Jacques-Benigne Bossuet
La sacralità del potere
Bossuet, nella sua opera fondamentale Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture Sainte, ribadisce l'origine divina delle leggi ma fa confluire il carattere religioso del diritto nella sacralità della persona che detiene il potere. La ratio delle leggi prende forza dalla ratio dell'autorità: nel sovrano risiede la guida dello stato e solo a lui appartiene il comando legittimo e la coazione. La preoccupazione di giustificare l'assolutismo monarchico in Francia aveva caratterizzato, come abbiamo visto, il pensiero di Bodin ma, se nel suo programma teorico l'autore de I sei libri dello stato aveva molto attenuato i vincoli della legalità giusnaturalistica, non aveva esaltato il valore sacrale dell'autorità regia, da lui vista soprattutto come una funzione sociale rivolta ad impedire che la conflittualità fra i partiti religiosi opposti compromettesse le condizioni essenziali di una coesistenza pacifica. La monarchia doveva mettersi al di sopra delle parti, senza per questo pretendere di fare ufficio di Dio in terra. Nel periodo di Luigi XIV, in cui vive Bossuet, si è in un clima diverso: il processo di accentramento del potere monarchico si è sviluppato, la politica di potenza e di espansione si è dispiegata con apparente successo, la ragione di stato ha piegato le forze recalcitranti e ciò che conviene alla monarchia è di consolidare anche il suo ascendente qualitativo, assumendo una legittimazione di carattere universale. Bossuet sembra interpretare con coerenza questo ruolo di teorico del potere divino dei re, visto tuttavia sempre in stretta connessione con i valori consolidati della Chiesa: l'autorità sacrale del re socializza ed istituzionalizza i principi del Cattolicesimo i quali, a loro volta, irradiano tutto il loro ascendente etico, politico e pedagogico sull'azione del potere (immanenza reciproca di potere e religione). Il suo tentativo è legittimare il potere monarchico attraverso ciò che Dio, con le parole della sacra Scrittura, ha stabilito per il governo degli uomini e, insieme, vincolare la storia alla preparazione di quella "città permanente" che ha anch'essa nella parola di Dio il suo principio causativo ed esplicativo. La politica vista, dunque, dal punto di vista di Dio, attraverso l'interpretazione della sua volontà, in modo da sottoporre anche le materie riguardanti il diritto e l'esercizio del potere a quelle distinzioni certe fra la verità e l'errore che contrassegnano le materie morali e spirituali. Quella di Bossuet è una visione integralista del rapporto fra religione e politica, integralismo che si spiega con il clima della Controriforma e con il tentativo della Chiesa di ripristinare anche nel campo del sapere e dell'agire politico quel primato che il Protestantesimo le aveva contestato. La religione deve dunque penetrare nella politica per apportarvi valori di assolutezza e per far ritrovare al governo la sua perduta essenzialità: i principi cambiano perché sono mortali ma "il governo non deve cambiare e i precetti dello stato devono aspirare a una loro validità universale". Bisogna perciò guardare allo stato non solo come ad un oggetto che si impone alla nostra realtà ma anche come ad un valore e ad una realtà immortale. Bossuet rappresenta una direzione intransigente che non fa nessuna concessione né alla separazione fra politica e teologia, né al potere popolare né ad una azione governativa più tollerante.
Sovranità regale e bene pubblico
Bossuet ha esercitato funzioni di precettore del delfino di Francia, il successore di Luigi XIV, ed il suo libro sulla politica aveva anche l'intento di costituire una specie di manuale per l'educazione morale e politica del principe. Egli prende dal machiavellismo tutte le distanze che il suo Cattolicesimo gli imponeva: esaltare il potere assoluto non significa insegnare la frode, la simulazione, la manipolazione psicologica degli uomini, la pratica della violenza. Il Cristianesimo esige che l'esercizio della pietà non sia incompatibile con la logica del dominio. Anche se l'azione del sovrano non è legata al consenso del popolo, egli deve però emanare le sue leggi nel rispetto di quel patto solenne che impone alla sua autorità, pur incondizionata, delle inderogabili obbligazioni morali e che impone al popolo di riconoscere nell'autorità regale la potenza riunita di tutti i cittadini. Questo patto solenne si instaura prima di tutto fra Dio ed il popolo: il creatore dell'universo non avrebbe bisogno di nessun assenso delle sue creature per stabilire nel mondo la sua legge e tuttavia, per dare maggiore valorizzazione all'atto originario del coesistere, egli obbliga gli uomini ad osservare la legge attraverso un trattato "espresso e volontario", il quale ha il doppio effetto di unire il popolo a Dio e di unire il popolo a se stesso. Dove c'è Cattolicesimo, non ci può essere una visione disperante dell'uomo e dei rapporti sociali e perciò la divinità, con questo patto, sancisce la qualità originaria ed irripetibile di ogni uomo. Le obbligazioni esistenziali sociali volte a garantire la salvezza e la pace sono tuttavia di continuo insidiate e violate dalle passioni umane che fomentano insocievolezza e perversità. Il coesistere degli uomini non può affidarsi ad una loro spontanea capacità di coesione; malgrado l'ottimismo sulla destinazione conclusiva della storia universale, c'è tuttavia nel pensiero di Bossuet una drammatizzazione della difficoltà di stabilire e di conservare l'ordine sociale. Non basta che gli individui abitino in una stessa patria, che parlino la stessa lingua, che vivano secondo certi costumi; essi rimangono fondamentalmente intrattabili per la loro inestinguibile tendenza all'inimicizia, alla divisione, alla diffidenza, alla vanità, all'espropriazione, alla violenza. Gli uomini non possono quindi realmente unirsi se non si sottopongono ad uno stesso governo e se non gli riconoscono prerogative di assolutezza potestativa. L'unico modo con cui gli uomini possono associarsi è di sottomettersi ad un sovrano che possiede il monopolio della autorità politica e giuridica e soprattutto di quello morale e che perciò può garantire la necessaria stabilità e sicurezza; d'altronde soltanto un potere assoluto ha interesse alla pace e a che nulla venga turbato nella vita sociale perché la certezza del potere assoluto riposa sulla tranquillità e la pace dei sudditi. L'assolutismo è così, per Bossuet, garanzia del buon ordine sociale e del buon andamento degli affari pubblici: la peggiore forma di stato è l'anarchia e la più naturale e la più desiderabile è invece la monarchia. Questo potere assoluto non si fonda, però, su un criterio di pura effettività e aspira invece ad una sua legittimazione divina. Il rispetto dovuto all'autorità sacra, paterna, assoluta dei re è il riflesso del rispetto dovuto alla potenza di Dio e perciò nell'obbedienza dei sudditi sussiste sempre la presunzione che il potere del sovrano su di loro sia esercitato "santamente e religiosamente": Dio è creatore e ordinatore del mondo e il monarca (che è l'immagine di Dio) regola la vita collettiva attraverso una ragione e una responsabilità che hanno esse stesse natura divina. Il principe è tuttavia, per Bossuet, esente da responsabilità giuridiche e costituzionali, anche se ciò non significa metterlo al di sopra della legge ed esonerarlo dal dovere di rispettare la retta ragione e l'equità naturale. Il re deve sottostare a criteri universali di normatività sociale ma non alla potenza coattiva delle leggi, perciò i suoi atti non sono sanzionabili; non vi è obbligazione da parte del re di obbedire alla legge, nel senso che se non obbedisce la sua trasgressione possa essere giuridicamente penalizzata. Si configura così una irresponsabilità del sovrano di fronte alla legge perché, nell'esercizio delle sue funzioni, egli non può essere in alcun modo perseguito. Per Bossuet il principe deve aprirsi ai grandi pensieri ed è perciò tenuto a consacrarsi alla legge, commisurando i suoi atti non solo alle esigenze del suo secolo ma anche al giudizio della posterità. La sua grandezza si identifica con la grandezza del suo popolo e se egli non ne procura il bene, compromette la sua dignità ma solo se la sua autorità è assoluta, egli può fare il bene e può reprimere il male. La contestazione e la reazione popolare nei confronti del sovrano non possono perciò essere giustificati: si può ammettere che un popolo oppresso ricorra al principe attraverso la mediazione dei suoi magistrati e secondo procedure legali "ma che ciò si faccia sempre con rispetto". Si può chiedere ai sovrani di mitigare l'arbitrio del loro governo ma gli si deve chiedere soprattutto di essere coerenti con se stessi e di assumere tutte le responsabilità della loro autorità assoluta: meno i re devono rendere ragione agli altri, più devono trovare ragione ed intelligenza in se stessi. Il re non dà spiegazioni proprio per meglio garantire l'equità e la saggezza del suo agire; religiosità quindi dello stato e valore misterioso di tutto ciò che emana dalla sua autorità.
La ragione di stato non è scelleratezza e frode applicata alla politica ma è espressione del profondo segreto che è insito nella natura stessa della sovranità del re, riflesso del segreto della sovranità di Dio. Bossuet esalta la segretezza e non la trasparenza del potere perché tutto ciò che riguarda la salvezza dello stato ha qualcosa di religioso e di sacro. Le supreme prerogative del sovrano non lo autorizzano, tuttavia, ad abusare del proprio orgoglio e a comportarsi come se fosse immortale. Certo i re devono esercitare "arditamente" il loro potere perché la politica richiede risolutezza nelle scelte ma, come educatore, Bossuet esorta i principi anche ad un esercizio di umiltà, ricordando loro che essi non detengono il potere in proprio bensì perché esercitano una funzione. Come Sant'Agostino anche Bossuet denuncia la cupidigia del potere. Ciò che Dio dà in più al sovrano, lo dà perché sopporti un carico maggiore di responsabilità, perché i suoi pensieri e le sue azioni si rivolgano al bene di tutti: i grandi non sono nati per se stessi ma per accrescere la potenza e la dignità del mondo. L'assolutezza è garanzia di governo saggio, l'arbitrio invece è indice di decadenza e di corruzione della sovranità. Il governo arbitrario è quello che rende schiavi i popoli vinti, che non riconosce i diritti della proprietà, che dispone a suo piacere non solo dei beni ma anche della vita dei soggetti e che non ammette altra legge che la sua volontà. Nel governo legittimo, invece, i vinti non diventano schiavi, le persone sono libere, la proprietà è rispettata, i "lodevoli costumi" e gli "antichi diritti" valgono come leggi e il sovrano non impone al popolo tributi esorbitanti. Bossuet continua a cercare nella legalità e nella legittimità l'antidoto alle degenerazioni del potere. Questi caratteri assoluti e sacrali del potere hanno comunque tanta rilevanza nella sua meditazione, che egli considera protetti da Dio non solo i governi che si ispirano ai principi della religione giusta ma anche quelli che abbiano un qualsiasi fondamento religioso. Non solo quella cattolica fonda la legalità ma ogni religione, vera o falsa che sia, perché tutte stabiliscono la buona fede fra gli uomini e la buona costituzione dello stato. Ogni politica che riconosca la dipendenza delle cose umane dalla divinità ha un suo valore universale e, perciò, la regalità è santa anche nei principi infedeli ma Bossuet aggiunge che le false religioni lasciano sempre un fondo di dubbio e sono più esposte all'ateismo. Per questo negli stati cattolici l'autorità del sovrano deve opporsi alle false religioni; il Cattolicesimo ha nella sua compattezza il suo principio di verità e di coerenza, condizione e garanzia di una visione armonica e universale della politica.
L'universalismo storico
Verità religiosa e legittimità politica hanno come loro segno qualitativo anche la lunga durata.
Nel suo Discours sur l'histoire universelle egli sostiene che tutti i cambiamenti memorabili del mondo rispondono ad un disegno di Dio e che devono essere visti nella loro unitaria destinazione. Uomini ed eventi straordinari che, nel bene e nel male, contrassegnano le tappe della storia, non hanno niente di occasionale e di fortuito. Nella storia domina solo Dio, non c'è perciò azzardo nel governo delle cose umane; come non si può dividere Dio, così non si può distruggere l'unità della storia voluta da Dio. Ogni storia particolare non è a sè stante ma deve essere vista nell'intima connessione con tutte le altre.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Viola Donarini
[Visita la sua tesi: "Domitia Longina, imperatrice alla corte dei Flavi"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Corso: Storia
- Esame: Storia delle categorie politiche
- Docente: Maria Luisa Cicalese
- Titolo del libro: Il pensiero politico dall'Umanesimo all'Illuminismo
- Autore del libro: Antonio Zanfarino
- Editore: CEDAM
- Anno pubblicazione: 1998
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