Giambattista Vico
Società e storia
Vico si oppone ad una razionalità, come quella di Cartesio, fondata su delle idee chiare e distinte e su corollari e deduzioni di tipo quasi geometrico; ciò che l'uomo possiede è solo una ragione incompiuta e problematica, che riflette la complessità, l'inadeguazione e l'ambiguità della condizione umana. Questa ammissione dell'incapacità di dominare razionalmente il mondo non comporta tuttavia uno scacco totale della conoscenza, né significa abbandono del bisogno che l'uomo ha di conoscere; esprime piuttosto una consapevolezza critica che chiede alla ragione di spostarsi da un campo in cui è preclusa la conoscenza ultima delle cose ad un altro campo meglio commisurato alla portata delle verità umane e dove le facoltà intellettive dell'uomo possono avere nuovi sviluppi e maggiori successi. Il nuovo mondo che si apre alla conoscenza è quello della storia, un mondo trascurato dalla ragione perché più esposto ai flussi e riflussi di un'esperienza sempre instabile e lacerata dalle controversie. Eppure questo mondo della storia è il solo che ci appartiene veramente, quello che possiamo esplorare più direttamente perché è il mondo in cui viviamo e che noi formiamo. Il problema di Vico è quindi di svincolare il sapere dagli assiomi della logica pura, la quale può produrre solo artificiali coerenze intellettuali, e di riproporlo invece come un sapere storico legato a ciò che fanno gli uomini nel loro sforzo di rendersi umani. Questa realtà storica non è completamente autonoma perché ha un intrinseco rapporto con la metafisica e con la provvidenza divina ma in essa l'uomo ha introdotto, con il suo pensare ed il suo agire, una seconda natura rispetto alla natura originaria creata da Dio. L'uomo può chiedersi che cosa la storia rappresenta nella sua vita perché lui stesso è un essere storico e contribuisce con la sua storia personale alla storicità delle cose del mondo. La storia perciò deve essere indagata e trovata nella mente stessa dell'uomo ed essere considerata come una scienza dello spirito, nel senso che essa riguarda non oggetti che rinveniamo come già dati in natura ma oggetti che formiamo con le nostre realizzazioni e che sono inclusi nelle nostre competenze. Le dimensioni storiche sono diverse da quelle puramente naturalistiche e tale diversità va conosciuta nelle sue potenzialità e nei suoi limiti. Nella storia non tutto è dato una volta per sempre, gli sforzi non sono mai conclusi e gli equilibri sono sempre da rifare; la storia è sempre in creazione di se stessa e in questa sua costante dinamicità sussiste un profondo legame, una reciproca immanenza tra il farsi dell'uomo e il farsi delle nazioni, fra le tensioni esistenziali e gli sforzi collettivi. Questa "scienza nuova", come Vico la chiama, non si basa né su equazioni esatte, né su rapporti geometrici, né su formule meccaniche.
Il vero ed il certo
Vico intraprende dunque il tentativo originale e difficile, non compiuto prima in queste forme, di studiare il mondo in quanto mondo storico e di farne la matrice stessa sia delle idee umane, sia delle azioni umane che quelle idee riflettono ed insieme ispirano. Se conoscere vuol dire penetrare il reale per cercare come i fenomeni si sono progressivamente formati ed articolati nel mondo, la storia è, in certo senso, il massimo della conoscenza perché cerca di comprendere, sondandone i segreti più profondi, la complessità dei processi attraverso cui l'uomo è passato dalla ferina animalità alla consapevolezza della sua capacità creativa e dalla istintuale spontaneità alla valutazione critica del suo agire. Il metodo di questa scienza nuova è per Vico una combinazione di verità e certezza o, se si vuole, di filosofia e filologia. La ragione è sempre in cerca di principi più coerenti ma la ragione di per sé non basta ed essa non ha presa sul reale se non attraverso la mediazione dell'esperienza, attraverso il confronto di quell'umano arbitrio che non è affatto arbitrario ma espressione della libertà dell'uomo come essa si determina nelle forme particolari di ciascuna attività umana. L'autorità dell'umano arbitrio è quella della vita pratica a cui bisogna riferirsi quando, come sempre avviene nella storia, la verità non è deducibile da misure logiche ed etiche prestabilite. Filologia vuole dire, quindi, accertamento realistico dell'originale natura di ogni elemento della realtà ed analisi specifica delle loro mutevoli combinazioni, perciò cogliere la verità di una cosa vuol dire conoscere storicamente le cose, vedere cioè come esse si sono progressivamente formate, come definiscono e come mutano i loro significati e le loro rilevanze, come si unificano con altri elementi della realtà e come si distinguono e si separano. Per Vico le cose sono fenomeni reali, storicamente determinati; sorgono in un certo modo, in un certo contesto di situazioni, si sviluppano in una certa trama di rapporti e hanno nel tempo la categoria esplicativa del loro essere. Il tempo non è tuttavia costituito, per Vico, da successioni meccaniche e da durate puramente metriche, non è commisurazione passiva dello svolgersi inconsapevole degli eventi: esso è dotato di un suo significato qualitativo e porta l'uomo verso una consapevolezza critica del suo destino. La scienza storica è così scienza delle idee umane come esse si formano nel tempo. Misura della qualità delle idee, la storia cerca di promuovere quella "benigna interpretazione" della vita che possa giovare al genere umano e, perciò, il senso umano della storia è lontano sia dall'abuso idealistico, sia dall'abuso materialistico ed utilitaristico. Vico non vuole, come chiedono gli Stoici, "l'ammortamento dei sensi" ma non vuol neppure che i sensi siano, come per gli Epicurei, la regola di ogni cosa; per i loro estremismi questi filosofi, stoici ed epicurei, sviluppano attitudini poco sociali e poco storiche.
Il diritto naturale delle nazioni
La storia umana che connette le esperienze personali e collettive ha le sue radici in "una storia ideale eterna"; c'è quindi un'universalità ed eternità della storia che penetra con i suoi significati qualitativi nelle molteplici forme ed espressioni della vita umana e sociale, costituendo un fondo comune di idee, simboli, valori. I vincoli accomunanti della storia non sono però necessità predeterminate, non corrispondono ai canoni di un giusnaturalismo dogmatico ma si formano attraverso quel "senso comune del genere umano". Il "diritto naturale delle genti" si fonda sulla "necessaria convenevolezza delle medesime cose umane" e l'origine dei suoi valori comuni è spontanea ed involontaria. Dove c'è sforzo di rendersi umani, lì c'è storia; dove si tenta di superare il puro condizionamento naturalistico, lì si forma la consapevolezza storica degli uomini e si crea la consustanzialità dei loro destini. Ci sono due "borie", come Vico le chiama, che violano l'esperienza storica comune: - la boria delle nazioni, la quale presume arbitrariamente che i valori positivi di una civilità siano personificati solo da una nazione cui deve, perciò, competere una priorità nella spiegazione del divenire sociale del genere umano e che, in base a tale supremazia, si sente legittimata ad imporre alle altre nazioni la sua logica del dominio. Per Vico, invece, la storia non emana da un luogo privilegiato e nessuna forza collettiva organizzata può proporsi come principio causativo del corso storico; egli contesta così che Roma abbia fondato il diritto delle genti e che lo abbia reso patrimonio comune dei popoli solo perché lo ha imposto con la sua egemonia. Quale che sia l'origine specifica del diritto delle genti, esso ha potuto attecchire altrove perché c'è un comune linguaggio delle nazioni. Lottando contro la boria delle nazioni, Vico si oppone all'idea che i valori della storia possano separarsi dalla vita generale ed essere personificati dall'esclusivismo di una sola parte; la storia è contestuale all'esistenza di tutti, anche se ciascuna delle molteplici componenti di una società globale presenta diversi gradi di consapevolezza e differenze di potenziale. - La boria dei dotti, dei saggi, dei filosofi, di chi pensa di poter avere la verità come prodotto diretto della propria intelligenza: i dotti devono liberarsi da questa presunzione assolutistica, se essi conoscono la verità è perché la ricevono dal mondo.
Storia ed umanesimo
La storia non è una forma generale ed onnicomprensiva dove tutto diventa indistinto ed interscambiabile ma va vista come sforzo, sempre incompiuto, attraverso cui l'uomo cerca di assumere consapevolezza della propria esperienza. Prima l'uomo, dice Vico, semplicemente agisce ma senza coscienza del suo agire, poi sente il fascino ed il timore di ciò che sta facendo, percepisce il senso delle sue creazioni, si rende conto che le sue attività non lo attraversano semplicemente ma emanano da lui. E' il momento dell'incipiente consapevolezza dell'uomo, che è anche un momento di sgomento perché l'uomo che si riconosce artefice delle cose dubita di poterle interamente padroneggiare. Queste fasi del sentire e del conoscere umano non sono tuttavia distribuite in senso longitudinale; l'ultima non esclude le precedenti e sono sempre possibili ritorni ed involuzioni. Considerate nella prospettiva di una filosofia della storia, queste fasi assumono anche una loro specifica configurazione sociale. La prima fase è dominata da un gigantismo abnorme e si presenta come la fase ciclopica della vita, la fase dei mostri che non hanno fattezze e dimensioni umane. La vita storica comincia ad articolarsi quando questa informità, questa mostruosità degli esseri e della cose può essere ridimensionata, quando nelle cose si creano le prime differenziazioni. Così anche i costumi propri delle nazioni barbare assumono nelle nazioni civili una loro diversa configurazione, aspirano ad esprimere significati più qualitativi. Tre elementi spiegano la genesi e gli sviluppi dell'umanesimo e della realtà storica: 1) il sentimento religioso, inteso come coscienza dell'uomo di non potersi risolvere tutto né nella sua animalità né nella sua intelligenza e di dovere cercare perciò qualcosa di superiore rispetto alla propria effimera presenza nel mondo; 2) il pudore, per cui l'uomo si vergogna della nuda fisicità naturalistica che lo accomuna agli altri animali e sente il bisogno di coprire la propria animalità e di dare ad essa un segno diverso. Dal pudore nasce il matrimonio e sul congiungimento dell'uomo e della donna si riflette il simbolismo umano della discrezione dei sentimenti, che protegge l'intimità e la trasforma in un valore morale; 3) la cura dei morti, l'obbligo etico di non lasciarli abbandonati perché si sente che la vita non si spegne mai definitivamente e che quindi anche nel corpo inanimato c'è un valore da proteggere con pietà, un valore che la dimensione terrena non ha tutto consumato. La vita collettiva è comunque sorretta da una provvidenza che è insieme divina e storica ma c'è nel mondo anche la mediazione di un principio di involontarietà collettiva (quasi la prefigurazione di una mano invisibile della storia) che, accettando l'uomo così com'è, cerca di farne, con il sostegno della legislazione, i buoni usi nell'umana società. Vi è un elemento intenzionale nella costruzione del mondo ma le società globali non sono tutte deducibili dalle volontà coscienti dei singoli individui; il principio della eterogenesi dei fini è fatto proprio da Vico. I valori umani, nella loro intenzionalità così come nella loro involontarietà, sono comunque sempre sforzi di valorizzazione, così come la ragione storica è la costante tensione degli uomini verso quella mente pura alla quale tuttavia non si giunge per illuminazione repentina ma attraverso un impegno conoscitivo e pratico sempre incompiuto, affidato ad energie umane sempre difettive.
Le fasi della storia
Il processo di questa valorizzazione storica è sempre lento e discontinuo e Vico cerca di definire le varie specie di nature, di costumi, di diritti, di linguaggi, di regimi politici, di autorità che si susseguono e si confrontano nell'intreccio delle esperienze umane. Nella prima fase dello sviluppo dell'umanità c'è una grande debolezza di raziocinio: in questa fase gli uomini temono spaventosamente gli dei che si sono loro stessi immaginati. La divinità (come Vico la vede) è, a questi albori della vita umana, una forza quasi terrificante che si vive con sgomento. In questa fase tutto è demandato al volere di Dio e tutto si riduce ad un'interpretazione della sua volontà; l'oracolo e la profezia sono i modi di intendere questa volontà divina che si manifesta attraverso i presagi e che esige dei sacrifici. Questo dominio integrale si estende alla morale, al diritto, ai comportamenti pratici e di fronte ad esso l'uomo non ha possibilità di vera realizzazione e non può far valere autonome prerogative. La seconda fase è quella che Vico chiama degli eroi. In questo stato eroico, forte e rude della vita, l'ufficio di Dio è esercitato da esseri che si considerano da Lui prediletti e privilegiati; l'eroe è un uomo ma nella mentalità collettiva rappresenta quasi una forza divina ed agisce perciò nelle vicende terrene con uno statuto speciale diverso da quello degli altri uomini. Il mito dell'eroe è fondato su una aristocrazia dello spirito e del potere e questi eroi imprimono la loro verità al mondo in modo non troppo dissimile da quello della divinità. Questi eroi però sono nel mondo anche per agire e per produrre e le loro grandi imprese sono soprattutto imprese di guerra. Questa fase eroica della vita vede tutto convergere verso l'ossequio alle virtù esemplari, alle doti superlative che certi uomini hanno rispetto ad altri. Il linguaggio religioso che si rivolge a Dio è quasi un linguaggio muto, fatto di preghiere e di contemplazione, strumento di comunicazione tra un essere inferiore ed un essere sovrumano, comunicazione prestabilita nelle forme dell'ossequio e della subordinazione. Allo stesso modo il linguaggio di un mondo fondato sul culto degli eroi è un linguaggio che deve rendere omaggio alle loro virtù supreme e che ha quindi,anch'esso,un fine essenzialmente apologetico. Il culto degli eroi presuppone un mondo brutale, senza mediazioni, che non può farsi carico di problemi umani comuni, tanto grande è la sproporzione tra l'eroe e gli altri e tanto drammatica è l'idea che si ha dei rapporti fra gli individui e le comunità. E' questo il mondo delle guerre non regolate, del diritto della forza, della giustizia violenta tuttavia anche questo mondo, in cui si temono spaventosamente gli dei e si idolatrano gli eroi, mette in movimento la vita storica dandole una scossa rude. In queste fasi, divina ed eroica, della storia umana non vi è solo passività ma anche una vitalità capace di tradursi in sollecitazioni innovative che preparano la terza fase del mondo che è la fase umana. In questa terza fase si scopre che tutto ciò che la storia esprime di libertà e di attività non è intangibile privilegio di qualcuno ma un bene che può essere acquisito dalla generalità degli individui. Vi è quindi in questa storicità umanizzata il recupero di una dimensione orizzontale del tempo e della vita nella quale l'uomo si confronta e dialoga più direttamente con l'altro uomo. Di qui il recupero di una lingua che non è più inibita come quella che deve trasmettere solo timore e devozione ma che si scioglie per mettersi in relazione con bisogni, interessi, idee, simboli che esprimono fatti e misure normali del coesistere. Questo linguaggio serve anche per gli affari civili ed adempie ai compiti inerenti all'organizzazione delle funzioni sociali e pubbliche. Il bene comune, in questa fase umana, non è più un segreto imperscrutabile di Dio che si trasmette solo attraverso gli oracoli o un segreto degli eroi che si disvela attraverso le loro gesta eccezionali ma si articola in una pluralità di determinazioni e ciascun uomo è legittimato alla sua fruizione. Sorgono così le repubbliche popolari, comunanze di vita in cui ci sono articolazioni ed equilibri multipli, in cui si afferma un criterio di coordinazione e di equilibrio che vince la logica della indiscriminata confusione o sottomissione e che evita, d'altra parte, la disgregazione generale. Questa diversa intuizione della storicità si trasmette al mondo giuridico ed alla organizzazione politica; da questo deriva l'affinamento della cultura, della sensibilità e il perfezionamento degli strumenti vantaggiosi al vivere comune.
Monarchia e governo popolare
In questa fase umana della storia Vico distingue due forme di regime politico, quello popolare e democratico e quello monarchico; entrambi sono governi umani ma quello monarchico risponde meglio, a suo giudizio, ai bisogni di una società evoluta ed ordinata. Nel regime popolare la gestione della cosa pubblica è affidata alla generalità dei cittadini e questa potrebbe apparire la fase più consapevole e matura dell'evoluzione politica, come pensano i teorici della democrazia; Vico attribuisce però un più positivo carattere alle istituzioni del regime monarchico: egli sostiene che nelle repubbliche popolari le plebi o si corrompono in "repubbliche di potenti" o degenerano nell'anarchia. Il governo popolare, fondato su un'uguaglianza indiscriminata, rischia per lui di rendere l'ordine sociale più labile ed insicuro e quindi meno governabile. La monarchia, a suo giudizio, continuerebbe a parteggiare per il popolo, essendo idealmente una fase successiva a quella popolare sorta per evitare gli inconvenienti di una democrazia assoluta ma comunque sempre influenzata da tutto il simbolismo democratico che il regime monarchico vuole solo correggere e disciplinare e non negare. Rispetto al governo popolare la monarchia avrebbe comunque alcuni vantaggi e soprattutto quello di separare la dimensione civile da quella politica, liberando gli affari privati e gli affari pubblici da quella ibrida mescolanza e promiscuità che si manifesta nei governi popolari. La monarchia lascerebbe ai privati ampi spazi civili per l'esercizio delle loro libertà creative e la sua funzione sarebbe di tenere libera e sicura la generalità dei cittadini dall'oppressione. La monarchia si occupa prevalentemente della governabilità dello stato e rende liberi gli individui nella sfera delle transazioni private, garantendo tuttavia alla società civile leggi ispirate a principi di equità naturale che impediscano arbitri e prevaricazioni. Vico ribalta quindi la successione storica delle forme di governo in monarchica e popolare: non prima la monarchia e poi la repubblica popolare ma prima la repubblica popolare e poi, come espressione di una politica più evoluta, la monarchia intesa però in un senso di monarchia costituzionale e limitata.
Autorità e ragione
In un regime politico umanizzato il fine dell'organizzazione politica è la diffusione del bene e questo bene assume sia un carattere ideale e morale, sia un carattere materiale e utilitaristico. Per valutare la natura di questo bene pubblico e le sue possibilità di applicazione non serve una ragione di tipo cartesiano, bisogna ricorrere a strumenti cognitivi più aperti e più flessibili. La realtà politica è influenzata e sorretta da tre "ius o ragioni", da tre principi fondamentali che sono l'idea del dominio, della libertà e della tutela: - il dominio esprime la padronanza dei fenomeni sociali; - la libertà consiste nell'" uso temperato delle cose utili"; - la tutela è "la forza, dalla virtù dell'animo (fortezza) governata". Questi principi sono a loro volta connessi all'azione di un criterio di "giustizia rettrice" che interviene nelle cose di pubblico interesse e all'azione di un criterio di "giustizia equatrice" che si adopera in quelle di interesse privato. Verità ed equità devono essere immanenti ad un interesse umanistico della giustizia. Lo storicismo di Vico ha nell'umanizzazione della vita personale e collettiva un suo costante riferimento ideale. I valori della provvidenza che agiscono nel mondo suscitano la fede necessaria a credere che dalla feccia iniziale della bestialità e della libidine sia possibile il passaggio delle virtù civili; la storicità di Vico tuttavia non è quella degli Illuministi e non c'è in lui l'idea di un progresso lineare ininterrotto e indefinito affermato come splendida fatalità delle vicende umane. La storia di Vico ha ancora un andamento ciclico e la sua teoria dei corsi e ricorsi gli serve appunto a smentire l'illusoria presunzione che la legge storica dell'umanità sia legata a un determinismo del bene e della ragione; la storia non dipende solo dalla forza della verità, su di essa esercita un ruolo fondamentale anche la forza dell'autorità che non ha una sua logica riconducibile a idealizzazioni etiche. Non è realistico, d'altro canto, immaginare che le "istituzioni di pace" riescano a soppiantare radicalmente nella società le "istituzioni di guerra" e che sia possibile mettere ordine negli affari umani solo attraverso la forza persuasiva della cultura. Vico denuncia gli orrori e le distruzioni della guerra ma ammette che sono necessarie quelle guerre "in cui gli uomini combattono per sistemare le cose" e sostiene che se soluzioni pacifiche non sono possibili fra i popoli " le guerre sono tribunali del diritto". Non c'è in Vico l'idea di una storia come sicura selezione e valorizzazione di esperienze positive e come dilatazione necessaria e progressiva di un umanesimo rassicurante. L'umanità nasce nella grossolanità e nel furore, si allontana poi dalla brutalità e dalla violenza e diventa più matura e più capace di consapevolezza critica; in questa acquisita natura più benigna, gli elementi della benevolenza e del rispetto per gli altri si inseriscono nell'esperienza umana e assumono rilevanza sociale. Questa benignità può a sua volta ammorbidire i costumi, le sensibilità e le virtù umane e la ricerca di maggiori comodità e di maggiori godimenti può, oltre un certo punto critico,corrompere il vivere civile. Gli eccessi della benignità possono dunque tradursi in forme di disimpegno, di egoismo e di particolarismo che fanno entrare la società in uno stato di crisi e di decadenza. Il cerchio storico di Vico parte quindi dalla fase della brutalità e della rozzezza, poi c'è un attenuarsi di questa virulenza e una disposizione a cercare e valorizzare beni sconosciuti. Quando questi vantaggi sono stati acquisiti e si diffondono, essi possono però provocare fenomeni di decomposizione nel lusso, nel piacere, nella facilità dei costumi, nello scadimento delle qualità critiche del sapere. Dalla primitività si passa all'accettazione della disciplina, alla perspicacia, all'attitudine alla ricerca ma da questi valori si può poi decadere nell'astuzia, nella frode, nella dissoluzione, situazioni negative che la vita storica cerca successivamente di superare ricominciando il percorso. Questo ripercorrere il tragitto non implica tuttavia una regressione all'origine:i corsi e i ricorsi della storia consentono comunque un accumulo di conoscenze e di esperienze e perciò la dinamica storica non ritorna semplicemente ad un punto iniziale ma si muove a spirale. La vita storica ritorna su se stessa ma risentendo di tutto ciò che ha fatto e pensato, per cui sono possibili nuove forme di brutalità così come sono diverse le nuove forme dell'equità umanistica.
La storia è incapace di separare nettamente il bene dal male e di garantire in modo deterministico il trionfo del progresso.
Continua a leggere:
- Successivo: La filosofia dell'Illuminismo
- Precedente: John Locke
Dettagli appunto:
-
Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
Altri appunti correlati:
- Storia Moderna
- Diritto costituzionale comparato
- La società aperta e i suoi amici
- Appunti di Diritto pubblico
- Political Philosophy (Modulo 1 e Modulo 2)
Per approfondire questo argomento, consulta le Tesi:
Puoi scaricare gratuitamente questo appunto in versione integrale.