Griffith. Verso un cinema di narrazione e montaggio
Un ruolo decisivo verso il passaggio al MRI va riconosciuto a David Wark Griffith.
Nel 1908 Griffith è scritturato dalla Biograph come regista e fino al 1913 realizza oltre 450 film. In questi anni si dedica a sperimentazioni linguistiche ed espressive, concentrandosi sulle diverse opzioni di montaggio, delle potenzialità drammatiche della profondità di campo, del dinamismo della composizione interna al quadro e dell’eloquenza simbolica dei dettagli, dei primi piani e dei contrasti di luce.
Attribuire a Griffith il ruolo di padre fondatore del linguaggio cinematografico classico sarebbe tuttavia una semplificazione. Il suo non è un caso isolato nella sperimentazione, la sua importanza va riscontrata nella messa a punto di questo nuovo cinema, in un clima di reciproche influenze. La poetica griffithiana si pone due obiettivi fortemente correlati: da un lato rendere comprensibili strutture narrative sempre più complesse; dall’altro si vuole investire il cinema di responsabilità ideologiche e morali. Una delle principali preoccupazioni di Griffith è quella di costruire attraverso il montaggio un universo continuo e omogeneo a partire dalle inquadrature, per natura discontinue e frammentarie. Questo lavoro definisce un vero e proprio sistema di regole atte a riorganizzare la materia narrativa dandole forma e chiarezza e una maggiore facilità di assorbimento dello spettatore all’interno del racconto. Si offre, quindi, un punto di vista per lo spettatore sempre più dinamico, capace di spostarsi da spazi e tempi diversi. L’ubiquità dell’istanza narrante e la sua volontà di coinvolgere completamente lo spettatore sono particolarmente evidenti nella più nota fra le strutture formali messe a punto da Griffith, ovvero il montaggio alternato. Grazie a questa strategia narrativa lo spettatore inizia a capire che la successione di inquadrature può significare una relazione prima/dopo e può anche esprimere una simultaneità tra due azioni. Il suo lavoro e la sua ricerca però non significano che nei suoi film ci sia già una totale operatività delle regole del cinema classico. L’inserzione del primo piano, per esempio, crea un effetto di discontinuità. Il volto in primo piano ha così una valenza espressiva che allontana per un istante lo spettatore dal racconto per trasformare il personaggio stesso in simbolo di una particolare condizione sociale o psicologica.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Marco Vincenzo Valerio
[Visita la sua tesi: "La fortuna critica italiana de I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli"]
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Esame: Teoria e analisi del linguaggio cinematografico
- Docente: Elena Dagrada
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