Bernard Mandeville
Virtù, vizi e società
Nell'operetta La favola delle api, pubblicata da Mandeville, si sostiene che la moralità tradizionale non corrisponde alla natura umana ma è soltanto il prodotto di convenzioni artificiali che, se rispettate nel loro sistematico precettismo, lungi dall'apportare vantaggi alla collettività, assumerebbero un carattere antisociale e diventerebbero fonte di miseria. La vita umana è per Mandeville un intreccio inestricabile di impulsi, passioni, emozioni, sentimenti, interessi non governabili da regole etiche stabilite per la tutela di presunte virtù intangibili. Le convenzioni morali sono di continuo trasgredite, aggirate, strumentalizzate e anche quando sembrano rispettate, ciò non dipende da un loro intrinseco valore bensì solo dai condizionamenti del conformismo e dell'assuefazione. Gli individui appena possono cercano di ingannare i propri simili e la natura umana è animata dalla tendenza a volgere tutto a proprio profitto. Solo i desideri e le passioni muovono le attività soggettive e la conoscenza degli appetiti, delle forze, delle debolezze degli esseri reali è più importante che non l'astratta teoria di virtù che non esistono o che sono improduttive. Se chiamiamo vizi i moventi effettivi dell'azione umana, in contrapposizione a quelle che si considerano le facoltà etiche superiori dell'uomo, si deve constatare che tali vizi non regrediscono nello sviluppo storico ma anzi si estendono e si complicano. L'uomo non ha quei caratteri di bontà, di benevolenza, di affabilità che una tradizione spiritualistica gli attribuisce; il sistema dell'etica cristiana, con i suoi principi metafisici, può valere nell'interiorità di coscienze particolarmente sensibili ma non è accertabile come verità preponderante della vita sociale. L'ipocrisia moralistica e gli entusiasmi sentimentali non fanno avanzare la conoscenza dell'uomo e della società. Quello che Mandeville raffigura è un mondo umano e sociale aspro e competitivo, dominato tuttavia non tanto da uno spirito di violenza e di mutua espropriazione, quanto dal gioco molteplice della vanità, matrice comunque non solo di dissipazione e parassitismo ma anche di creatività. Nella dinamica dei bisogni umani ciò che soprattutto conta è la ricerca del benessere, del piacere e dell'utilità che mette in crisi il mondo dei valori morali prestabiliti. In questo suo pessimismo antropologico Mandeville esamina impietosamente i comportamenti dei diversi ceti sociali del suo tempo, a cominciare da quelli privilegiati, illusoriamente considerati personificazione delle virtù personali e civili e sempre pronti invece ad esercitare in modo subdolo i loro vizi ed a reagire con virulenza quando i loro interessi vengono contrastati. Le passioni non si correggono con la ragione e l'educazione e se mai qualcosa può distogliere gli individui da ciò cui erano naturalmente propensi, "ciò che è solo un mutamento della loro condizione economica". Se questi mutamenti di status sociale e di reddito modificano le opportunità ed i modi di praticare i vizi, non ne correggono però radicalmente la loro intrinseca natura.
Il confronto con Hobbes
Il pessimismo di Mandeville sembra derivare da quello di Hobbes ma le analogie non vanno oltre certi limiti: i vizi e le passioni, anche se riprovevoli dal punto di vista dell'etica tradizionale,non sono per Mandeville strumenti di disgregazione e di conflittualità tali da richiedere, per garantire la pace sociale, un intervento dell'autorità assoluta e incondizionata del sovrano; essi hanno invece una loro capacità di mediazione, di combinazione e di produttività sociale. I vizi che rompono gli argini loro imposti da un regime immobilistico e tradizionalistico riescono, con la loro dinamicità, a procurare dei vantaggi collettivi creando una società più complessa e più ricca in grado di soddisfare un insieme di bisogni umani che l'uomo primitivo non conosceva e a cui invece l'uomo moderno non vuole rinunciare. Il vizio ha, in qualche modo, un'energia che possiede la virtù. Una collettività bene ordinata trae profitto dalla salutare mistura di ingredienti eticamente inferiori; frugalità, austerità, legge etica della povertà non rendono più confortevole la vita sociale e perciò il moralismo e miseria generale vanno di pari passo. Egli insiste nel suo convincimento che il meccanismo produttivo è un fattore di incivilimento anche se, o proprio perché, contiene un'aliquota non eliminabile di perversità. Se invece ci si compiace dell'immobilismo di condizioni primitive e retrograde, si dovrà constatare che in esse dominerebbero l'indigenza e la privazione, cose poco utili d'altronde allo sviluppo delle stesse virtù morali perché la miseria moltiplica le corruzioni e gli egoismi. Gli impulsi particolaristici e i calcoli utilitaristici, anche se appaiono vizi privati, possono invece, attraverso le loro combinazioni,mediazioni e compensazioni, trasformarsi in benefici pubblici. L'esperienza dimostra tuttavia che le passioni possono comunque combinarsi ed equilibrarsi in modo tale da cooperare. La grande arte di rendere prospera una nazione non consiste nel discriminare aprioristicamente i vizi e le virtù ma " nel dare a ciascuno la possibilità di lavorare ". Gli uomini sono per natura egoisti, anarchici e testardi ed è inutile attendersi che le perorazioni moralistiche o gli atti potestativi riescano a debellare queste loro inclinazioni; meglio è fondare la socialità dei cittadini sulla consapevolezza di doversi dare volontariamente assistenza. Questo discredito del ruolo delle virtù nella vita sociale ed economica e l'apologia della produttività del vizio sanciscono certo una netta separazione fra l'etica e la politica tuttavia i vizi di cui parla Mandeville non sono tutti ostinazioni singolaristiche e impulsi indissociabili e gli interessi che da essi emanano sono comunque sempre bisognosi di mediarsi con gli interessi altrui. Anche se ispirate da moventi poco qualitativi, tali mediazioni non sono comunque imposte coercitivamente dal potere ma risultano dalla logica del libero svolgimento delle azioni umane.
La libertà e la legge
L'individuo, anche se non è un essere eticamente puro, non deve negare radicalmente la dignità dei suoi simili. Non bisogna far violenza alla coscienza di nessuno e questo vale come remora all'imposizione di verità etiche e religiose ed anche come limite allo sfruttamento dei più deboli da parte dei più forti; la temperanza è regola generale anche delle passioni. Correggendo certe esasperazioni del suo pensiero, Mandeville sostiene che la vita sociale ed economica non deve essere abbandonata alla completa anarchia ma bisogna intervenire con atti deliberati per garantire la proprietà, prevenire e punire i delitti, applicare saggiamente e rigorosamente le leggi concernenti l'amministrazione della giustizia e per impedire che si faccia violenza alla coscienza dei cittadini. Ciò che rende confortevole la vita non è il puro azzardo ma lo sforzo di rendersi ragionevoli e di cercare rimedi efficaci per i reali motivi di disagio. La ragione però non può tutto: il pensiero deve adattarsi a coesistere con le correnti libere dell'esperienza e con la creatività spontanea. Anche se non è dato eliminare dalla vita sociale la pluralità e la divergenza, si possono disciplinare attraverso un ordine normativo in grado di stabilire le regole generali di condotta. Il primato della legge è una garanzia contro l'arbitrio del sovrano, così come contro l'anarchia dei cittadini; le preferenze di Mandeville vanno a quelle "monarchie costituzionali" in cui "i diritti e i privilegi del parlamento e le libertà e la proprietà della gente sono garantiti dalla costituzione e il re non può prenderseli per sé". Tale ordine politico contiene anche elementi democratici perché in esso "una gran parte della sovranità resta virtualmente nel popolo, anche quando questo non ha rappresentanti". La prosperità del corpo sociale è tuttavia favorita dalla rinuncia a mutamenti radicali dell'ordine istituzionale esistente. La temperanza riguarda perciò il mondo delle istituzioni, così come quello dei comportamenti umani e sociali. La società che egli preconizza non sembra, d'altra parte, così aperta da coinvolgere nella sua intensa dinamicità l'insieme delle classi sociali e da estendere a tutti i cittadini quelle opportunità economiche tradizionalmente connesse ai ceti dominanti. Bisogna aiutare i poveri ma è anche interesse di una nazione ricca che essi abbiano un salario non troppo eccedente i bisogni della loro sussistenza e non possano perciò accumulare risparmi, pur dovendosi consentire ai lavoratori più solerti e capaci di sollevarsi al di sopra della loro condizione.
Tali remore conservatrici in materia economica risultano poco compatibili con l'idea fondamentale di Mandeville che solo un meccanismo produttivo liberalizzato possa, malgrado i suoi limiti morali, contrastare discriminazioni artificiali e rivelarsi vantaggioso per la generalità delle parti sociali.
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
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