Jean Jacques Rousseau
Esistenzialità e società
Rousseau rappresenta una linea di pensiero diversa da quella di Montesquieu e, in certo senso, alternativa: nessuno più di lui ha orientato l'intelligenza e la coscienza nella lotta contro i pregiudizi e le prevaricazioni del potere e nessuno più di lui ha reclamato così animosamente i diritti dell'umanità. C'è tuttavia qualcosa nella sua mentalità, come d'altronde in quella di Montesquieu, che lo rende refrattario a condividere quegli aspetti dell'Illuminismo caratterizzati dall'intellettualismo e dal materialismo. Rousseau critica alcune tendenze semplificatrici del pensiero filosofico del tempo ed in particolare l'idea che le equazioni esatte della logica possano avere un'efficacia determinante nell'orientamento dei comportamenti umani e nella spiegazione della complessità esistenziale e sociale. L'uomo che si esaurisce nel pensiero è "un animale depravato" e la sua estraneazione dalle dimensioni più profonde del vissuto non gli fa comprendere il valore di quei sentimenti e di quelle passioni che, malgrado il loro carattere poco razionale o extrarazionale, possono presentarsi come matrici di virtù. La ragione può d'altronde essa stessa derivare dall'orgoglio, dall'interesse egoistico e dalla vanità. Si è detto che si comincia già a sentire in Rousseau una certa aria di Romanticismo: egli rivaluta il mondo dei sentimenti, delle emozioni, dell'immaginazione, dell'intuizione recuperando quel più complesso simbolismo che emana dall'interiorità esistenziale e che pervade l'esistenza di significati qualitativi. Se la sola facoltà razionale domina tutte le altre, l'unità e la semplicità dello spirito umano ne risultano compromesse, così come risultano alterati tutti i rapporti fra gli uomini. Si accentua in Rousseau il bisogno della riflessione interiore, l'attitudine all'introspezione che gli fanno prendere dimestichezza con i problemi della coscienza e con i dilemmi profondi della soggettività. Questo orientamento spiritualistico di Rousseau non significa tuttavia ritorno ad ispirazioni proprie di una linea di pensiero che ha avuto in Montaigne e, per altri aspetti, in Pascal i protagonisti più sensibili. La riscoperta dell'io, che ha fatto di Rousseau un creatore dell'autobiografia moderna, non indulge al relativismo di Montaigne, né d'altra parte accetta che la coscienza del vissuto sia soprattutto coscienza di quelle dilacerazioni dell'anima che, come voleva Pascal, solo la religione può sanare. L'atteggiamento spirituale di Rousseau è di non vedere la contraddizione esistenziale come una condanna che l'uomo deve scontare senza potersi affidare ad alcuno strumento mondano di correzione e di superamento. Il dilemma esistenziale ammette per lui soluzioni diverse da quelle proprie della pura spiritualità religiosa che porta verso la contemplazione ed il misticismo. La novità morale e politica che Rousseau propone consiste nell'assumere consapevolezza, con degli strumenti più affinati di quelli razionalistici, della condizione complessa dell'uomo, cercando tuttavia le cause sociali di quella sottile malattia morale che non va abbandonata ad un simbolismo troppo incline a legittimare la penitenziali umana ed a cercare compensazioni e gratifiche sostitutive nelle idealizzazioni spiritualistiche. Le scienze e le arti, matrici del progresso meccanico dell'umanità, hanno mescolato troppo orgoglio e troppa vanità nelle loro conquiste, hanno insignito troppi vizi col nome di virtù senza riuscire a comprendere perché l'uomo non è socialmente appagato, perché porta dentro di sé questo senso di alienazione e di frustrazione che lo costringe ad una vita moralmente inespressiva. Rousseau denuncia la scissione che il mondo moderno ha prodotto tra le conoscenze fisiche e naturali e quelle morali ma denuncia anche le distorsioni di una cultura umanistica che, invece di riconciliare l'uomo con la sua autentica personalità, lo ha reso più estraneo a sé ed ai propri limiti. Gli sembra soprattutto che le scienze, comprese quelle morali, si siano coalizzate per accentuare e sancire la scissione fra l'uomo ed il cittadino. Il divario fra realtà esistenziale e realtà politica che Montaigne e Pascal consideravano inevitabile, viene invece rifiutato da Rousseau: scindere la natura umana fra un'anima che vive nel circuito chiuso della propria esistenzialità ed una società che va per conto suo, che cresce su se stessa, che accumula e che si espande senza però offrire risposte soddisfacenti ai problemi dell'uomo ed a cui questi dà soltanto un contributo superficiale ed ambiguo perché non sente la reciproca immanenza fra se stesso e la realtà collettiva, tutto ciò appare a Rousseau un errore della conoscenza e della moralità. Non tutte le contraddizioni esistenziali e sociali devono riferirsi al peccato originale che renderebbe vana ed inconcludente ogni rivolta umana. Il problema di Rousseau è come la società possa correggere i vizi ed i mali degli individui: egli pone tale problema in termini opposti a quelli di Sant'Agostino, il quale riteneva che solo se sostenuta dalla provvidenza e dalla grazia la coscienza personale può liberarsi dal peccato e pervenire alla salvezza. Rousseau tende invece a socializzare il male, a vederlo immanente alla realtà collettiva.
La civiltà e la natura
La critica di Rousseau alla società esistente si è manifestata fin dal suo primo Discorso sulle scienze e le arti del 1750. Il problema posto dall'accademia di Digione nel 1749 era se lo sviluppo della cultura e delle scienze sia stato propizio al perfezionamento morale del genere umano; Rousseau ha optato per una risposta negativa: le scienze, la cultura e le arti moderne non hanno avuto una positiva incidenza nello sviluppo delle qualità morali e sociali dell'uomo ma hanno contribuito a provocare ipocrisia, corruzione e diseguaglianza. Il valore della cultura e della scienza è stato confiscato o alterato dalla logica del profitto e della sopraffazione e le arti, inficiate dalla vanità, si sono rivolte più al vantaggio dei privilegiati che al perseguimento del bene comune. Rousseau esalta uno stato naturale in cui i popoli semplici e rustici sembrano i più affidabili depositari delle virtù civili; i mali della società derivano soprattutto dalla disuguaglianza delle ricchezze e dagli abusi della proprietà diventata strumento di accaparramento e di dominio. Ogni patto fra ceti sociali radicalmente disuguali dal punto di vista dei beni e delle opportunità è un contratto di assoggettamento e di espropriazione e questa alterazione del patto sociale non può giustificarsi con la pretesa natura egoistica e bellicosa dell'uomo. Prima esigenza di Rousseau è dunque di prendere coscienza degli effetti deformanti causati da un meccanismo sociale che va per proprio conto, senza riferimenti morali e senza un sistema plausibile di finalità pubbliche; un meccanismo che sottrae all'uomo naturalità, onestà e dignità anche quando si rivela capace di indefinita produzione. E' la società che introduce i vizi nell'intelligenza e nei sentimenti dell'uomo e che inaridisce le sorgenti della moralità, della benevolenza, della pietà, dell'amore. L'opera filosofica e pedagogica Emilio risente di tali ispirazioni e pone questo problema: come mantenere la bontà originaria dell'individuo nella società che tende a corromperlo. In questo orientamento critico il male sociale si contrasta immedesimandosi il meno possibile nei meccanismi che lo producono e cercando nella propria separatezza ed indipendenza la spontaneità e la semplicità etica necessarie a criticare le perversità dei fini e degli interessi di una società alienata.
L'individuo ed il cittadino
Malgrado i suoi fermenti libertari, Rousseau non è tuttavia ispiratore di una società anarchica: la solitudine ed il ritorno alla natura non sono fini in se stessi ma piuttosto condizioni per riproporre un'idea più coerente di socialità e di partecipazione comunitaria. La vita sociale non consente un reciproco isolamento dei suoi membri ed il principio dell'autostabilità e dell'autosufficienza degli individui non è praticabile. Riprendere il contatto con i valori e con le cose della natura, senza le mediazioni pressanti di una civiltà artificiale, appare a Rousseau una gioia dello spirito, tuttavia egli non indugia oltre misura in questo compiacimento isolazionisti e non ritiene che l'utopia anarchica sia una soluzione costruttiva. Ciò che l'evocazione della natura soprattutto suggerisce è che una certa integrazione sociale è sbagliata, quindi va rifatta. Il convincimento di Rousseau è che i vizi e le virtù di ogni uomo non sono relativi a lui solo ma hanno un rapporto più generale con la società da cui traggono la loro essenza ed il loro carattere. Non si tratta perciò di ridicolizzare l'antagonismo fra individuo e società, si tratta invece di ristabilire su basi di coerenza e di equità la loro immanenza reciproca. Il ritorno alla natura ha in Rousseau soprattutto il significato di riportare a zero, per così dire, il calcolo sociale, è l'atto di protesta con cui si rifiutano i criteri di legittimazione di certe strutture sociali e se ne vogliono cercare altre nella prospettiva di una diversa organizzazione istituzionale e di una diversa logica di socializzazione dell'esperienza umana, una socializzazione fondata sull'educazione dei cittadini. Dall'estremismo della solitudine Rousseau passa all'estremismo di una socializzazione completa della vita umana; in questo egli precorre altre correnti radicali di pensiero politico ed è stato visto un suo rapporto con Marx. Il problema di Rousseau è quindi di definire le condizioni di una socializzazione compiuta. La coesistenza non deve essere inficiata dall'egoismo, da diffidenze reciproche, dall'estraneità, dalle indifferenze, dalle sopraffazioni. Quella coscienza della separatezza che dall'Umanesimo in poi sembra acquisizione della libertà moderna, Rousseau la vede come un principio negativo, lesivo di esigenze di coerenza e di giustizia; per essere sociali occorre che gli individui abbiano, almeno a livello spirituale, la capacità di esserlo totalmente perché se l'uomo è relativamente estraneo all'altro, questa estraneità può diventare radicale ed incorreggibile. L'ego e l'alter o si sentono immedesimati in un comune destino di civiltà etica e sociale o diventano degli esseri reciprocamente antagonisti, fra cui possono stabilirsi transazioni precarie ma non vere forme di unione e di solidarietà. La socializzazione dell'esperienza umana deve perciò riferirsi ad un profondo valore accomunante che Rousseau chiama volontè générale, matrice dell'idea di collettivizzazione dell'etica, di comunità politica e di sovranità popolare; a questa volontà generale Rousseau affida il compito di una rigenerazione dell'uomo e della società. La politica non è solo contemperamento e transazione fra ciò che sussiste in un certo campo di attività umane ma è tensione ideale che trasforma l'esistente per adattarlo a finalità più qualitative. La volontà generale sancisce dunque il principio che un individuo, per socializzarsi, deve riferirsi ad un fondo di idee, di valori e di simboli accomunanti e deve perciò trovare la sua qualificazione nella consapevolezza della differenza che sussiste fra l'interesse privato, egoistico, contingente e l'interesse pubblico. Evocando il principio del moi commun, Rousseau non intende espropriare i valori ed i significati della libertà dei singoli ma vorrebbe anzi potenziarli e renderli più certi e qualitativi; è vero però che egli chiede che sia il corpo sociale, nella sua indecomponibilità, il depositario dell'insieme dei principi normativi.
Comunità e volontà generale
Vi è dunque in Rousseau la riscoperta di uno spirito comunitario ma la comunità, come egli la intende, non è quella propria della tradizione giusnaturalistica o organistica, non è una porzione del cosmo e della natura, una realtà strutturale predeterminata inserita in una gerarchia degli esseri: essa è un'entità umanamente e socialmente propulsiva, sempre in creazione di se stessa. La comunità di Rousseau è espressione di una fusione delle coscienze e la volontà generale che ispira la vita della comunità non è statica ma effusiva ed incandescente. Nulla deve condizionare lo slancio creativo della volontà generale, nulla deve frapporsi all'affermarsi progressivo della sua verità morale e politica perché tale volontà è essenziale condizione qualitativa della coesistenza e, immedesimandosi nei suoi simboli e nei suoi valori accomunanti, gli individui acquisiscono non solo la loro dignità sociale ma anche la loro qualificazione personale. Sembra qui riecheggiare un essenzialismo politico di tipo platonico: come per Platone, anche per Rousseau creare il cittadino non è cosa diversa che creare l'uomo eticamente consapevole. La morale coincide con la socializzazione dell'esperienza umana ed essere cittadino significa anche smentire la meccanica precostituita dei comandi e delle obbedienze; il rapporto di cittadinanza comporta dunque la duplice liberazione dell'uomo dal suo singolarismo e dalla sua sudditanza ed è perciò condizione di una struttura coerente della società, così come di una struttura coerente della moralità. La volontà generale raffigura una forma di socialità per fusione, di un Noi accomunante che precede i rapporti di separazione e di delimitazione dell'io e del tu. La volontà generale non è una semplice connessione di fenomeni sociali all'interno di una connessione cosmica munita, come nel giusnaturalismo classico, di una sua legittimazione metafisica; non priva di una certa intonazione mistica, la volontà generale non obbedisce però a leggi ontologicamente definite, non rappresenta una porzione di un universo giusnaturalistico e rifiuta ogni derivazione divina del potere. La prospettiva di Hume, di Adam Smith o di Mandeville, per i quali gli interessi personali o addirittura i vizi privati mescolandosi liberamente possono trasformarsi in benefici pubblici, non è la prospettiva di Rousseau: l'elemento volontaristico della volontà generale è attivo e rilevante. Ciò non significa tuttavia che la volontà generale sia l'emanazione di una logica puramente mentale; valori della vita personale e sociale non si spiegano per Rousseau solo attraverso la ragione che è un criterio inadatto a comprendere i sentimenti di benevolenza e di pietà. La ragione scissa dalla sensibilità etica si riduce a mero calcolo egoistico. Non c'è utilitarismo nella definizione russoviana del contratto sociale; gli uomini non si associano per calcolo di convenienza e l'atto di formazione della società non consiste nella semplice ricerca di un equilibrio tra esseri umani diversi in tutto e uniti soltanto dal comune vantaggio a stabilire certe regole generali per garantire il perseguimento dei loro interessi differenziati ed eterogenei. D'altra parte la volontà generale non è neppure la somma empirica di volontà e non è quindi un fatto puramente maggioritario. Dire cosa è la volontà generale in positivo è più difficile. Dotata di un afflato morale, di un entusiasmo civile, di una fede politica qualitativamente superiore ai calcoli opportunistici e anche alle ordinarie misure intellettuali, la volontà generale rompe i canoni più tradizionali della conoscenza. L'intuizione può tuttavia sconfinare in atteggiamenti misticheggianti, in velleità immaginative, in impulsi irrazionali, in ambizioni autoritarie e contro questi rischi non sembra che la volontà generale disponga di efficaci garanzie istituzionali. A tale volontà Rousseau affida attribuzioni e prerogative stabilite per rendere gli uomini liberi, senza però ammettere nei suoi confronti limiti e con temperamenti giuridicamente definiti: egli dice infatti che la volontà generale è assoluta, incondizionata e che non può mai essere alienata e divisa perché tale divisione la priverebbe della sua potenzialità globale e non le consentirebbe di proporsi come verità autentica e compiuta. L'idea della divisione dei poteri non si concilia quindi con l'idea della sovranità come la intende Rousseau; il potere diviso non funziona, diventa oggetto di mercimonio, di transazioni materiali, di compensazioni utilitaristiche e tutto ciò sminuisce l'ascendente simbolico e l'efficacia pratica dell'autorità pubblica. La volontà generale converge con la sovranità del popolo perciò il popolo è un'entità indivisibile, un'unità compatta, una fusione delle coscienze ma se la volontà generale non sopporta, per il suo carattere qualitativo, i patteggiamenti e gli adattamenti ispirati ad una logica relativistica, si pone il problema di sapere come quest'anima sociale possa funzionare. Il sistema di Rousseau è calcolato soprattutto in riferimento ad esigenze morali e le sue forme di socialità per fusione, se possono avere un loro riscontro su basi micro- sociali, hanno maggiore difficoltà a convertirsi in forme macro- sociali. Nella costituzione e nel funzionamento della volontà generale e della sovranità popolare Rousseau rifiuta l'intervento di principi intermediari che potrebbere agevolarne l'applicazione ma che, secondo lui, ne snaturerebbero il valore essenziale. Così Rousseau rifiuta l'idea di una democrazia rappresentativa: chi si fa rappresentare è come se non avesse più potere quindi il popolo, per non perdere la sua sovranità, non deve farsi rappresentare bensì darsi dei "commissari", cioè autorità sempre revocabili dai cittadini. Non c'è quindi altra fonte di derivazione del potere se non il popolo, quindi nessuno può arrogarsi la sovranità se non attraverso una legittimazione diretta del corpo sociale. L'opera di Rousseau ha un suo carattere politicamente rivoluzionario perché smentisce ogni derivazione dell'autorità pubblica diversa da quella popolare: non solo la derivazione divina ma anche quella giusnaturalistica, tradizionalistica, corporativa e organistica. Ciò spiega perché il Contratto sociale, appena pubblicato, sia stato colpito dalla censura come libro sovversivo e bruciato anche nella Ginevra che egli aveva esaltato come patria della libertà. Ci si può chiedere come questa volontà generale possa governare efficacemente una società globale; sussistono rischi di degenerazione autoritaria nel principio affermato da Rousseau che la comunità può costringere i cittadini ad essere liberi, rendendoli integralmente subordinati al potere collettivo. La libertà è per Rousseau adesione della volontà singola alla volontà generale pertanto, se l'uomo non assume spontaneamente la consapevolezza del valore etico di questa adesione, può esservi costretto dalla totalità sociale. Egli propone nella sua teoria politica una logica di educazione- costrizione, abbinando due termini opposti che non dovrebbero unirsi, come d'altronde egli stesso ha riconosciuto nelle sue teorie pedagogiche. Un altro elemento di cui Rousseau si vale per sostenere il principio della volontà generale è la figura carismatica del legislatore. Esistono personalità straordinarie che intuiscono immediatamente i valori della volontà generale e che sono perciò legittimate ad imporre una superiore verità sociale anche senza attendere il consenso della maggioranza. La volontà generale, insiste Rousseau, non è la somma di tante volontà particolari ma è un principio qualitativo che può essere personificato anche da un solo uomo. Si ammette così che il rapporto fra il legislatore e la volontà generale possa anche prescindere dal preliminare accertamento di ciò che i cittadini richiedono secondo i loro bisogni ed interessi particolari. Vi è quindi in questa posizione teorica un'implicazione autoritaria e, secondo certe linee interpretative, un'anticipazione delle teorie del totalitarismo moderno.
Sovranità popolare e contraddizioni sociali
Come l'ha configurata Rousseau, la volontà generale si presta certo ad essere strumento di radicali trasformazioni sociali; neppure la religione è legittimata ad opporsi ad essa che la utilizza anzi come strumento al servizio della società. Se vi sono nel suo intendimento della volontà generale premesse teoriche che potrebbero confluire verso l'idea della rivoluzione sociale, tale rivoluzione in effetti in Rousseau non c'è. Egli non si propone di ridicolizzare le lotte, così il suo pensiero assume un'inclinazione più moderata e si appaga di questa idea: che una volta costituita la volontà generale come base della realtà sociale, anche cose che fuori di essa sono illegittime possono diventare legittime appunto perché trasfigurate da questo principio. Una fondamentale applicazione di tale orientamento si ha in materia di proprietà: essa è abusiva e oppressiva se considerata nel suo esclusivismo ma diventa un diritto quando riceve la sua sanzione dalla volontà generale.
Attuando questa rivalutazione dell'istituzione proprietaria, Rousseau riafferma anche l'utilità delle differenze e delle stratificazioni sociali, che sono prevaricazioni se pretendono di autolegittimarsi ma che assumono un loro valore positivo se il crisma della volontà generale le rende funzionali rispetto all'intera comunità. Egli afferma così quando la mobilità sociale è troppo intensa e gli individui cambiano di frequente le loro posizioni e passano da un grado all'altro della gerarchi sociale, si creano situazioni di agitazione e di confusione mentre se ciascuno si realizza nei suoi status abituali, l'ordine sociale è più regolare. Sono prese di posizione apparentemente contraddittorie con lo spirito della sua dottrina ma che si spiegano con la considerazione che siccome la volontà generale può tutto e rende giusto ciò che tocca, anche la proprietà e le differenziazioni sociali possono avere un loro ruolo positivo se viste nella prospettiva qualitativa della società come Io comune. Vi è quindi in Rousseau il rifiuto di fare della volontà la matrice di una rivoluzione sociale, anche se le affida il compito di distruggere i nidi della tirannia e di sancire l'uguaglianza sociale dei cittadini. La volontà generale sarebbe abilitata anche a compiti di integrale rifacimento del mondo produttivo ma Rousseau non la fa agire in questa direzione. Ogni legittimazione ha una sua matrice popolare ma la competenza della volontà generale non è sminuita se essa, anziché negare l'esistente, gli conferisce comunque un diverso significato qualitativo. Rousseau non è un rivoluzionario e non vuole cambiare radicalmente le basi costitutive della società.
L'idea di nazione
Rousseau diffida degli sbocchi rivoluzionari per gli sconvolgimenti e le distruzioni che essi provocherebbero e anche perché i fatti rivoluzionari favorirebbero aspetti della natura umana meno raggiungibile dalle idee morali e dall'azione pedagogica. Egli non abbandona tuttavia l'idea che la volontà generale debba profondamente incidere nella realtà sociale e che la sua competenza riguardi non soltanto il campo politico ed istituzionale ma anche i problemi dell'educazione e della modificazione delle propensioni e delle passioni umane. Se la forza propulsiva della volontà generale non si sfoga in direzione di una trasformazione radicale dell'ordine sociale ed economico, trova però nel pensiero di Rousseau un altro sbocco rappresentato dall'idea di nazione. Il simbolismo della volontà generale sembra ben congegnato per valorizzare l'idea di nazione come comunità etica e politica dotata di un patrimonio di ideali condivisi ed accomunata in uno stesso destino. E' vero che lo spirito nazionale, con tutte le sue vocazioni accomunanti, può sussistere e svilupparsi anche senza sconvolgere le basi della società esistente. La sovranità popolare, legittimando in modo diverso i rapporti fra i cittadini, si riserva sempre il diritto di ogni possibile trasformazione anche in campo economico, senza porlo però come condizione essenziale e indispensabile per la costruzione di una comunità spiritualmente integrata. L'idea di nazione consente di soddisfare l'esigenza di forte accentuazione etica che la volontà generale imprime alla politica ma rappresenta insieme un'alternativa ad una rivoluzione che non si vuol fare o di cui non si sente il bisogno. L'idea di nazione contiene però dei rischi di cui egli è consapevole: essa può portare all'esaltazione dello spirito di potenza, a quella "boria delle nazioni" che fa della storia un mondo disumano in cui i popoli più forti, ammantati di falsa universalità, sottomettono i più deboli, Rousseau non vuole esaltazioni dello spirito di conquista e sublimazioni delle virtù guerriere, è anzi fortemente accentuati in lui la vocazione verso il pacifismo che rappresenta, in certo senso, un'altra dottrina politica russoviana. Valorizzando l'idea di nazione Rousseau paventa che essa possa degenerare nell'imperialismo e nell'usurpazione; se è vantaggiosa per consolidare l'unità politica e spirituale di una comunità, tale idea rischia di ridicolizzare gli antagonismi in campo internazionale.
I valori del federalismo
Notiamo così in Rousseau l'apertura di una prospettiva politica a lui più congeniale, che valorizza le piccole comunità, il decentramento, le autonomie, il regionalismo. Egli è fautore di una partecipazione più intensa dei cittadini alla politica, teorico di quella democrazia diretta opposta all'istituto della rappresentanza e che può trovare applicazione e praticabilità in corpi sociali ristretti dove i cittadini si sentono insieme individui e collettività, dove non si conoscono scissioni troppo nette fra privato e pubblico, dove la legge diventa più vicina a chi la deve rispettare. Il regionalismo da lui prospettato, pur con tutta la carica innovativa che può esprimere, si ispira anche alla reverenza verso i costumi consolidati e alla lealtà verso il passato e riconosce il ruolo che un certo tradizionalismo può avere nella stessa qualificazione della dignità sociale e della libertà dei cittadini.
Democrazia e garanzie costituzionali
Il pensiero russoviano è agitato da ispirazioni contrastanti: esso è passato da tendenze individualistiche all'esaltazione dello spirito comunitario, da fermenti democratici di carattere libertario a forme di democrazia plebiscitaria e di cesarismo, da vocazioni nazionalistiche a difese del pacifismo, da tentazioni di centralizzazione e di uniformità a riconoscimenti del valore del decentramento, delle autonomie e del federalismo, da atteggiamenti fortemente innovativi a nostalgie del tradizionalismo. Tutto sembra accomunato in Rousseau dalla sua tensione etica e politica ma ci sono certo delle ambiguità nei suoi disegni teorici. Egli non dà un grande contributo ai problemi dell'organizzazione istituzionale del potere: ha creato la sua comunità politica con grande dispiegamento di virtù e di attribuzioni qualitative, curandosi però poco di predisporre efficaci garanzie istituzionali per controllare il potere e rendere governabile la democrazia. Si deve ammettere tuttavia che le premesse del suo pensiero non lasciano molto spazio ad una politica di tipo costituzionalistico e garantistico. Rousseau non sembra appartenere a quelle dottrine che, partendo da Locke e passando attraverso Montesquieu, arrivano poi a Costant, Tocqueville ed alle scuole liberali moderne, nonché ad alcune scuole del socialismo pluralistico come quella di Proudhon; i problemi del garantismo sono messi relativamente in disparte rispetto all'esigenza, per lui più importante, di stabilire un impianto accomunante nella vita sociale. Non c'è dubbio, tuttavia, che egli abbia posto le basi della politica moderna affermando come principio costitutivo ed esplicativo della comunità politica che nessun potere e nessuna funzione pubblica vale se non ha una legittimazione popolare. Lo stato di Rousseau non è uno stato misto in cui componenti di derivazione metafisica, regale, aristocratica e democratica si proporzionino in forme storicamente mutevoli; nessuna attrazione particolare egli sente perciò per la costituzione inglese, per questo miracoloso equilibrio di privilegi che rifiutano l'idea di una libertà e di una legge comune ed accettano solo reciproche limitazioni delle loro pretese. Ciò che importa a Rousseau in politica è la liberazione di ogni elemento rilevante della società da ogni sua origine egoistica, da ogni sua deformazione particolaristica, che spetta appunto alla volontà generale smentire e superare. L'autorità emana da un'unica fonte che è il popolo, da cui trae qualificazione e legittimità l'insieme dei diritti e delle obbligazioni dei cittadini. Questa sublimazione della volontà generale rischia tuttavia di introdurre nella politica elementi di misticismo e di idealismo che rimangono imperscrutabili ed incontrollabili anche se assumono un carattere popolare; il popolo così enfatizzato nelle sue virtù e nella sua potenza non sembra una matrice di esperienze reali. Alla socializzazione dell'etica corrisponde, nella teoria di Rousseau, una certa idea totalistica dell'autorità, chiamata a realizzare la compiutezza dei valori qualitativi di cui è depositaria la sovranità popolare. Egli ha elaborato una fisica ed una metafisica del potere assoluto piuttosto che una fisica ed una metafisica del potere limitato, senza riconoscere che ci sono dei pesi troppo gravosi che non devono essere messi in mano a nessuno, neppure al popolo. Non ha fatto proprio il principio che ogni sovranità deve essere delimitata ed equilibrata e che la totalità politica può essere confiscata da un'autorità esterna che pretenda di parlare e di agire a nome del popolo: l'idea della sovranità popolare, anziché rappresentare l'antidoto ad ogni dispotismo, può suscitarne di nuovi, anche più costrittivi di quelli tradizionali.
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
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