociali per individuare ciò che esse contengono di degradante per gli individui e le loro comunità. More constata la crisi sociale ed economica dilagante nell'Inghilterra del suo tempo, una crisi diversa dalle carestie del passato. La miseria, la corruzione, l'emarginazione avevano superato, a suo giudizio, il limite di tollerabilità e gli strumenti usati per il contenimento di questi mali gli apparivano inadeguati o del tutto arbitrari. Le ragioni di questa crisi economica di così ampia portata sono analiticamente esaminate nel primo libro della sua opera e sono fatte risalire a diversi fattori tra loro concatenati. Prima di tutto ad una politica di potenza e di guerra che teneva sotto le armi vaste parti della popolazione sottratte al lavoro produttivo, che provocava enormi distruzioni di materiale umano e risorse materiali e che abbandonava alla carità i reduci. Un altro motivo fondamentale di crisi era dovuto alla decadenza dell'agricoltura soppiantata dalla pastorizia e dalle concentrazioni della proprietà terriera: l'allevamento del bestiame era diventato monopolio di pochi grandi affaristi che davano lavoro solo ad una parte esigua della popolazione rurale; la maggior parte dei Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo contadini era attirata illusoriamente dalla città per cercare altri lavori che invece non trovavano. Si creava così un urbanesimo artificiale, causa di indigenza, emarginazione, parassitismo e di una criminalità invano contrastata con misure inumane di repressione; a questa penosa indigenza si contrapponeva lo sfarzo dei ceti nobiliari parassitari. In questo quadro di crisi endemica More delinea come alternativa il regime di Utopia, in cui l'opera di una ragione intenzionalmente e metodicamente impegnata a lottare contro l'avvilimento di un tempo storico corrotto ed inumano dovrebbe dischiudere prospettive eticamente e politicamente più rassicuranti. Radicalismo politico e limiti storici Quello delineato in Utopia non è esattamente il programma di governo dell'autore ma è desunto dalle descrizioni di un visitatore, Itlodeo, che More ascolta con grande partecipazione, certo auspicando che molti aspetti di quel regime vengano instaurati nei vecchi stati europei ma riconoscendo anche quanto ardue e rischiose possano essere le trasposizioni di riforme così radicali in ambienti tanto dissimili. I problemi di More sono in parte connessi alla complessità della sua personalità. Egli vive intensamente nella dimensione pubblica ma la sente relativamente estranea alla sua finissima sensibilità esistenziale e morale. Una personalità che vive in una certa contraddizione fra Medioevo ed età moderna, fra ascetismo ed edonismo, fra deismo e Cattolicesimo, fra economia di sussistenza e sviluppo manifatturiero, tra feudalesimo e democrazia. All'interno delle sue concezioni politiche rimane una tensione fra radicalismo sociale e realistico riconoscimento dei limiti delle situazioni storiche. Il meglio, in politica, lo si otterrà quando tutti saranno buoni ma More non crede che ciò possa avvenire "per un buon numero di anni a venire". La ricerca della verità politica esige però di vincere il conformismo e di assumere atteggiamenti più schietti ed animosi; ci sono idee politiche che è doveroso proporre, almeno per additare i rischi di certe assuefazioni all'esistente. I dubbi e le riserve di More nei confronti delle radicali innovazioni di Utopia non gli impediscono di considerare quel regime qualitativamente migliore e di aderire al suo fondamentale principio costitutivo, cioè la sostituzione della proprietà privata con la proprietà comune. Questa sua inclinazione intellettuale per un ordine sociale costruito con rigida programmazione pone un non facile problema interpretativo. Da un lato More, come Erasmo, è fautore di un Umanesimo aperto, critico, tollerante e ciò sembrerebbe doverlo rendere più sensibile ai vantaggi di una società liberalizzata, disposta a riconoscere un ruolo importante alla creatività spontanea delle energie individuali e collettive. In altre sue opere More ha d'altronde difeso il ruolo della proprietà privata come condizione di sviluppo produttivo e di perfezionamento sociale; non sembra quindi che una costituzione comunistica della società corrisponda pienamente ai suoi intendimenti. Nell'Utopia More corregge tuttavia certe sue idealità liberalizzanti ed accoglie, almeno in ipotesi, il metodo della progettazione sociale integrale come quello più efficace e più conforme alla natura ed alle funzioni della ragione. Si tratta appunto di spiegare questa almeno apparente contraddizione di un animo sostanzialmente liberale che propone per l'organizzazione sociale un modello comunistico; quasi che l'Umanesimo, inteso in un senso di liberalizzazione delle attività personali e sociali, sia un movimento di superficie, mentre ciò che di sostanziale l'Umanesimo esprime sarebbero i problemi di una progettazione ordinata e coerente dei fenomeni sociali. L'impianto di Utopia è dunque di sistematica programmazione sociale ed economica, additata come condizione di risanamento di quei mali Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo dell'Inghilterra che More aveva denunciato nella prima parte della sua opera. Il regime di Utopia Accenniamo ai fondamentali principi ispiratori del regime di Utopia. Nella struttura del governo sussistono alcuni elementi democratici perché ogni gruppo di famiglie elegge ogni anno un magistrato (filarco) ma, complessivamente, l'organizzazione del potere assume un carattere gerarchico. Ogni dieci filarchi (che sono duecento) viene posto un capo, chiamato protofilarco. Il magistrato supremo viene eletto dai filarchi che lo scelgono fra quattro candidati nominati dal popolo; la carica di capo supremo dura tutta la vita, tutte le altre cariche sono annuali. In economia vige il principio della proprietà pubblica con radicale abolizione di quella privata. L'abolizione della proprietà privata sembrerebbe poter smascherare "le macchinazioni dei ricchi" che fanno assumere forza di legge soprattutto a ciò che consente loro di impadronirsi con mezzi disonesti di risorse comuni e di abusare del lavoro dei poveri. La sua fiducia è che senza la proprietà si creino le condizioni per risanare la società. Particolare cura viene rivolta dagli utopiani ai problemi demografici ed agli equilibri territoriali per evitare una divisione troppo rigida fra mondo rurale e mondo urbano, il primo relegato all'adempimento dei lavori manuali faticosi e l'altro destinato ai servizi e più differenziato dal punto di vista produttivo. La proporzione viene mantenuta attraverso programmati scambi sociali, per cui ogni due anni una parte dei lavoratori della campagna va in città ed una parte della popolazione urbana si reca a lavorare nei campi, in modo da agevolare la compenetrazione di culture e di mentalità diverse e da evitare il consolidarsi di sperequazioni. L'organizzazione della vita sociale è, specie nelle città, a base rigorosamente comunitaria e ciascuno è controllato nei suoi movimenti. In questa società programmata la famiglia rimane un punto di riferimento essenziale ed è la base dell'ordinamento economico; essa è tuttavia liberata da una serie di incombenze: l'educazione dei figli è in parte demandata allo stato e i problemi dell'alimentazione sono gestiti dalle stesse organizzazioni del lavoro. Il matrimonio è tutelato ed assume una particolare qualificazione etica ma sono ammessi casi di scioglimento per adulterio, per "insopportabile aggressività di carattere" e " per mutuo consenso". Sono previste istituzioni sanitarie pubbliche in cui tutti gli anziani e i sofferenti siano amorevolmente e gratuitamente curati e assistiti dalla collettività ma, in disaccordo su questo punto con l'assoluta riprovazione dei teologi cristiani, More ammette in certi casi l'eutanasia, anche se con il benestare dei sacerdoti e dei magistrati. In questa città ideale i reati diminuiscono e le pene sono ispirate a criteri umanitari e non hanno altro scopo che la riabilitazione dei condannati, attuata attraverso il lavoro in imprese di pubblica utilità. L'istituzione della schiavitù non è soppressa bensì è limitata; si diventa schiavi per delitti commessi o per libera scelta di salariati stranieri che siano venuti a lavorare nell'isola, i quali però sono trattati con gli stessi riguardi che si usano per gli altri cittadini. Questo sistema sociale comporta una progressiva diminuzione del valore del denaro che non ha più una funzione specifica nelle transazioni sociali. Vi è in Utopia un disprezzo integrale dell'oro, sia come simbolo di potenza e di ricchezza, sia come strumento di vanità. La natura degli abitanti di Utopia è essenzialmente pacifica, tuttavia il pacifismo di More è più temperato di quello di Erasmo. Gli utopiani ricevono un addestramento militare ed affrontano la guerra non solo per difendere i loro confini ma anche per liberare dall'invasore il territorio di un alleato, per aiutare un popolo nella rivolta contro il dispotismo ed anche (e con ciò More sembra Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo riflettere qualche suggestione imperialistica) per rendere produttive terre di paesi stranieri che gli abitanti si ostinano a mantenere incolte. Tale sfruttamento di territori altrui è però lecito solo se quelle popolazioni rifiutino ogni forma di collaborazione economica. La tolleranza religiosa Nel suo complesso il regime di Utopia è espressione di una società chiusa in cui la ripartizione egualitaria del poco è garantita da un sistema economico piuttosto semplice e da un ordine normativo refrattario al "gran cumulo di aggrovigliatissime leggi" perché vuole che il senso delle norme sia chiaro a tutti. La semplicità dei costumi non sfocia tuttavia nell'ascetismo sociale e nella rinuncia ma in una specie di epicureismo temperato dal precetto stoico del vivere secondo natura. Nel campo religioso gli utopiani credono che l'Essere supremo, inconoscibile, eterno coincida con la natura stessa. Essi praticano una serie di culti diversi ma, avendo avuto sentore dell'esistenza del Cristianesimo ed avendo appreso che Cristo approvò la vita in comune dei suoi discepoli, considerano tale religione del tutto compatibile con la loro organizzazione sociale e sono quindi disposti ad accoglierla e a considerarla spiritualmente superiore ai loro culti tradizionale. In materia di fede vige in Utopia il principio di tolleranza, tuttavia gli utopiani si oppongono all'ateismo non solo perché esso può avvilire la natura sublime dell'anima umana, ma anche e soprattutto perché colui che non ha remore o speranze di natura religiosa "cercherà di eludere di nascosto le patrie leggi e di infrangerle con la prepotenza pur di soddisfare egoisticamente le proprie bramosie". More sembra così indicare che vi può essere un profondo spirito religioso non fondato sulla ascesi nei confronti della realtà mondana e compatibile con un equilibrato godimento di beni terreni e con la disposizione a valorizzare ciò che di umoristicamente rasserenante può esservi anche in un'etica eudemonistica. Umanesimo e programmazione E' forse da ritenere che More non voglia considerare come forma realisticamente proponibile quella di una città regolata da una programmazione integrale. Disegnando il suo sistema di città ideale forse egli ha voluto fare un censimento dei più gravi problemi sociali del suo tempo e ha voluto evidenziarli, dando alle sue analisi critiche un carattere di denuncia sociale sconosciuto al pensiero politico tradizionale. Ciò che More ha voluto far vedere è che alcuni di questi problemi possono essere affrontati anche attraverso programmazioni ispirati a criteri collettivistici, se non si trovano altri strumenti idonei ed efficaci. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 6. Martin Lutero La libertà della coscienza Ci si può porre il problema se il pensiero di Martin Lutero rappresenti una prosecuzione, in toni accesi e radicali, dello spirito dell'Umanesimo e se la Riforma protestante intendesse estendere al campo religioso quel fermento innovativo che la Renascentia aveva portato nella cultura. Il problema della libertà della coscienza religiosa fu presente in Martin Lutero. Per sfidare così animosamente una tradizione religiosa consolidata, egli fece appello anche alla libertà del credente, conculcata secondo lui da una autorità che di religioso conservava soltanto il nome mentre era in realtà una forma di tirannide. Lutero doveva alimentare un certo spirito critico per sostenere che molte cose che la Chiesa cattolica proponeva come dogmi erano false, per criticare le presunte manipolazioni che essa operava nei testi sacri, per affermare l'uguale potere dei credenti negli affari religiosi e per negare il diritto di ordinare e di imporre la fede con la violenza. Specie nelle sue prime opere di critica teologica e politica Martin Lutero metteva in luce l'esigenza della libertà come condizione di un rapporto più diretto dell'uomo con il Vangelo, senza le pesanti mediazioni di un apparato istituzionale ecclesiastico ormai spiritualmente screditato per le sue degenerazioni mondane e per la sua vuota morale precettistica. Egli nega decisamente che il diritto canonico sia fondamento di religiosità e che la remissione dei peccati debba dipendere dalle indulgenze e dalle gratificazioni di cui la Chiesa si riserva il monopolio. Le proteste di Lutero sembrano dunque, almeno in una prima fase, animate da una forza vivificatrice che affida la salvezza soprattutto alla responsabilità personale del fedele, capace più di ogni istituzione di interpretare la parola di Dio ed esprimere il senso di una cristianità spirituale ed interiore. Martin Lutero non vuole dunque concentrare i valori della fede in una classe sacerdotale munita di investiture e di prerogative superiori alla comune competenza di tutti i credenti: egli tende ad un progressivo allargamento della base religiosa affinchè ognuno partecipi in posizione paritetica alla comunità dei fedeli, diventando sacerdote di se stesso e ministro del proprio culto. In nome del Vangelo egli critica l'organizzazione piramidale della Chiesa e chiede l'abolizione degli ordini conventuali e dei sistemi di vita religiosa fondati sui voti perpetui di castità, obbedienza e povertà. Allo stesso modo egli vuole anche semplificare il sistema dei sacramenti che riduce essenzialmente al battesimo, alla penitenza ed all'eucarestia mentre gli altri, come il matrimonio o la stessa ordinazione sacerdotale, non sono considerati tali, anche se hanno un visibile e diretto valore religioso. Ciò consente, ad esempio, una certa attenuazione della sacralità del vincolo matrimoniale, così come l'accettazione del matrimonio dei preti. Le polemiche sono svolte con linguaggio diretto, senza inibizioni di fronte all'autorità ed attraverso argomentazioni che si rivolgono a tutto il popolo affinchè esso possa diventare protagonista di questo programma di riforma e trovare nel Vangelo il comune strumento di rivolta contro la tradizione, contro la legge ed anche contro quella razionalità che usava la Chiesa di Roma per consolidare il suo potere nella vita civile e politica. Il pessimismo antropologico e la salvezza Se questi possono apparire elementi di apertura alla modernizzazione dell'esperienza religiosa ed anche di democratizzazione della fede, si devono tuttavia considerare aspetti fondamentali del pensiero di Lutero che non sono continuazione dello spirito umanistico, anzi ne rappresentano la negazione. La sua mentalità non è Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo moderna e il ritorno al Vangelo non è evocato da lui come garanzia di una conciliazione della cultura umanistica con quella cristiana. L'idea che Lutero ha dell'uomo è di ispirazione agostiniana ma intrisa di un più intenso pessimismo. Egli non pensa ad una qualche realizzazione terrena del bene attraverso la collaborazione della fede e della ragione mediate dalla legge. La ragione non è il supporto della fede e non si deve indulgere a pretese di conciliazioni della trascendenza con la mondanità. Di qui la sua polemica nei confronti del pensiero tomistico che vede fede e ragione come due aspetti di un universo etico nel quale l'uomo trova il suo posto privilegiato. La liberazione della volontà e della spiritualità umana è compromessa proprio dall'ostinazione con cui Lutero ribadisce sempre la peccaminosità dell'uomo, dalla quale si esce solo per la grazia particolare che può venirci da Dio attraverso i suoi atti imperscrutabili. La salvezza è per Lutero un fatto provvidenziale e non ammette alcuna spiegazione intellettuale. Dio agisce all'interno delle singole coscienze che vuole salvare attraverso l'intervento della sua grazia; naturalmente l'uomo deve disporsi ad accogliere questo atto di volontà divina affinando la sua vocazione cristiana ma rinunciando alla presunzione che i suoi meriti e le sue opere abbiano un ruolo decisivo nella sua salvezza. Per la vulnerabilità della sua natura l'uomo non può pretendere nulla di diverso da ciò che Dio, indipendentemente da ogni nostro merito, vuole darci per sua libera ed imperscrutabile scelta. La penetrazione di Dio nelle singole coscienze dipende solo dal Suo libero arbitrio, rispetto al quale quello dell'uomo non è che un servo arbitrio. Non vi è dunque alcuna autonomia del volere dell'uomo, così come non c'è alcuna autonomia della sua ragione. Erasmo lottava decisamente contro questa visione goticheggiante della fede che, rendendo grave ed assorbente il senso del peccato, impediva quella distensione etica e quell'equilibrio culturale verso cui doveva tendere il rinnovamento della spiritualità cristiana. Diciamo dunque che se certi elementi del Luteranesimo valorizzano l'interiorità esistenziale dell'individuo, altri elementi vincolano la coscienza al rischio esasperato della propria dannazione e non sembrano perciò discostarsi dagli eccessi penitenziali di un intendimento ancora medievale della fede. La Riforma e il potere politico Lutero sentì che la sua riforma non poteva soltanto affidarsi alla forza persuasiva dei valori evangelici ma aveva bisogno di un sostegno dei governi, anche per le implicazioni politiche, sociali ed economiche che essa rivelava. La Chiesa di Roma aveva in Germania larghe ingerenze nella politica e nell'economia ed il rifiuto di questi condizionamenti fa parte della stessa logica contestatrice del Luteranesimo, il quale lotta contro la Chiesa cattolica non solo per ragioni religiose ma anche per affermare un'identità culturale degli stati tedeschi e dello spirito tedesco nei confronti della mentalità latina sentita diversa ed estranea. Lutero vede così la sua riforma anche come una rivoluzione nazionale, egli vuole impegnarsi in una lotta globale, spirituale e politica, che può avere successo solo se può contare sull'appoggio dei principi tedeschi, ai cui interessi politici egli adatta, in vario modo, le stesse basi della sua dottrina teologica, riconoscendo carattere divino all'autorità terrestre e legittimando il principio dell'obbedienza passiva dei sudditi nei confronti del sovrano. Ponendo con grande evidenza i limiti del potere istituzionale della Chiesa e ricorrendo all'idea del sacerdozio universale, Lutero attenua le differenze fra il potere politico ed il potere ecclesiastico. Non riconosce più valide le prerogative attraverso le quali la Chiesa voleva imporre la superiorità della sua autorità su quella temporale e dunque accresce di fatto l'influenza di quest'ultima all'interno della comunità Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo dei fedeli. I potenti sono anch'essi parte della Chiesa, allo stesso titolo con cui lo sono gli altri credenti, ma ai primi spettano funzioni e responsabilità superiori e diritti incontestabili. Così il Luteranesimo, dopo aver decisamente protestato contro le commistioni della fede cattolica con gli affari pubblici, riconcilia politica e religione sulla base di una concezione che tende a fare della Chiesa una Chiesa nazionale, affidata in maniera rilevante alla protezione dei principi. Questo adattamento della teologia luterana all'obbedienza passiva nei confronti del potere comporta inevitabili difficoltà. Era radicata nel suo animo l'idea che la virtù cristiana dovesse penetrare anche nella politica, che la tirannia fosse un male da evitare, che il principe fosse responsabile di fronte a Dio del proprio operato e che la giustizia e la carità dovessero essere valori intrinsecamente connessi alla vocazione cristiana. Lutero volle creare una Chiesa nazionale e per tale compito non è necessario che il potere abbia tutti i requisiti della spiritualità pura. La metafisica pessimistica di Lutero nei confronti dell'uomo gli consente anche l'accettazione di una metafisica pessimistica dell'autorità. Il suo originario agostinismo lo porta a condividere l'idea che lo stato, la guerra, la coercizione, la magistratura, la legge, in quanto frutti del peccato, non possono essere valori da esaltare per se stessi. L'autentico cristiano dovrebbe saper fare a meno di queste mediazioni politiche, istituzionali e giuridiche. Tutto dovrebbe risolversi con la carità e gli uomini saggi e buoni dovrebbero essi stessi essere le leggi migliori, tuttavia subentra sempre in Lutero il senso drammatico dell'esistenza umana: l'uomo è intriso di peccaminosità e il male è sovrano nel mondo, quindi lo spirito evangelico non è sufficiente a fecondare la vita personale e sociale. L'obbedienza passiva Se il cristiano, nel suo interno, può mantenere la sua libertà perché la sua coscienza risponde solo a Dio, per quel che riguarda il mondo esterno egli è sottoposto alla spada e al potere. Le istituzioni e gli strumenti del dominio devono quindi disciplinare la vita sociale. Questo non significa che i reggitori siano immagini di Dio; ci sono in Lutero, come in Agostino, delle critiche violente contro i principi, accusati spesso di essere dei malfattori. Lutero comprende le ragioni di chi non vuol subire torti né ingiustizie ma non approva in alcun caso la ribellione dei sudditi ed il dispregio dell'autorità. Meglio è assumere consapevolezza che i principi non stanno a caso nella vita e che, se la società deve subire tante coercizioni, ciò dipende dal fatto che gli uomini non sanno mai essere compiutamente cristiani perché sono sempre nel peccato e perché la loro natura corrotta non consente loro di formare autonomamente uno stabile ordinamento politico e di garantire con un contratto sociale una reciprocità di diritti e di obblighi fra il popolo ed il sovrano. Lutero si oppone a quelle correnti della Riforma, come gli anabattisti, che si ispiravano al suo pensiero interpretandolo però, oltre che come strumento di critica teologica, anche come strumento di rivendicazioni politiche e sociali contro le prevaricazioni e le ingiustizie. Come Lutero aveva osato sfidare la Chiesa di Roma, così i contadini luterani asserviti ai poteri nobiliari e feudali si sentivano legittimati a liberarsi da insopportabili oppressioni. Mentre Erasmo, che pure contestava la Riforma, guarda con raccapriccio alle repressioni fatte su popolazioni agricole che volevano solo far valere dei loro diritti legittimi, Lutero incita le autorità a sterminare i ribelli per ribadire il principio fondamentale che l'ordine politico non si tocca e che non può essere impunemente violato. Le posizioni conservatrici di Lutero sono state influenzate, oltre che dal discutibile principio teologico secondo cui ovunque l'autorità si manifesta è perché Dio l'ha voluta, dal Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo suo convincimento che il potere politico, progressivamente penetrato dalla religione riformata, fosse da considerare componente essenziale della comunità ecclesiale e dovesse perciò essere posto al servizio di grandi prospettive spirituali. Un potere immedesimato nel sacerdozio universale e al quale sia affidata la funzione fondamentale di garantire una Chiesa nazionale, contribuisce in modo decisivo anche alla riabilitazione e alla tutela dei valori religiosi. Ciò spiega perché Lutero accetti l'intervento dei principi anche negli affari spirituali, demandando loro il diritto di convocare il concilio, di nominare gli ecclesiastici e di amministrare i beni religiosi. Nella logica di questo rafforzamento comunitario si spiega anche il ripristino della scomunica che pure Lutero aveva aspramente contestato come potere del Papa. Si deve quindi riconoscere che il contributo dato dal Luteranesimo allo sviluppo di idee garantiste e liberali è piuttosto esiguo. Il corporativismo sociale Neppure molto significativi sono i contributi di Lutero all'evoluzione delle idee sociali ed economiche. Un motivo di innovazione è certo rappresentato dal fatto che il Luteranesimo ha dato l'avvio al principio che tutti devono impegnarsi a lavorare. Se vi è nel Luteranesimo una certa rivalutazione del lavoro produttivo, la sua visione della vita sociale ed economica continua tuttavia ad avere un carattere prevalentemente corporativo e tradizionalistico. La spartizione fondamentale è quella fra i contadini ed il ceto dei guerrieri, sostegno diretto di una classe politica che vede ancora la guerra come esigenza fondamentale dello stato; forte è invece la diffidenza di Lutero verso le professioni commerciali ed industriali, contaminate per lui dallo spirito usuraio e costante minaccia per le necessarie gerarchie che devono sussistere fra i cittadini. E' vero però che vi sono delle differenze nel Luteranesimo a seconda delle sue diverse dislocazioni geografiche e nazionali. In generale può dirsi che il Luteranesimo è caratterizzato da una certa adattabilità politica perché con la sua dottrina dell'obbedienza passiva si sottopone praticamente all'autorità di ogni potere costituito. Lo spirito complessivo del Luteranesimo in campo politico è comunque dominato più dall'idea del quietismo e dalla conservazione che non dall'esigenza di ricercare i limiti giuridici e politici da opporre al potere. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 7. Giovanni Calvino Origini e sviluppo del Calvinismo L'altro grande filone della Riforma protestante è il Calvinismo. Jean Calvin, francese di origine, ha svolto la sua opera in Svizzera, in particolare a Ginevra, ed il Calvinismo ha assunto un carattere diffusivo, dando l'impronta maggiore all'evangelismo del mondo moderno e riuscendo anche a presentarsi come un fermento di solidarietà e di comprensione internazionali. Calvino è rigoroso e sistematico; la sua opera fondamentale, Institution de la Religion Chréstienne è un esempio di monumentalità teologica. Dove il Calvinismo si è subito affermato (come a Ginevra, diventata una specie di città-chiesa), esso dominava anche il mondo della politica e condizionava direttamente tutta la vita sociale. Il calvinista è perennemente mobilitato nelle attività civili e porta la sua vocazione anche negli affari pubblici; le infrazioni alle regole comportavano dei procedimenti davanti al Concistoro, un organo misto composto da ministri del culto ed anziani, costituito come assemblea deliberante e tribunale posto a garanzia dell'unità religiosa e della disciplina dei comportamenti privati e pubblici. Eppure il Calvinismo ha conosciuto delle evoluzioni importanti che lo hanno portato alla difesa della legittimità del diritto di dissenso, di opposizione e anche di insurrezione contro il potere arbitrario, all'affermazione di un certo spirito democratico e ad una originale visione del mondo dell'economia e dell'etica del lavoro. Predestinazione e attività creativa Sul piano teologico il Calvinismo è caratterizzato da un'accentuazione del dogma della predestinazione: la salvezza viene attraverso la grazia e non dipende dalle opere dell'uomo; Dio sceglie chi si salva attraverso la sua imperscrutabile volontà. Il Calvinismo non indulge tuttavia all'inerzia, non assume atteggiamenti puramente mistici ed ammette invece che la nostra elezione abbia una connessione con la nostra vocazione all'attività e con la nostra attitudine a mettere ordine nei nostri affari e a cercare rimedi contro i mali e i pericoli della vita. Nessuno sa se Dio lo ha prescelto ma il calvinista può pensare di essere nel novero dei privilegiati e di aver ricevuto dall'intervento diretto di Dio una valorizzazione straordinaria. Carattere fondamentale della predestinazione calvinista è che questa scelta di Dio è irrevocabile; di qui la fiducia del calvinista in se stesso e la sua attitudine a superare la dispersione mistica per volgersi all'azione creativa. La predestinazione si estende anche alle comunità ecclesiali e ai gruppi sociali e Dio presceglie tali collettività perché si rendano dinamiche e capaci di realizzazione; attraverso la predestinazione Calvino valorizza dunque l'individuo ma anche lo spirito comunitario. Tutto questo crea un'animazione spirituale particolarmente intensa ed un attivismo nei rapporti sociali ed economici. Anche in ciò il calvinismo è diverso dal conservatorismo luterano che prediligeva un'economia corporativa in cui le professioni erano preventivamente stabilizzate ed irreggimentate in un ordinamento gerarchico e autoritario, inteso come emanazione della volontà divina e che quindi imponeva a ciascuno il dovere religioso di rimanere negli status assegnati. Nel Calvinismo ci sono naturalmente tutte le tradizionali remore religiose nei confronti dell'accaparramento, dell'usura e dell'uso improprio del denaro ma è accettato il principio che la spiritualità religiosa possa manifestarsi anche nel campo degli affari economici perché Dio vuole l'efficacia dell'azione sociale del cristiano e perché il lavoro posto al servizio dell'utilità pubblica esalta la gloria di Dio. Se c'è una Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo possibilità di successo negli affari, va perseguita perché Dio stesso ce la offre; d'altronde tale successo richiede impegno, dedizione, perseveranza che sono qualità positive e, in certo senso, manifestazioni di una specie di ascetismo mondano, mentre la ripugnanza al lavoro denota assenza della grazia. L'inazione, anche se sublimata dalla contemplazione, è sprovvista di valore; la vita oziosa e parassitaria è antireligiosa mentre nel lavoro si rivela la volontà di Dio. Impegnarsi in imprese che hanno a che fare con il denaro non è quindi peccato, mentre lo è il dipendere da altri senza dare il proprio personale contributo creativo. Il lavoro è disciplina di rigore, di metodo e di razionalità che sottrae a tentazioni degradanti però mai essere schiavi dell'oro che va usato non per opprimere gli altri ma per cercare benefici comuni. Di qui il dovere del calvinista di rimettere in circolazione e di socializzare il suo profitto con continue elargizioni del superfluo e con la preoccupazione dei bisogni altrui. Chi può deve aiutare le parti diseredate, rinunciando alle rendite parassitarie ed a un godimento puramente individualistico della ricchezza. Il diritto di opposizione Mentre il Luteranesimo si è consolidato negli stati tedeschi più disponibili ad accoglierlo come religione nazionale, il Calvinismo (a parte Ginevra, Boston ed altre colonie americane dove ha imposto la sua egemonia) si è presentato in altri paesi, specialmente in Francia e in Scozia, come partito di minoranza rispetto al Cattolicesimo legandosi, anche per motivi contingenti, a certi ceti piuttosto che ad altri (in Francia agli Ugonotti, in Scozia si presentava come un movimento popolare). L'esperienza di partito di minoranza ha determinato nel Calvinismo un atteggiamento più portato a difendere i propri diritti che a rinunciarvi in base alla dottrina dell'obbedienza passiva. Il principio che resistere all'autorità significa resistere all'ordine dato da Dio, era stato originariamente affermato da Calvino in modo non dissimile da Lutero; questo principio trovava la sua applicazione specialmente a Ginevra, dove il calvinismo era dominante. Dove il partito calvinista era minoritario, appariva più importante garantire il diritto di dissenso e di opposizione attraverso strumenti politici ed istituzionali da far valere anche nei confronti del potere costituito. Di qui una modificazione significativa delle prime idee di Calvino, modificazioni da lui stesso accettate. Questo mutamento di prospettive è alla base del movimento dei Monarcomachi in Francia e delle prime dottrine moderne del diritto di resistenza al potere da parte delle comunità popolari oppresse. In tali dottrine si sostiene che il sovrano non può fare tutto quello che vuole come se fosse l'immagine di Dio e s'avanza l'idea che Dio conferisce una legittimazione politica direttamente al popolo, il quale diventa così titolare di diritti propri. Ciò apre la via ad un processo di costituzionalizzazione dello stato, in cui la sovranità del popolo emerge contro le pretese assolutistiche della regalità. E' da osservare tuttavia che in queste teorie calviniste l'idea di popolo ha ancora un forte impianto corporativo: non il popolo come insieme di individui ma come insieme di comunità. Allo stesso modo il concetto di rappresentanza che il Calvinismo propone è rappresentanza di corpi sociali più o meno gerarchizzati; d'altra parte la protesta e la contestazione non competono direttamente al popolo ma a dei magistrati che sono gli intermediari tra sudditi e sovrano. Tutti i principi, anche quelli politici, si deducono dalla teologia che rimane alla base della vita: il Vangelo si pone come la vera carta costituzionale. Una volta rimosso il dogma dell'obbedienza passiva, non vi è nel Calvinismo nulla che sia incompatibile con certe idee liberali che più tardi saranno fatte valere con criteri razionali. Non vi è nulla che sia di ostacolo Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo teologico allo sviluppo dell'individualismo, alla valorizzazione del lavoro e dell'attività produttiva e alle garanzie nei confronti del potere. L'affermazione del Luteranesimo e del Calvinismo si è accompagnata a interminabili guerre di religione che d'altronde Lutero prevedeva; questo scisma, come aveva intuito Erasmo, sarebbe stato matrice di una dilacerazione europea e avrebbe per lungo tempo compromesso la stabilità dell'ordine politico. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 8. I monarcomachi calvinisti Le revisioni dottrinarie del Calvinismo Nell'analisi delle revisioni dottrinarie del Calvinismo in materia politica bisogna considerare che il loro scopo fondamentale è di ribadire l'istituzione divina di certi poteri storici capaci di consentire alla vera religione migliori possibilità di consolidamento e di sviluppo. E così teorie come quella di Théodore Bèze lo fanno con la preoccupazione che la ragione di stato, espressione di una ragione mondana e laica, o la superbia e l'interesse del principe non passino sopra la legge di Dio, non trasgrediscano lo spirito evangelico e non oltraggino il diritto naturale cristiano e quella specie di conservatorismo biblico che deve caratterizzare i rapporti di dominio. Bisogna sorvegliare i poteri che reggono la comunità e perciò controllare le azioni del governo e della regalità per far sì che la legge biblica mantenga sempre una sua funzione sovrana nei confronti del potere mondano. Certe correnti del Calvinismo che, in modo diretto o indiretto, hanno evocato nelle loro lotte il principio della sovranità popolare, la dottrina del contratto, il diritto di opposizione e la subordinazione del potere alle leggi hanno dato un contributo allo sviluppo di idee liberali e democratiche, specialmente nei paesi in cui i Calvinisti erano in minoranza e dovevano difendersi dagli accerchiamenti e dalle repressioni della maggioranza sostenuta dai sovrani cattolici e dai centri di potere più direttamente influenzati dalla Chiesa di Roma. Le tensioni religiose, sfociate in guerre devastatrici specialmente in Francia, avevano motivazioni anche nella contrapposizione di interessi sociali ma l'accanimento di queste lotte si spiega soprattutto con la considerazione che in quel periodo il problema dell'eresia assumeva una sua particolare gravità. Dopo una breve parentesi umanistica nei primi decenni del ‘500, che sembrava favorire una cultura della tolleranza e del dialogo, l'eresia era tornata ad essere vista come la peggiore malattia che potesse contagiare il corpo sociale e la si combatteva con fanatismo religioso. Solo quando si comincia a comprendere che il pluralismo religioso non può essere soppresso, subentra un nuovo atteggiamento politico incline a non legare l'autorità del sovrano all'uno o all'altro partito confessionale per non compromettere la governabilità del paese. Il partito dei "politici", ispirato dal pensiero di Bodin, si impegnerà così nella riaffermazione dello stato come centralità essenziale della politica da tenere al di fuori delle dispute religiose. Diverso è però l'orientamento del partito calvinista che, specialmente in Francia ed in Scozia, cerca di elaborare delle teorie limitative di quel potere che i Protestanti sentivano come strumento di repressione nei loro confronti. Questo movimento, chiamato dei Monarcomachi, si oppone all'egemonia della regalità, invocando un diritto di resistenza nei confronti del potere ingiusto ed impegnandosi nella difesa di tradizionali autonomie giuridiche e di antichi privilegi medievali contro l'accentramento monarchico. Théodore de Bèze e François Hotman: il regno e l'autorità Il pensiero dei Monarcomachi trae origine dall'opera del teologo Théodore de Bèze, discepolo e successore di Calvino, il quale nel libro Du droit des magistrats sur leurs subjets sostiene che l'autorità dei magistrati, per quanto grande e potente, è limitata e che ci si può rifiutare di eseguire "comandi irreligiosi o iniqui" emanati da autorità manifestamente tiranniche. Questo diritto di resistenza non appartiene ai singoli ma deve essere affidato a dei magistrati intermedi, protettori dei diritti della sovranità ed insieme garanti verso il Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo popolo. Se tali obbligazioni sono trasgredite dai sovrani, i magistrati intermedi possono reprimerli e castigarli anche con la forza. L'influenza di Bèze si nota nell'opera di François Hotman, La France Gaule: il re non ha alcuna investitura al "potere assoluto, eccessivo e infinito" e la sua autorità deve considerarsi subordinata ad una sovranità più ampia che è quella delle comunità sociali che formano il regno. Non è il popolo che deve assoggettarsi alla causa del re, è il re che è stabilito per la tutela del popolo. Deriva dall'impostazione di Hotman il principio che ciò che appartiene al re, cioè i beni della corona e le sue proprietà private, debba essere nettamente distinto da quello che si continua a chiamare il "dominio regale" ma che è in effetti l'insieme dei beni che appartengono al popolo. Egli si oppone quindi alle teorie che considerano patrimonio personale del sovrano tutte le proprietà pubbliche, così come si oppone al principio che le libertà dei sudditi debbano essere lasciate all'arbitraria disponibilità del sovrano. Il re è alla testa del corpo sociale perché deve orientare e sostenere la vita della nazione ma il regno, distinto dalla sua persona, è espressione di una sovranità globale della società che supera quella attribuita al sovrano. Hotman delinea così un'autorità del corpo sociale che può bilanciare quella del re ed anche opporsi ad essa, sempre però attraverso l'azione di poteri intermediari che si avvicinano, per la loro estrazione sociale, alla dignità regale ma che non sono lontani, per le loro funzioni di controllo e di garanzia, dallo stato popolare. Tutto questo in base al principio fondamentale che il re non è padrone della cosa pubblica e deve piuttosto presentarsi come il garante della struttura complessa ed articolata della società globale. Le Vindiciae contra tyrannos Una trattazione più approfondita di questi argomenti dal punto di vista politico e giuridico si ha nell'opera Vindiciae contra tyrannos, scritta in latino e tradotta in francese, a firma di Iunius Brutus ed attribuita a Hubert Languet. Si cerca in quest'opera di elaborare una teoria della resistenza alla tirannia rispondendo a quattro domande fondamentali: 1) se i sudditi debbano obbedire al principe quando questi comanda delle cose contrarie alla legge di Dio; 2) se, in questi casi, sia permesso di resistere al principe anche con la violenza; 3) se sia lecito resistere al principe quando egli fa una politica comunque oppressiva e tirannica anche in materie sociali e civili; 4) se è lecito ai principi vicini intervenire per aiutare i cittadini di un altro paese oppressi dal loro principe. La risposta che viene data a tutte queste domande è affermativa: si può non solo non obbedire ma resistere attivamente contro la politica arbitraria sia in campo religioso che in campo politico e civile e, se necessario, è legittimo l'intervento straniero a sostegno di una causa giusta. L'abuso di potere si può dividere, tuttavia, in due categorie fondamentali: -esiste il tiranno ex defectu tituli, che non ha cioè titolo legittimo per governare perché si è impadronito con la forza o con la frode del potere; -il tiranno ex parte exercitii, che abusa di un potere di cui tuttavia ha avuto legittimo affidamento. Contro i tiranni che non hanno titolo si può resistere direttamente con le armi, sia collettivamente sia individualmente; al sovrano che detiene il potere legalmente, ma che ne abusa, si deve invece resistere attraverso la mediazione di magistrati istituzionalmente preposti al controllo politico. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo Il presupposto metodologico delle Vindiciae contra tyrannos è che l'ordinamento politico si fonda su un duplice contratto: -il primo riguarda da una parte Dio, sovrano assoluto, e, dall'altra parte, il re ed il popolo congiuntamente. Popolo e monarca si presentano quindi davanti a Dio solidalmente e sono corresponsabili. Questo fa si che il popolo sia sempre garante del contratto fra Dio e il re e che perciò sia abilitato a difendere Dio contro il re; tale contratto serve dunque a legittimare non solo la sovranità del re ma anche quella del popolo, il quale ha l'obbligo teologico di controllare il potere e di evitare che degeneri nell'arbitrio. -il secondo contratto si stabilisce fra il re ed il popolo e richiede che il re regni "giustamente secondo le leggi". Il popolo è indissolubilmente legato al re e non può considerarsi in alcun modo estraneo al contratto politico che fonda un ordinamento costituzionale. E' il popolo che stabilisce i re, che trasmette i regni, che conferma l'elezione del monarca con il suo voto. Il re è alla testa del corpo sociale ma non esprime la totalità delle prerogative e delle attribuzioni che Dio ha conferito alla comunità popolare e comunque il potere del re non è privilegio ed onore personale del sovrano, è piuttosto una funzione ed una responsabilità da esercitare per l'utilità dei sudditi. Il re non usufruisce di una immunità assoluta ed è responsabile dei doveri di tutela che ha verso il popolo; ne consegue che il re non può governare senza la legge e che depositario della legge è il popolo. La dignità regale quindi non è una proprietà ma una funzione ed il principe è soprattutto l'amministratore e il curatore di ricchezze pubbliche e deve perciò rispondere al popolo del suo operato. La conformità della volontà regale alla volontà delle leggi deve essere sempre garantita dagli "ufficiali del regno" che sono "difensori e garanti" del patto; il re che viola questo patto diventa tiranno. Queste posizioni dottrinarie sembrerebbero avere certe implicazioni democratiche ma si tratta certo di una democrazia molto diluita. Per i Monarcomachi il contratto che disciplina il potere legittimo del sovrano sul popolo e del popolo sul principe è interamente modellato sulla Bibbia. Esso serve soprattutto a far valere ciò che la fede esige e cioè che ogni rapporto di dominio assuma sempre come sua essenza il rispetto della legge divina, che è tuttavia rispetto della dignità del popolo. Tutto questo vale perché è contenuto nella Bibbia, per cui il contratto non è altro che lo sforzo di interpretare, di rendere espliciti e di tradurre in termini istituzionali gli imperativi dei testi sacri. Le forme di governo non interessano particolarmente a questi autori, la cui esigenza fondamentale è quella di esercitare un controllo religioso sul potere, comunque esso sia formato. Tutto questo non sembra troppo lontano dalle teorie del diritto naturale di derivazione aristotelica e tomistica; sembra invece che questi Monarcomachi ripristinino certi elementi della tradizione, sia pure adattandoli alle diverse esigenze del Calvinismo. Si può dire comunque che le teorie degli Ugonotti, opponendosi alla incondizionata priorità del potere monarchico, iniziano a far valere il principio della sovranità popolare. Deve però anche considerarsi che nelle teorie calviniste dei magistrati intermedi (gli Efori) il principale beneficiario risulta essere non tanto il popolo quanto la nobiltà ugonotta chiamata a cimentarsi contro l'aristocrazia cattolica ed il potere monarchico che la sostiene. Il Calvinismo in Scozia Chi per primo rovesciò la posizione originariamente espressa da Calvino sull'obbedienza passiva fu in Scozia John Knox, intransigente nemico della regina Maria Stuart e dell'alleanza della corona scozzese con Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo la monarchia cattolica francese. Ispirazioni non dissimili da quelle delle Vindiciae contra tyrannos si ritrovano nell'opera del letterato scozzese George Buchanam: Platone, Aristotele e Cicerone, più che Calvino, furono i suoi maestri e la ripugnanza alla tirannia non ha in lui solo una motivazione religiosa ma anche una specifica legittimazione civile perché il despota distrugge antiche libertà e disgrega le forze morali e le leggi naturali necessarie alla stabilità delle comunità. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo 9. Michel Montaigne La coscienza dell'individualità Montaigne può essere considerato l'ultimo dei grandi umanisti del '500; i suoi Essais riecheggiano di ideali non dissimili da quelli di Erasmo ma con forti accentuazioni pessimistiche e scettiche. Spettatore di una Europa che si sta dilaniando in sommovimenti pubblici, Montaigne assume un atteggiamento di rigetto e di profondo disdegno. Il primo atto di ripudio di una realtà esterna così deteriorata dal pregiudizio e dall'odio politico e religioso Montaigne lo esprime proponendo la sua propria esistenzialità come oggetto del suo studio, per chiedersi chi egli è e che cosa sa. Questo ripiegamento su se stesso non è mosso tuttavia da ostinazione egoistica: egli vuole raccontare l'uomo senza la pretesa di insegnargli verità assolute, vuole vederlo come è, delimitato nella sua finitezza esistenziale, ma anche capace di rendere pubblico il suo conoscere ed il suo sentire. Questo è per lui un atto di umiltà, connesso al sentimento della relatività delle cose e alla difficoltà che l'uomo si innalzi al di sopra di se stesso e dell'umanità con i mezzi di cui dispone; nel riconoscimento di questo limite però vi è anche la sollecitazione etica a comprendere che ogni uomo è in se un valore da rispettare e non da assoggettare a fedi religiose e pubbliche dogmatiche e fanatiche. Il merito dell'Umanesimo è appunto per Montaigne quello di aver riportato alla ribalta della vita l'individualità: ciò che l'uomo può trovare di verità deve cercarlo in se stesso, nella sua ragione, nella sua sensibilità e non in un sistema prefigurato di essenze superiori ed anteriori al suo esistere concreto. A qualunque categoria o classe metafisica, sociale, economica l'uomo appartenga, ciò che egli sa di se stesso lo sa quando si pone al di fuori di queste categorie o classi e quando scopre se stesso come essere originale ed irripetibile. E' necessario così un esercizio intenso di autoriflessione per scoprire scopi e significati della realtà umana che le situazioni aberranti del presente dissolvono e discreditano. Non gli sembra più possibile, dopo l'Umanesimo, includere l'uomo in un universo compatto e indecomponibile e comunque questo tentativo non può essere più intrapreso con la violenza e giustificando la guerra santa. E' assurdo che il sovrano si presenti come imago dei: nessun potere politico può accentrare in sè la totalità dei valori e farsi interprete della verità. L'esperienza umana è differenziata e pretendere di riportarla ad un modello invariabile non può che essere abusiva coercizione; ciò che l'individuo sa e ciò che sente in modo autentico, lo deve alle sue acquisizioni personali. Il pluralismo relativistico Tutto il lavoro del pensiero deve tendere a farci vivere bene e cioè secondo le nostre più autentiche disposizioni, anche se il vivere in modo sano e con gaiezza implica una condotta saggiamente ispirata alla giusta misura e proporzione. Questa visione dell'esperienza umana accetta l'idea della relatività. C'è in Montaigne una specie di pluralismo relativistico e, se si vuole, anche di pluralismo scettico: l'idea di una legge naturale che rimanga inalterata in tutti i tempi ed in tutti i luoghi non corrisponde alla effettività delle cose. Ogni paese, ogni comunità ha i suoi propri usi e costumi e non vi è conoscenza fatta di regole universali. Montaigne vuole soddisfare le sue curiosità intellettuali attraverso la scoperta della molteplicità, della relatività e della differenza come caratteri insopprimibili degli esseri e delle cose. Il relativismo di Montaigne non è stasi morale o fuga dalle responsabilità culturali e il suo scetticismo è di alto profilo e può Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo perciò combattere gli scetticismi più volgari e di moda che crescono anche all'ombra delle grandi fedi e dei grandi principi. Il suo senso della relatività non si converte in un definitivo pessimismo antropologico bensì nella ricerca di una naturalità della condizione umana. La natura esige per Montaigne una disposizione umana ad evitare l'inutile austerità e penitenziali e le abusive scissioni fra anima e corpo. La natura chiede anche ad ogni esistenza consapevole di prendere confidenza con l'idea della morte: ogni meditatio mortis è, come lui dice, una educazione alla libertà. Non bisogna vedere la morte come un'incombenza drammatica che spezza e distrugge tuttto ma considerarla come culmine di un processo naturale in qualche modo più desiderabile di una condanna dell'uomo all'eternità; l'importante è che la morte trovi l'individuo operoso, non atterrito da essa e neppure troppo angosciato di non aver potuto completato il proprio lavoro. Nel pensiero di Montaigne è valorizzata l'esperienza della solitudine come condizione di affinamento spirituale e anche di più autentica rapportualità con gli altri individui concreti. La vita sociale non deve essere un meccanismo che assorba interamente l'uomo: che ciascuno partecipi doverosamente e dia il suo contributo alla collettività ma che ciascuno si riservi un "retrobottega" nel quale possa stabilire la sua vera libertà e riconoscersi nella sua più profonda ed irripetibile umanità. Libertà e conformismo Le intuizioni e le analisi umanistiche di Montaigne incontrano però un limite che ha una sua drammaticità: egli non pensa che nel suo tempo malato le prospettive ispirate alla pacatezza dei giudizi e alle idee di comprensione, di tolleranza e di reciproca garanzia abbiano possibilità di un loro riscontro nel mondo politico. Si apre allora nel pensiero di Montaigne una spaccatura fondamentale: da una parte c'è il saggio con la dignità della sua autonomia esistenziale ma dall'altra parte c'è una società che fa larga parte al fanatismo. Per sanare questo contrasto non si intravede una soluzione prossima umanisticamente soddisfacente. Ciò che allora si può fare è non rinunciare alla libertà interiore, cercando però di adeguarsi nell'agire pratico al costume esistente ed alle leggi ricevute, confidando che l'ordine esterno dia un rassicurante equilibrio alla coesistenza. L'individuo accetti certe assuefazioni all'esteriorità, non faccia del suo mondo interno la misura di tutto ma anche quando si adegua all'ordine esterno non rinunci alla sua riflessione critica e cerchi sempre di rispettare e temere la sua ragione e la sua coscienza. Secondo Montaigne l'esercizio della libertà interiore è fondamentale presupposto dell'emancipazione umana. Viola Donarini Sezione Appunti Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo