Thomas Hobbes
Ordine sociale ed assolutismo
Hobbes è considerato non solo come fautore dell'assolutismo ma anche come il primo teorico dello stato moderno; ciò pone subito il problema della plausibilità di parlare di stato moderno in riferimento all'assolutismo.
Hobbes, lucido sostenitore della sovranità dello stato, rivela una sua modernità per aver denunciato come illusoria e retrograda una politica fondata su corporativismi ed organicismi tradizionali arbitrariamente sacralizzati e sulla presunta forza obbligatoria di leggi di natura autosufficienti ed autostabili, capaci di fondare l'ordine sociale solo in virtù di un loro ascendente qualitativo metafisicamente legittimato. Deve considerarsi moderna anche la sua vocazione a dare all'individualità un valore significativo nella dialettica politica.
Egli ribadisce che:
- "tutti gli uomini sono uguali fra loro";
- "la differenza tra uomo e uomo non è così notevole da consentire che uno reclami per sé un qualsiasi vantaggio senza che un altro faccia lo stesso con il medesimo diritto";
- per libertà deve intendersi "assenza di impedimenti esterni";
- "il fine dell'obbedienza è la protezione";
- per protezione del bene dei cittadini "non si deve intendere soltanto la conservazione, comunque della vita, ma di una vita per quanto possibile felice";
- "la giustizia, ingratitudine, arroganza, orgoglio, perversità, parzialità non possono mai essere rese legali";
- "gli uomini devono avere la libertà di agire nel senso suggerito dalla propria ragione come il più vantaggioso per essi";
- in uno stato bene ordinato "vi saranno necessariamente infinite attività che non risulteranno né comandate né proibite e che ciascuno potrà svolgere o non svolgere a suo arbitrio";
- le leggi "non sono state inventate per reprimere l'iniziativa individuale ma per disciplinarla";
- "l'esistenza di più leggi di quel che sia necessaria al vantaggio dei cittadini e dello Stato è contraria al dovere di chi governa";
- la "libertà è utile allo Stato e necessaria ai cittadini per vivere in tranquillità";
- "le leggi dello Stato sono come le regole del gioco" alle quali ci si deve adeguare se ritenute valide;
- deve essere tutelata la libertà "di comprare e di vendere e di stipulare qualunque contratto con altri";
- ciascuno deve essere libero di "scegliere il luogo della propria residenza";
- la proprietà come istituzione economica utile alla produzione ed alla pace sociale deve essere riconosciuta.
Queste ed altre analoghe espressioni disseminate nelle sue opere sembrerebbero mostrare gli aspetti liberalizzanti di questo pensiero; la mentalità di Hobbes, come quella degli Illuministi, sembra più incline a prediligere il presente ed il futuro rispetto al passato e l'innovazione rispetto alla restaurazione. Non mancano quindi nel complesso della sua meditazione motivi che si prestano ad accreditare interpretazioni più liberali del suo pensiero ma è certo difficile ricondurre a costituzionalismo liberale e ad anticipazione di stato di diritto la sostanza di una teoria che esplicitamente ammette e legittima l'assolutismo. Le sue fondamentali prese di posizione teoretica sembrano inequivocabili: dove non c'è uno stato assoluto, non si può parlare di giusto e di ingiusto perché solo ad un incontrastato potere coercitivo spetta di discriminare ciò che è utile e ciò che è dannoso, ciò che è lecito e ciò che è illecito, ciò che è eticamente positivo o negativo. Se questo positivismo giuridico esasperato contribuisce a criticare i condizionamenti e le gerarchie, esso disgrega tuttavia ogni sistema di mediazioni garantistiche fra l'individuo e lo stato e fa del "Grande Leviatano" un "Dio mortale" che accentra in sé la totalità dei diritti e dei poteri. Hobbes rifiuta, dunque, i principi della legalità giusnaturalistica e discredita anche quella ragione giuridica artificiale che, nella tradizione inglese della common law, veniva collegata ad una sapienza giuridica acquisita con lunga applicazione, osservazione ed esperienza. Un sistema di legalità derivante da una mediazione collettiva spontanea non avrebbe alcuna efficacia. I paludamenti del giusnaturalismo, del corporativismo e del tradizionalismo non sono più adatti, per Hobbes, ad esprimere ed a controllare la fenomenicità politica moderna ed i rapporti fra la società ed il potere.
Nominalismo logico e convenzionalismo etico
Hobbes è impressionato dai progressi delle scienze naturali, fisiche e matematiche del suo tempo e, al loro confronto, la scienza che studia la politica gli sembra retrograda; il suo intento è quindi di trasferire al campo della politica la precisione delle scienze. La sua ambizione è sostituire il rigore matematico alle evanescenze del tradizionale simbolismo politico ma è difficile pensare che l'estensione del metodo matematizzante abbia lo stesso risultato nel campo della psicologia umana ed in quello dei comportamenti sociali. Materialismo e sensismo sono alla base di un sapere critico che, liberando il reale dalle false sintesi spiritualistiche, consenta di conoscere gli elementi tangibili di ogni oggetto e le loro concrete relazioni. L'esigenza di Hobbes è quindi un ritorno al realismo in una prospettiva di pensiero già aperta da Machiavelli, anche se non in modo filosoficamente sistematico; questo mondo umano va scomposto e disarticolato per cogliere la consistenza fisica, tangibile, corporea di ogni singola componente. Arrivare quindi alle cose reali e sensibili, cioè ai corpi, alle consistenze fisiche, alle determinazioni materiali. Nessuna realtà può privarsi della sua materialità; lo spirito è una derivazione e modificazione della base fisica di ogni essere. Questa intrinseca dinamicità del reale obbedisce ad una fondamentale legge di attrazione e di repulsione: l'attrazione ci spinge spontaneamente ad andare incontro a certe cose per noi più soddisfacenti e gratificanti, la repulsione ci distoglie da ciò che invece ci sembra più costrittivo e più ostile. Queste due forze elementari spiegano, nelle loro azioni e reazioni, il formarsi della vita psicologica ed etica e dei sistemi personali e collettivi di simboli, valori e credenze. Da questa impostazione derivano alcune conseguenze: innanzitutto la perdita di significato di una moralità di tipo essenzialistico, quella cioè che considera le regole morali come realtà ontologiche predeterminate, da conoscere ed applicare attraverso un semplice processo deduttivo. A questo Hobbes aggiunge quello che potremmo chiamare il suo nominalismo logico, cioè l'idea che gli oggetti non si presentano al conoscere come muniti di una realtà in sé e per sé ma assumono forme e funzioni a seconda di come l'uomo li conosce ed a seconda dei rapporti nominali che si stabiliscono fra di essi; allo stesso modo la giustizia e la legge dipendono dall'uso convenzionale che se ne fa.
Individualismo e stato di natura
Tutto, in questo sistema, procederebbe in modo conseguenziale se Hobbes non complicasse le cose con il rifiuto, almeno formale, di abbandonare l'idea della legge naturale. Parti consistenti del De cive e del Leviatano sono anche trattazioni di diritto naturale al quale egli dà un certo credito, anche se non con l'intento di stabilire un compromesso con le dottrine tradizionali o di creare una fittizia compensazione al suo materialismo. Questi principi della legge naturale sono per Hobbes, come per Grozio o per Pufendorf, "dettato della retta ragione"; essi si fondano sull'equità, sulla giustizia, sulla gratitudine e si rivolgono alla ricerca ed alla conservazione della pace, in coerenza all'obbligazione etica di "non fare agli altri quello che tu non ritieni ragionevole che un altro faccia a te". Il valore della legge naturale dipende da certe condizioni di stabilità sociale e politica e di certezza del diritto senza le quali non ha senso pretendere che le virtù espresse dal diritto naturale si trasformino in un effettivo ordine coesistenziale. Senza un sistema coercitivo irresistibile (che non può esserci fino a quando non si è costituito lo stato come legge vincolante per tutti) la legge di natura non può diventare un principio regolativo della società ed il suo imperativo di cercare la pace e l'equità è soppiantato da quel "diritto di natura" che tutti gli uomini possono considerare proprio e che consiste nella "libertà che ciascuno possiede di usare il proprio potere nel senso che vuole, allo scopo di preservare la propria natura, cioè la sua vita". Le leggi di natura funzionano dunque solo se l'uomo non è turbato da contese ed incertezze che, compromettendo la tranquillità politica, impediscono alla ragione di farsi valere. Hobbes accetta quindi un certo sistema giusnaturalistico ma tutti i precetti qualitativi che esso esprime sono subordinati ad una più immediata ed universale legge di natura, o meglio diritto di natura, che impone all'uomo, per prima cosa, di salvare se stesso e cioè di perseguire, con tutti i mezzi disponibili, la propria autoconservazione. Hobbes lo dichiara in modo deciso: l'uomo deve evitare di morire in modo violento e perciò la prima legge di natura è la libertà di scampo ed il suo primo imperativo è che egli non sia privato degli strumenti che gli consentono di sfuggire o di resistere alle offese. Il diritto di natura corrispondente a questo stato di natura consente a ciascuno una illimitata possibilità di azione e di reazione nei confronti del mondo esterno, per prevenire quanto più è possibile le lesioni attraverso il dominio sugli altri. Così inteso, questo diritto di natura è essenzialmente egualitario ed ogni individuo può richiamarsi ad esso per cercare la propria autoconservazione. E' un diritto comune a tutti gli uomini, appunto perché è comune la minaccia che ciascuno può subire dal proprio simile. Hobbes dice che le disuguaglianze fra gli uomini contano poco se ciascuno ha la possibilità di ledere l'altro fino a provocarne la morte; questa possibilità è il massimo potere e tale potere eguaglia tutti. Lo stato di natura pone così l'uomo di fronte alla drammatica situazione di doversi opporre, con tutti i mezzi di cui dispone, a tutto ciò che mette a repentaglio la propria vita. La diffidenza e la paura giocano un ruolo fondamentale in questa situazione di insicurezza esistenziale e sociale. L'evocazione della socialità come struttura permanente della personalità gli sembra illusoria; quella tradizione di pensiero che da Aristotele a Cicerone, a San Tommaso, ad Altusio, a Grozio, a Pufendorf, pone l'appetitus societatis come principio ontologico o come attrazione psicologica capace di rendere gli uomini accomunati e solidali, è smentita per Hobbes dalla conoscenza e dall'esperienza. La vicinanza dell'uomo all'altro uomo non implica solidarietà, convergenze, reciproche garanzie e non crea criteri normativi autoregolativi; la condizione naturale dell'uomo è piuttosto quello stato dell'homo homini lupus, che fa dell'individuo "un animale da combattimento". Per Hobbes la socialità umana non dà sicurezza ma è sempre intrisa di tensione; essa non libera l'uomo dal suo istinto di egoismo, di potere, di arbitrio e soprattutto di vanità; nel suo pessimismo antropologico Hobbes vede l'uomo come lo vedeva Machiavelli, sempre pronto alla prevaricazione perché mosso da una indomabile aspirazione all'uso della forza, anche se combinata con l'astuzia. Rispetto a Machiavelli Hobbes accentua, però, l'incidenza della vanità nei comportamenti dei soggetti: forza e vanità portano l'io a strumentalizzare gli altri, a degradarli a semplici pedine di un suo gioco di orgoglio e di egoismo. Gli individui si associano per creare delle fazioni e dei gruppi con cui combattere meglio contro altre fazioni ed altri gruppi ma non sanno agire in modo disinteressato ed altruistico e non sanno creare spontaneamente alcun sistema stabile di rapporti coesistenziali. La forza e la vanità corrompono tutto. Con questo suo pessimismo antropologico Hobbes non riesce a concepire l'idea che l'ordine sociale si possa costituire attraverso confluenze e convergenze spontanee e che queste possano oggettivarsi nel reale e dimostrarsi capaci di reggere il peso della vita storica. Le formazioni sociali non hanno di per sé autonoma consistenza e se non fossero tenute insieme da un potere preponderante, si decomporrebbero attraverso inesauribili antagonismi e contraddizioni. La legge fondamentale di natura impone di prendere atto che la vita sociale è conflittuale e che nessun organismo sociale è dotato di principi di autostabilità. La conoscenza politica deve per lui ricercare un orientamento più realistico; si tratta di andare più in profondità nell'esame della composizione delle comunità sociali e comprendere che queste non sussistono per virtù propria ma perché una volontà dominante riesce ad imporre certi equilibri vincendo le resistenze e le tendenze disgregatrici degli elementi componenti. Nel rifiutare le idee dell'organicismo e del corporativismo sociale, Hobbes esercita una funzione critica modernizzante perché vuole cercare all'interno di questi corpi gli elementi non più scomponibili che sono gli individui nella loro specifica determinatezza. Si parla di assolutismo di Hobbes ma, prima di tutto, bisogna dare risalto al suo individualismo e riconoscere che questa direzione del suo pensiero ha certo delle assonanze con le vocazioni della filosofia moderna. Egli considera comunque gli individui come i principali protagonisti dell'esperienza sociale e, quindi, come gli indispensabili riferimenti del sapere politico. Nello stato di natura, come egli lo concepisce, agiscono individui, non corpi sociali e forze collettive; il mondo hobbesiano è un mondo di individualità uguali e libere, nel senso che in natura tutti hanno un comune diritto su tutto e possono perciò espandersi fin dove la potenza di ciascuno lo consente. Gli uomini si scoprono quindi in uno stato di completa libertà ed anche di sostanziale uguaglianza perché, se sussistono tra di essi differenze naturali, non esistono discriminazioni prestabilite. Il mondo organistico tradizionale delle strutture e delle forze collettive più o meno entificate è convertito da Hobbes in un mondo di individualità e relazioni interpersonali, un mondo in cui i comportamenti umani possono essere considerati, come voleva Machiavelli, nella loro realtà effettuale, senza restrizioni, mediazioni o infingimenti di carattere metafisico e giusnaturalistico.
Uguaglianza ed antagonismo
Hobbes ha compiuto una emancipazione dell'individuo dalle sue appartenenze, immedesimazioni e partecipazioni corporative e ha considerato gli individui liberi, autonomi, dotati di volontà e di poteri tendenzialmente equivalenti. Egli scopre però (e qui si manifesta apertamente il suo pessimismo antropologico) che "non ci può essere sicurezza per nessuno" e che "gli uomini traggono grande fastidio dal vivere in una comunità priva di un potere capace di controllare tutti i componenti". Il fatto è che per lui queste relazioni intersoggettive in cui ha scomposto il mondo sociale, giuridico e morale non sono relazioni di avvicinamento e di convergenza, non sono regolabili da forme contrattualistiche che stabiliscano fra le parti un sistema di mutue garanzie e che producano dei fatti normativi ma rimangono invece essenzialmente delle relazioni di reciproca esclusione, di diffidenza, di antagonismo, di conflittualità e come tali sempre esposte all'arbitrio ed alla prevaricazione del più forte sul più debole. Hobbes ha riconosciuto l'uguaglianza degli uomini ma ha anche scagliato nella politica la suprema maledizione del principio che gli uomini uguali sono più conflittuali degli uomini che non lo sono e che più gli uomini diventano uguali, più si rendono reciprocamente insopportabili. L'uguaglianza distrugge i valori accomunanti, genera la paura, perpetua l'instabilità, inasprisce gli impulsi inferiori e rivela la fragilità etica dell'uomo e la sua inettitudine alla coesistenza spontanea. Egli riconosce che l'uguaglianza non può governarsi da sé e che non è quindi adattabile ad uso sociale; la moltitudine sparpagliata di uguali non crea società. L'impulso egoistico dell'uomo preclude, a suo giudizio, ogni possibile interiorizzazione dell'alterità che rimane perciò una realtà esterna ed antagonistica. Per Hobbes non vi è alcuna fondata presunzione che gli antagonismi incontrollati possano convertirsi, attraverso meccanismi autoregolativi del sistema sociale, in situazioni di integrazione e convergenza. Per lui gli egoismi lasciati a se stessi non si compensano, bensì si sommano e diventano sempre più dirompenti ed ingovernabili. La sostanziale critica di Hobbes al corporativismo sociale non gli consente, d'altra parte, di mitigare la conflittualità fra gli individui attraverso il ricorso alla mediazione delle strutture. Su questa storicità come qualità umanistica dell'esistenza umana e sociale egli non riuscirebbe a fare alcun affidamento. L'uomo è per lui un essere naturale e non sono le correnti libere della storia a poter connettere e ordinare ciò che nello stato naturale è sconnesso e disordinato; l'idea di movimento presente nel suo sistema non ha un carattere storico nel senso che esso possa accumulare, discernere, selezionare criteri ideali e pratici capaci di rendere socialmente più agibili e comunicanti le esperienze umane e di volgerle al positivo. D'altro canto non assumono rilevanza nella sua teoria gli imperativi categorici o le regole divine di una morale o di un diritto superiore ed anteriore alla realtà perché tali imperativi e tali regole non funzionano se la società non è già disciplinata da norme positivamente poste e rese sanzionabili.
Politica e sovranità
Il problema che allora Hobbes si pone è di come uscire da questa situazione per raggiungere uno stato di pacificazione e di ordine. L'uomo deve rendersi conto che in questo stato naturale non può vivere la sua libertà se non come paura e insicurezza; non può affidarsi ad alcuna regola di giustizia perché in natura la giustizia è solo il diritto del più forte e non può praticare l'uguaglianza se non esasperando la diffidenza e la lotta. Si deve quindi uscire da questa anarchia e da questa inconcludenza ma con mezzi più radicali di quelli prima ipotizzati e che egli valuterebbe come precari e velleitari. La soluzione è per lui da ricercare nella costituzione di un potere centralizzato e stabile, abilitato a proclamare "in pubblico e in chiare parole quali cose i sudditi possono e quali non possano fare". Un residuo profondo di giusnaturalismo rimane nel pensiero di Hobbes e gli consente di affidare alla ragione l'inderogabile obbligazione del passaggio dall'anarchia all'ordine. Attraverso questa legge di ragione l'uomo passa dunque dallo stato di natura allo stato sociale e ci passa conferendo tutti i suoi poteri naturali ad un potere egemonico, ad un Leviatano, rievocazione del mostro biblico tentacolare che assorbe e che domina tutto. Dalla rinuncia degli uomini, che è una rinuncia razionale, nasce uno stato assoluto costruito con altrettanto impegno razionale; alla sua costituzione si perviene attraverso un procedimento al quale egli riconosce un certo carattere pattizio. Hobbes non ritiene che nello stato di natura il contratto tra individui o tra forze sociali possa esercitare una funzione di mediazione e di transazione fra interessi conflittuali e garantire una loro disciplina normativa ma questa idea contrattualistica, rifiutata sul piano delle relazioni interpersonali e collettive perché non serve alla mutua esigibilità dei diritti e delle libertà, Hobbes la considera tuttavia valida se essa assume la forma di un contratto di alienazione. Per garantire in modo più razionale la loro conservazione, tutti devono rinunciare ai loro diritti originari e nessuno deve trattenerne una parte ceduta da altri. Questo patto, che sancisce il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, implica una sostanziale parità degli uomini e una loro pari capacità di giudizio razionale. Testimonia "quasi una democrazia" perché gli uomini contrattano da uguali ma di questo contratto il sovrano non è parte contraente. Egli prende atto di una radicale abdicazione degli individui e si appropria di tutte le cose di cui essi si sono disfatti con l'intento, appunto, di affidarne la piena disponibilità al sovrano. Non c'è nel pensiero di Hobbes un principio di delega e di rappresentanza che preveda un controllo sull'operato del sovrano o un sistema di equilibri costituzionali. Egli protesta contro il principio della divisione dei poteri: dividere il potere è come dire che non vogliamo alcun potere, significa ammettere che vogliamo l'anarchia e non lo stato; il principio di sovranità implica compiutezza, coerenza ed assolutezza. Per Hobbes il potere assorbe tutto, anche se ciò non implica esonero da ogni obbligo e responsabilità. E' dovere del sovrano comprendere che il suo potere è stato costituito per garantire la pace e la coesistenza e che quindi gli imperativi, le sanzioni e le coercizioni pubbliche si giustificano in relazione alla loro capacità di proteggere l'incolumità dei cittadini. L'uomo accetta lo stato solo se e fintanto che gli preserva la vita; sarebbe assurdo qualunque patto sociale che mettesse ancora di più a repentaglio l'esistenza di ciascuno. La ragion d'essere del patto sociale di alienazione è di superare la precarietà del principio di autoconservazione naturalistica attraverso l'instaurazione di un sistema di autoconservazione razionale, che funzioni con regole certe, valide per tutti e sostenute da un potere irresistibile. Se l'autorità pubblica,però, non libera dalla insicurezza originaria o se addirittura l'aggrava, l'uomo non è più tenuto a subire passivamente una autorità che non tutela: se il potere protegge la vita, vi è l'obbligo di rispettarlo altrimenti l'uomo riprende tutta la sua libertà. Il patto costitutivo della sovranità deve prevedere che chiunque sbaglia sia punito ma lo stato non può pretendere dall'uomo che ha sbagliato la personale, passiva accettazione ad essere punito. Il singolo che trasgredisce farà ciò che può per difendere il suo stato di libertà naturale. Vi è un'estensione di questo principio perfino in materia di servizio militare. Se l'uomo non si sente di mettere a repentaglio la propria e l'altrui vita in un conflitto armato perché poco coraggioso o perché animato da una sua più profonda vocazione morale, lo stato deve in qualche modo rispettare la sua volontà se essa non incide decisamente nella salvezza della nazione, come nel caso di una diretta minaccia di invasione che esiga, per difendersi, una mobilitazione generale.
Potere e diritto
Il pactum unionis si identifica con il pactum subiectionis. L'uomo può associarsi solo attraverso la subordinazione, ogni ordine sociale è in un certo senso un subordine, ordinarsi significa subordinarsi. Un'espressione questa apparentemente non estranea alla logica del giusnaturalismo tradizionale che poneva il problema dell'ordine in una prospettiva di gerarchia delle leggi e dei poteri e che vincolava tale gerarchia ad una struttura corporativa della società ed al rispetto dei valori della metafisica. In Hobbes la convergenza di unione e di assoggettamento ha però un significato profondamente diverso perché mancano i presupposti organicistici del tradizionale diritto naturale e manca la loro connessione con la metafisica; ciò che conta per Hobbes è la costituzione di un potere dominante che assuma il monopolio della politica e del diritto. Il rapporto politico personificato dallo stato sovrasta tutti gli altri rapporti sociali e domina tutto l'insieme delle altre lealtà intermedie. Il potere assoluto è la condizione fondamentale della politica perché, per Hobbes, un ordinamento politico regolare esige che nessuna porzione del corpo sociale abbia un potere se non gli è stato delegato dal sovrano, se non è da questi controllato, se non risponde direttamente a lui. E' regolare solo quella società la cui autorità rappresenta la totalità dei cittadini, irregolari sono tutte le altre. Vi è quindi in Hobbes un esplicito rifiuto di un pluralismo sociale le cui componenti usufruiscano di una loro relativa autonomia; ciò che non emana direttamente dall'autorità centrale è un sistema privato. Ciò ha delle implicazioni vistose anche in materia di religione: Hobbes non accetta un poter ecclesiastico come autonomo e concorrente rispetto al potere pubblico. Il potere politico deve estendere la sua disciplina normativa anche nei confronti del potere della Chiesa per renderlo compatibile con le finalità statali; la Chiesa viene così politicizzata e il suo capo (conformemente alla tradizione dell'anglicanesimo) è il sovrano politico. Smentita quindi di ogni autorità civile e religiosa diversa da quella rappresentata dal sovrano. La logica del diritto non è per lui separabile dalla logica politica, la fonte del diritto non è diversa da quella del potere quindi il potere politico è anche monopolista del diritto, la cui realtà si costituisce attraverso gli atti decisionali del sovrano. Si ha con Hobbes l'inizio di quello che si chiama positivismo giuridico, dottrina secondo la quale il diritto è solo quello posto, dichiarato, reso coercibile dallo stato. Eliminazione quindi del pluralismo giuridico oltre che di quello politico. L'assolutismo che Hobbes teorizza non esige tuttavia che il titolare della sovranità sia un'unica persona; può essere anche un'assemblea a patto però che, comunque costituito, il potere rappresenti la totalità dei cittadini in modo esclusivo. L'importante è che chi detiene questa sovranità la faccia valere in base ad una volontà unitaria e che tale dichiarazione sia imperativamente imposta come legge coercitiva vincolante per tutti i cittadini.
Effettività e utilitarismo
Con queste idee Hobbes si allontana da una difesa aprioristica della monarchia. Sovrani inglesi pensavano che, nelle guerre civili, la dottrina di Hobbes potesse sostenere le rivendicazioni delle loro prerogative contro il parlamento ma in realtà questa dottrina si poteva adattare anche ad un uso repubblicano e favorire le posizioni di Cromwell perché anche in una repubblica il potere può accentrarsi in un'assemblea. Un'altra implicazione della dottrina di Hobbes sembra quella di una certa perdita di priorità simbolica e di rilevanza funzionale del criterio di legittimità. Il potere non vale perché discende da certe procedure formalmente predeterminate, come quelle della trasmissione ereditaria, ma piuttosto perché si dimostra capace di esercitare un suo dominio di fatto indipendentemente dai modi della sua formazione. La sostanza del suo pensiero sembra ispirarsi soprattutto al principio di effettività, in base al quale la sovranità che conta è quella che di fatto sussiste e non solo quella che si richiama ai criteri canonici della legittimità monarchica. Perciò anche i poteri rivoluzionari, se di fatto riescono ad imporre una loro egemonia nella società, diventano titolari di sovranità; è soprattutto per questa sua accettazione, più o meno esplicita, della connessione fra potere ed effettività che le ragioni della monarchia non si sentivano del tutto salvaguardate da questa logica hobbesiana. Come Machiavelli anche Hobbes sa che il potere non è immortale: il Leviatano, che egli ha considerato per la sua assolutezza come un dio, rimane pur sempre un "Dio mortale". Non sembra comunque che nella dottrina di Hobbes ci sia molto spazio per una divinizzazione del Leviatano, da lui proposto come una forza da temere piuttosto che da adorare. Il potere di Hobbes non vuole aggiungere al monopolio politico e giuridico anche un esclusivismo etico e pedagogico. Egli non pensa di affidare alla comunità politica il compito di fare l'uomo quale dovrebbe essere, né di volgere le attività personali e sociali al perseguimento di esclusivistiche finalità ideali poste dal sovrano. In verità Hobbes non si occupa molto delle funzioni morali dell'autorità pubblica e non fa significativi riferimenti alla possibilità di cambiare radicalmente, attraverso l'iniziativa politica, i moventi e le propensioni della natura umana. Il suo convenzionalismo etico, così come il suo materialismo e il suo utilitarismo, sembra escludere che lo stato debba impegnarsi in un programma di rigenerazione radicale degli individui per trasformare il loro egoismo e individualismo in altruismo e solidarietà e per cercare una socializzazione integrale dell'esperienza umana. I compiti essenziali della politica sono per Hobbes quelli di garantire l'ordine esteriore; lo stato è una condizione meccanica della vita della società e non vuole rappresentarne la sublimazione etica. L'assolutismo di Hobbes non ha insomma quel supplemento di dispotismo che deriverebbe dall'ambizione di una sua legittimazione etica e dalla pretesa di fondare l'educazione sulla costrizione pubblica. Hobbes riconosce che vi è una grande differenza tra legge e diritto: "la legge è un vincolo, il diritto è una libertà". Quella di Hobbes rimane una teoria dell'assolutismo giuridico e politico,anche se tale assolutismo difetta di essenzialismo e di universalismo e vorrebbe piuttosto qualificarsi in senso utilitaristico.
Semplificazioni antropologiche e politiche
A questa teoria dell'assolutismo Hobbes è pervenuto attraverso certe semplificazioni conoscitive. Lo stato di natura è da lui fondato su una logica di individualismo, di egoismo, di vanità, di tendenza alla prevaricazione; radicalizzando la conflittualità e l'inconcludenza di questo stato di natura, egli ha situato le relazioni interpersonali in un vuoto politico, giuridico, morale che non consente forme di spontanea oggettivazione delle azioni umane. Come alternativa a questo mondo di anarchia, Hobbes vede una organizzazione globale della società che non si vale di strutturazioni preliminari e parziali ma di una potenza creativa e normativa accentrata nella sovranità politica. Dopo aver semplificato l'uomo e la società, Hobbes semplifica anche l'idea del potere da lui inteso come deus ex machina che non si sa però da dove viene, che arriva senza un processo di formazione storica e senza che sia chiara la sua connessione con l'insieme dei fenomeni costitutivi della realtà sociale. Non spiega bene chi faccia scattare questo congegno meccanico che è lo stato e quali siano le forze che lo sostengono, che lo controllano, che lo possono modificare.
Non c'è in Hobbes una teoria sociologica del potere ed il suo antistoricismo sfiora così un razionalismo esasperato o un meccanicismo altrettanto radicale. Si può tuttavia vedere nel suo pensiero anche una componente utilitaristica che, in un certo orientamento interpretativo, è da considerarsi connessa all'esigenza di sostenere i ceti emergenti della borghesia mercantile inglese impegnati a svincolarsi dal sistema di impedimenti e di frazionamenti feudali ed a cercare più vantaggiose garanzie al libero manifestarsi della loro creatività in un ambiente di legalità unitaria ed impersonale. Riesce comunque ad avere un valore ricorrente il convincimento di Hobbes che, se non c'è una legge stabile ed un principio potestativo visibile e responsabile, la società si disgrega e ridicolizza la sua conflittualità. Le semplificazioni di cui abbiamo fatto cenno espongono tuttavia il sistema di Hobbes a rischi permanenti di arbitrio.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
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