Appunti esaustivi per l'esame di - Diritto Commerciale - Vengono affrontati e definiti i temi dell’Impresa, della pubblicità, dell’azienda, del diritto d’autore e della concorrenza.
Diritto dell'Impresa
di Enrica Bianchi
Appunti esaustivi per l'esame di - Diritto Commerciale - Vengono affrontati e
definiti i temi dell’Impresa, della pubblicità, dell’azienda, del diritto d’autore e
della concorrenza.
Università: Università degli Studi di Milano - Bicocca
Facoltà: Giurisprudenza
Esame: Diritto commerciale
Titolo del libro: Diritto commerciale, 1. Diritto dell'impresa
Autore del libro: Gian Franco Campobasso
Editore: UTET
Anno pubblicazione: 20081. L’imprenditore
La disciplina delle attività economiche ruota intorno alla figura dell’imprenditore (definizione all’art. 2082
cod. civ.).
Il codice civile distingue diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri di selezione:
l’oggetto dell’impresa, che determina la distinzione fra imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore
commerciale (art. 2195);
la dimensione dell’impresa, che serve ad enucleare la figura del piccolo imprenditore (art. 2083) e di riflesso
quella dell’imprenditore medio-grande;
la natura del soggetto che esercita l’impresa, che determina la tripartizione legislativa fra impresa
individuale, impresa costituita in forma di società ed impresa pubblica.
Il codice civile detta innanzitutto un corpo di norme applicabili a tutti gli imprenditori e sono le norme che
fanno riferimento all’imprenditore o all’impresa senza ulteriori specificazioni. È questo lo statuto generale
dell’imprenditore che comprende parte della disciplina dell’azienda e dei segni distintivi, la disciplina della
concorrenza e dei consorzi.
Vi è poi uno specifico statuto dell’imprenditore commerciale che comprende: l’iscrizione nel registro
delle imprese con effetti di pubblicità legale; la disciplina della rappresentanza commerciale; le scritture
contabili; il fallimento e le altre procedure concorsuali.
Nel sistema del codice la qualifica di imprenditore agricolo o di piccolo imprenditore ha rilievo
essenzialmente negativo in quanto serve a delimitare l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore
commerciale. Imprenditore agricolo e piccolo imprenditore anche commerciale sono infatti esonerati dalla
tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali, mentre l’iscrizione nel
registro delle imprese, originariamente esclusa, è stata oggi estesa anche a tali imprenditori, sia pure con
rilievo diverso per l’imprenditore agricolo e per il piccolo imprenditore.
Le società diverse dalla società semplice (definite società commerciali) sono tenute all’iscrizione nel registro
delle imprese, con effetti di pubblicità legale, anche se l’attività esercitata non è commerciale. Le società
non sono mai considerate piccoli imprenditori e perciò sono sempre esposte al fallimento se esercitano
attività commerciale. Gli enti pubblici che esercitano impresa commerciale sono, all’opposto, sottratti in
misura più o meno ampia alla disciplina dell’imprenditore commerciale. Non sono mai esposti al fallimento.
Lo statuto dell’imprenditore commerciale è statuto proprio dell’imprenditore privato commerciale non
piccolo.
“È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione
o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082).
Dall’art. 2082 si ricava che l’impresa è attività (serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria) ed
attività caratterizzata sia da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni o servizi), sia da specifiche
modalità di svolgimento (organizzazione, economicità, professionalità).
L’impresa è attività finalizzata alla produzione o alla scambio di beni (art. 810 cod. civ.) o servizi. Non è
impresa l’attività di mero godimento. È attività di godimento e produttiva (di nuovi beni) quella del
proprietario di un fondo agricolo che destini lo stesso a coltivazione. È godimento e produzione (di servizi)
l’attività del proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo, pensione o residence.
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Diritto dell'Impresa È godimento o amministrazione del proprio patrimonio e attività di produzione, l’impiego di proprie
disponibilità finanziarie nella compravendita di strumenti finanziari con intenti di investimento o di
speculazione, o nella concessione di finanziamenti a terzi.
Imprese commerciali devono essere qualificate infine le cosiddette holdings, società che hanno per oggetto
esclusivo l’acquisto e la gestione di partecipazioni di controllo in altre società, con finalità di direzione, di
coordinamento e di finanziamento della loro attività.
È imprenditore anche chi opera utilizzando solo il fattore capitale ed il proprio lavoro, senza dar vita ad
alcuna organizzazione intermediatrice del lavoro.
La sempre più ampia fungibilità fra lavoro e capitale e la possibilità che l’attività produttiva raggiunga
dimensioni notevoli pur senza l’utilizzo di lavoratori impongono la conclusione che l’organizzazione
imprenditoriale può essere anche organizzazione di soli capitali e del proprio lavoro intellettuale e/o
manuale.
Ciò che qualifica l’impresa è l’utilizzazione di fattori produttivi (ed anche il capitale finanziario è un fattore
produttivo) ed il loro coordinamento da parte dell’imprenditore per un fine produttivo (che ricorre anche
quando esso consista nel far circolare titoli o danaro).
La qualità di imprenditore non può essere negata, per difetto del requisito dell’organizzazione, sia quando
l’attività è esercitata senza l’ausilio di collaboratori (autonomi o subordinati), sia quando il coordinamento
degli altri fattori produttivi (capitale e lavoro proprio) non si concretizzi nella creazione di un complesso
aziendale materialmente percepibile.
Si è posto il problema se si possa parlare di impresa anche quando il processo produttivo si fonda
esclusivamente sul lavoro personale del soggetto agente, né lavoro altrui né capitali (proprio o altrui).
Il problema assume pratico rilievo con riferimento specifico ai prestatori autonomi d’opera manuale o di
servizi fortemente personalizzati.
La semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro non può essere considerata organizzazione di
tipo imprenditoriale e in mancanza di un coefficiente minimo di eteroorganizzazione deve negarsi
l’esistenza di impresa, sia pure piccola.
Piccola impresa è quella organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei familiari.
Un minimo di organizzazione di lavoro altrui o di capitale è pur sempre necessaria per aversi impresa sia
pure piccola. In mancanza si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale.
L’impresa è attività economica. Nell’art. 2082 l’economicità è richiesta in aggiunta allo scopo produttivo
dell’attività ed al concetto di attività economica può e deve essere recuperato un proprio ed autonomo
significato.
Ciò che qualifica un’attività come economica non è solo il fine produttivo. È anche il modo, il metodo con
cui essa è svolta. L’attività produttiva è condotta con metodo economico quando è svolta con modalità che
consentono la copertura dei costi con i ricavi.
Per aversi impresa è perciò essenziale che l’attività produttiva sia condotta con metodo economico; secondo
modalità che consentono quanto meno la copertura dei costi con i ricavi ed assicurino l’autosufficienza
economica.
È invece imprenditore chi gestisce i medesimi servizi con metodo economico anche se ispirato da un fine
pubblico o ideale ed anche se le condizioni di mercato non consentono poi in fatto di remunerazione i fattori
produttivi.
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Diritto dell'Impresa
L’ultimo dei requisiti espressamente richiesti è il carattere professionale dell’attività.
L’impresa è stabile inserimento nel settore della produzione e della distribuzione e solo tale stabile
inserimento giustifica l’applicazione della disciplina dell’impresa a chi opera nel mondo degli affari.
Professionalità significa perciò esercizio abituale e non occasionale di una data attività produttiva.
La professionalità non implica però che l’attività imprenditoriale debba essere necessariamente svolta in
modo continuato e senza interruzioni. Per le attività cicliche o stagionali è sufficiente il costante ripetersi di
attività d’impresa secondo le cadenze proprie di quel tipo di attività.
La professionalità non implica neppure che quella di impresa sia l’attività unica o principale.
Impresa si può avere anche quando si opera per il compimento di un unico affare. Il compimento di un
singolo affare può costituire impresa quando, per la sua rilevanza economica, implichi il compimento di
operazioni molteplici e complesse e l’utilizzo di un apparato produttivo idoneo ad escludere il carattere
occasionale e non coordinato dei singoli atti economici.
La professionalità va accertata in base ad indici esteriori ed oggettivi. Indice espressivo di professionalità
può essere anche la creazione di un complesso aziendale idoneo allo svolgimento di una attività
potenzialmente stabile e duratura; il compimento di una serie coordinata di atti organizzativi indicativi del
carattere non sporadico ed occasionale dell’attività
Un primo controverso punto è quello se costituisca requisito essenziale dell’attività di impresa l’intento di
conseguire un guadagno o profitto personale: lo scopo di lucro.
Se lo scopo lucrativo si intende come movente psicologico dell’imprenditore, si ha lucro soggettivo. Lo
scopo di lucro così inteso non può ritenersi essenziale.
Essenziale è solo che l’attività venga svolta secondo modalità oggettive astrattamente lucrative. Ma è
sufficiente anche solo il metodo economico.
La nozione di imprenditore è nozione unitaria, comprensiva sia dell’impresa privata sia dell’impresa
pubblica; e ciò implica che requisito essenziale può essere considerato solo ciò che è comune a tutte le
imprese e a tutti gli imprenditori.
Lo scopo di lucro caratterizza il contratto di società. Le società sono tenute ad operare con metodo lucrativo
e nel duplice senso che l’attività di impresa deve essere rivolta al conseguimento di utili (lucro oggettivo) e
che l’utile deve essere devoluto ai soci (lucro soggettivo).
Deve considerarsi pienamente rispondente ai dati legislativi e al dettato della Costituzione una gestione
dell’impresa mutualistica fondata su criteri di pura economicità e non tesa alla realizzazione di profitti.
Nulla si oppone a che si affermi chiaramente che requisito minimo essenziale dell’attività di impresa è
l’economicità della gestione e non lo scopo di lucro.
La destinazione al mercato della produzione non è in verità richiesta da alcun dato legislativo.
La destinazione allo scambio della produzione è implicitamente richiesta dal carattere professionale
dell’attività di impresa ovvero dalla natura economica della stessa o, quanto meno, dalla funzione della
speciale disciplina dell’impresa (tutela dei terzi); funzione che non sussisterebbe quando un soggetto risolve
la propria attività produttiva in se stesso, senza entrare in contatto con i terzi. L’impresa per conto proprio
non è impresa, pur concedendosi che per l’acquisto della qualità di imprenditore basta una destinazione
parziale o potenziale della produzione al mercato.
Non è impresa per conto proprio la cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci e nemmeno le
aziende costituite dallo Stato o da altri enti pubblici per la produzione di beni o servizi da fornire dietro
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Diritto dell'Impresa corrispettivo esclusivamente all’ente di pertinenza.
Possono invece considerarsi vere e proprie imprese per conto proprio: a) la coltivazione del fondo finalizzata
al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della sua famiglia; b) la costruzione di appartamenti non
destinati alla rivendita (costruzione in economia).
Ulteriore ed ultimo punto controverso è se la qualità di imprenditore possa essere riconosciuta quando
l’attività svolta è illecita, cioè contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Non si può infatti trascurare che anche un’attività di impresa illecita può dar luogo al compimento di una
serie di atti leciti e validi. L’illiceità del risultato globalmente perseguito dall’imprenditore non comporta di
per sé illiceità della causa o dell’oggetto dei singoli atti di impresa.
Terzi creditori meritevoli di tutela possono esistere anche quando l’attività di impresa è illecita e perciò
l’esposizione al fallimento di chi eserciti attività commerciale illecita non appare più del tutto ingiustificata.
Proprio questo secondo ordine di considerazioni ha avuto il sopravvento di fronte ai casi in cui l’illiceità
dell’impresa è determinata dalla violazione di norme imperative che ne subordinano l’esercizio a
concessione o autorizzazione amministrativa: impresa illegale. Tale tipo di illecito non impedisce l’acquisto
della qualità di imprenditore (commerciale) e con pienezza di effetti .
È pacifico che il titolare di una impresa illegale è esposto al fallimento.
Si esita invece a pervenire alla stessa conclusione quando illecito sia l’oggetto stesso dell’attività: impresa
immorale. Si teme che per tutelare i terzi estranei all’illecito si finisca col dover tutelare anche che
dell’illecito è stato autore o complice.
La preoccupazione è ingiustificata per l’esistenza di un principio generale dell’ordinamento secondo cui da
un comportamento illecito non possono mai derivare effetti favorevoli per l’autore dell’illecito o per chi ne è
stato parte. Perciò, anche chi esercita attività commerciale illecita è imprenditore ed in quanto imprenditore
commerciale potrà fallire al pari di tutti gli altri imprenditori commerciali. Non potrà però avanzare le
pretese del titolare di un’azienda o agire in concorrenza sleale contro altri imprenditori, in applicazione del
principio della non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito.
Esistono attività produttive per le quali la qualifica imprenditoriale è esclusa in via di principio dal
legislatore. È questo il caso delle professioni intellettuali. Secondo l’art. 2238 cod. civ., le disposizioni in
tema di impresa si applicano alle professioni intellettuali solo se l’esercizio della professione costituisce
elemento di una attività organizzata in forma di impresa.
Diventano imprenditori solo se ed in quanto la professione intellettuale è esplicata nell’ambito di altra
attività di per sé qualificabili come imprese.
Es: caso del medico che gestisce una clinica privata nella quale opera.
La realtà è che i requisiti propri dell’attività di impresa possono ricorrere tutti anche nell’esercizio delle
professioni intellettuali. L’attività professionale è attività produttiva di servizi suscettibili di valutazione
economica; è attività di regola condotta con metodo economico.
Non sempre è agevole stabilire se una data attività costituisce professione intellettuale e ricade perciò
nell’ambito di applicazione dell’art.2238.
Decisivo è invece il carattere eminentemente intellettuale dei servizi prestati (criterio sostanziale).
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Diritto dell'Impresa 2. Imprenditore agricolo e imprenditore commercial
L’imprenditore commerciale è destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata sull’obbligo di
iscrizione nel registro delle imprese (con funzione di pubblicità legale), sull’obbligo della tenuta delle
scritture contabili, sull’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
La nozione di imprenditore agricolo restringe l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore
commerciale. Chi è imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale.
L’iscrizione nel registro delle imprese è stata infatti introdotta per tutti gli imprenditori agricoli nel 1993,
dapprima con semplice funzione di pubblicità notizia e di recente anche con funzione di pubblicità legale,
identica a quella prevista per gli imprenditori commerciali.
È controverso se debba ammettersi anche una terza categoria di imprese: le cosiddette imprese civili.
Imprese non menzionate espressamente dal legislatore ed individuabili in base al criterio meramente
negativo di non poter essere qualificate né agricolo né commerciali.
Art. 2135 cod. civ.: “È imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla
silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla
trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell’esercizio normale
dell’agricoltura”.
Le attività agricole possono perciò essere distinte in: a) attività agricole essenziali; b) attività agricole per
connessione.
L’impresa agricola fondata sul semplice sfruttamento della produttività naturale della terra permane ancora
in certe zone del nostro paese, ma cede sempre più il passo ad un altro tipo di agricoltura: l’agricoltura
industrializzata.
Vi era infatti chi riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali;
ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo biologico naturale.
Vi era all’opposto chi riteneva che doveva essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico
dell’agricoltore (sfruttamento della terra e delle sue risorse).
Con la recente riforma il legislatore ha invece decisamente optato per la prima impostazione, con scelta
ispirata dall’esigenza di contrastare l’abbandono delle campagne e di favorire lo sviluppo tecnologico
dell’agricoltura, ma che rende ancor più difficile giustificare la persistente sottrazione al fallimento
dell’imprenditore agricolo medio-grande.
L’attuale formulazione dell’art. 2135 ribadisce che: “E’ imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti
attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del
fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di
un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o
possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.
La produzione di specie vegetali ed animali è sempre qualificabile giuridicamente come attività agricola
essenziale, anche se realizzata con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra e dei suoi
prodotti.
In base alla nuova nozione, danno vita ad impresa agricola anche le coltivazioni fuori terra di ortaggi e
frutta.
Non costituisce perciò attività agricola l’estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco.
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Diritto dell'Impresa Costituisce attività agricola essenziale anche la zootecnica svolta fuori dal fondo o utilizzando questo come
mero sedimento dell’azienda di allevamento (allevamenti in batteria), né è necessario che gli animali siano
alimentati con mangimi naturali ottenuti dal fondo.
All’imprenditore agricolo è stato equiparato l’imprenditore ittico.
Anche per quanto riguarda le attività agricole per connessione, l’attuale nozione di imprenditore agricolo
realizza un significativo ampliamento rispetto a quella previgente che le individuava: a) in quelle dirette alla
trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell’esercizio normale dell’agricoltura;
b) in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e
l’allevamento del bestiame, per le quali, in mancanza di specificazione legislativa, si riteneva che le stesse
dovessero rivestire carattere accessorio.
Si intendono cmq connesse:
le attività dirette alla manipolazioni, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione
di prodotti ottenuti prevalentemente da un’attività agricola essenziale;
le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse
normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del
patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche.
È importante precisare quando un’attività intrinsecamente commerciale possa qualificarsi come agricola per
connessione..
È necessario, innanzitutto, che il soggetto che la esercita sia già qualificabile imprenditore agricolo in quanto
svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e inoltre attività coerente con quella
connessa (connessione soggettiva). È quindi certamente imprenditore commerciale chi trasforma o
commercializza prodotti agricoli altrui.
La qualifica di imprenditori agricoli è però estesa alle cooperative di imprenditori agricoli ed ai loro
consorzi quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci
beni o servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico.
È necessario che ricorra anche una connessione oggettiva fra le due attività.
Necessario e sufficiente è infatti solo che si tratti di attività aventi ad oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente dall’esercizio dell’attività agricola essenziale, ovvero di beni o servizi forniti mediante
l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola. È sufficiente che le attività connesse
non prevalgono, per rilievo economico, sull’attività agricola essenziale.
È imprenditore commerciale l’imprenditore che esercita una o più delle seguenti categorie di attività
elencate dall’art. 2195:
Attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi. Darà vita ad impresa commerciale (industriale)
ogni attività di impresa nel settore della produzione che sia qualificabile come attività industriale.
Attività intermediaria nella circolazione dei beni. È perciò impresa commerciale ogni attività di scambio che
realizzi intermediazione nella circolazione di beni o servizi.
Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria. L’attività di trasporto può essere perciò considerata
specificazione dell’attività produttiva di servizi.
Attività bancaria o assicurativa.
Altre attività ausiliarie delle precedenti. Vi rientrano le imprese di agenzie, di mediazione, di deposito, di
commissione, di spedizione, di pubblicità commerciale, di marketing.
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Diritto dell'Impresa Le attività indicate nei n. 3, 4 e 5 costituiscono, in realtà, specificazione delle prime due categorie ed in
queste possono essere ricompresse in quanto hanno per oggetto o la produzione di servizi (imprese di
trasporto, di assicurazioni e ausiliarie) o l’intermediazione nella circolazione (imprese bancarie). Gli
elementi che individuano e distinguono l’impresa commerciale rispetto all’impresa agricola sono nel
carattere industriale dell’attività di produzione di beni o servizi e nel carattere intermediario dell’attività di
scambio.
Dal significato che si attribuisce a questi due requisiti, dipende l’esatta individuazione delle imprese
giuridicamente commerciali e anche la possibilità di configurare una terza categoria di imprese né agricole
né commerciali: le imprese civili.
L’imprenditore civile, né agricolo né commerciale, sarebbe sottoposto solo allo statuto generale
dell’imprenditore, ma non a quello dell’imprenditore commerciale. Perciò non fallirebbe. La disputa verte
intorno al significato da attribuire alle espressioni “attività industriale” e “attività intermediaria nella
circolazione”.
Il requisito dell’industrialità deve essere inteso nel suo significato tecnico-economico di attività che implichi
l’impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni ad opera dell’uomo.
Sarebbero quindi imprese civili:
le imprese che producono beni senza trasformare materie prime, quali le imprese minerarie e le imprese di
caccia e pesca;
le imprese che producono servizi senza trasformare materie prime e che non rientrano ovviamente fra le
imprese produttrici di servizi, quali le imprese di trasporto, di assicurazione e imprese ausiliarie delle
precedenti.
Imprenditore non commerciale e perciò civile sarebbe invece chi aliena dietro corrispettivo beni propri, in
quanto in tal caso si avrebbe sì attività di scambio, ma non attività intermediaria nello scambio. Imprenditore
civile sarebbe perciò l’imprenditore che eroga credito con mezzi propri.
La teoria dell’impresa civile non è però condivisa dalla dottrina prevalente.
L’espressione “attività industriale” altro non significa che attività non agricola e il concetto di
intermediazione deve essere inteso in senso elastico, quale equivalente di scambio.
Vi è però una serie di altri indici che depone contro l’ammissibilità delle imprese civili.
Alcune delle pretese imprese civili erano sicuramente commerciali sotto l’abrogato codice di commercio.
Ammettendo la categoria delle imprese civili si amplierebbe l’area delle attività produttive sottratte alla più
rigorosa disciplina delle imprese commerciali e soprattutto la si amplierebbe senza che tale trattamento di
favore sia sorretto da alcuna giustificazione sostanziale.
È perciò preferibile interpretare il requisito della industrialità come sinonimo di attività non agricola e quindi
qualificare come imprese commerciali anche quelle che producono beni o servizi senza dar luogo a
trasformazione di materie prime.
È altresì preferibile interpretare il requisito dell’intermediazione nella circolazione dei beni come sinonimo
di attività di scambio. Ogni attività che comporti circolazione di beni o denaro non inquadrabile fra quelle
agricola per connessione.
Seguendosi questa impostazione, sarà commerciale ogni impresa che non è agricola.
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Diritto dell'Impresa 3. Piccolo imprenditore. Impresa familiare
Il codice civile individua la figura del piccolo imprenditore, contrapponendola a quella dell’imprenditore
medio-grande.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore (ma si veda per un’eccezione). È
invece esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili e
dall’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali, mentra l’iscrizione nel registro delle
imprese, originariamente esclusa, ha di regola solo funzione di pubblicità notizia.
Art. 2083 cod. civ.: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli
commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”.
Per aversi piccola impresa è perciò necessario che: a) l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa; b)
il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgano sia rispetto al lavoro
altrui sia rispetto al capitale investito nell’impresa.
La prevalenza del lavoro familiare sugli altri fattori produttivi deve correttamente intendersi in senso
qualitativo-funzionale. È necessario cioè accertare se l’apporto personale dell’imprenditore e dei suoi
familiari abbiano rilievo preminente nell’organizzazione dell’impresa e caratterizzino i beni o servizi
prodotti.
L’art. 1, comma 2, legge fall., nel ribadire che i piccoli imprenditori commerciali non falliscono, stabilisce:
“Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati
riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore
al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono
considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta
essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”.
“In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali”.
Nella legge fallimentare questi è individuato esclusivamente in base a parametri monetari e quindi con
criterio palesemente non coincidente con quello fissato dal codice civile (prevalenza funzionale del lavoro
familiare). C’è la necessità di trovare un coordinamento fra le due norme, per evitare di cadere nel paradosso
di dovere nel contempo riconoscere e negare allo stesso soggetto la qualità di piccolo imprenditore e agli
stessi effetti.
Due modifiche sono intervenute nel sistema normativo:
L’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa a partire dal 1° gennaio 1974. Il criterio del reddito fissato
dalla legge fallimentare non è perciò più applicabile, per implicita abrogazione della relativa previsione
normativa.
Il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000 è stato dichiarato incostituzionale nel 1989, in
quanto non più idoneo, in seguito alla svalutazione monetaria, a fungere da scriminante fra imprenditori
commerciali soggetti al fallimento e quelli esonerati.
La nozione di piccolo imprenditore oggi può essere così ricostruita. È piccolo imprenditore il titolare di
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Diritto dell'Impresa un’impresa in cui prevale il lavoro familiare (art. 2083). In nessun caso sono però piccoli imprenditori le
società commerciali (art. 1, 2° comma, legge fall.).
La piccola impresa e, soprattutto, la piccola impresa agricola e l’impresa artigiana godono di una copiosa ed
articolata legislazione speciale.
Per stabilire se un dato imprenditore è esonerato dal fallimento perché titolare di una piccola impresa, si
deve guardare solo alla prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo.
Questo principio subiva però fino a qualche tempo fa una vistosa eccezione per una delle figure tipiche di
piccola impresa: l’impresa artigiana.
Il dato caratterizzante l’impresa artigiana risiedeva nella natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti e
non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. Rispettati i limiti per il personale
dipendente fissati per talune le attività artigiani, l’impresa doveva ritenersi artigiana e sottratta al fallimento
anche quando, per gli ingenti investimenti di capitali e la manodopera impiegata, non era più rispettato il
criterio della prevalenza.
La qualifica artigiana era infatti riconosciuta anche alle imprese costituite in forma di società, purchè si
trattasse di società cooperative o in nome collettivo ed alla condizione ulteriore che la maggioranza dei soci
partecipi personalmente al lavoro e, nell’impresa, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. Le
società artigiane dovevano considerarsi esonerate dal fallimento, posto che la qualifica artigiana operava a
tutti gli effetti di legge e quindi anche agli effetti del fallimento.
La legge n. 860 del 1956 è stata abrogata dalla legge quadro per l’artigianato n. 443 del 1985.
Anche quest’ultima contiene una propria definizione dell’impresa artigiana basata:
sull’oggetto dell’impresa, che oggi può essere costituito da qualsiasi attività di produzione di beni, anche
semilavorati, o di prestazioni di servizi, sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;
sul ruolo dell’artigiano nell’impresa, richiedendosi in particolare che esso svolga in misura prevalente il
proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo, ma non, si badi, che il suo lavoro prevalga sugli
altri fattori produttivi.
Il personale dipendente deve essere personalmente diretto dall’artigiano ed è stabilito che l’imprenditore
artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana.
La legge del 1985 riafferma altresì la qualifica artigiana delle imprese costituite in forma di società
cooperative o in nome collettivo, a condizione che la maggiorana dei soci, ovvero uno nel caso di due soci,
svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro
abbia funzione preminente sul capitale. Il lavoro in genere e non quello prestato dai soci.
La qualifica di impresa artigiana è stata successivamente estesa alla società a responsabilità limitata
unipersonale e alla società in accomandita semplice, e più di recente alla s.r.l. pluripersonale.
È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale dei beni o servizi prodotti. La generale elevazione
del numero massimo dei dipendenti consentono di conservare la qualifica artigiana anche raggiungendo le
dimensioni di una piccola industria di qualità.
L’impresa artigiana certamente si caratterizza ancora per il rilievo del lavoro personale dell’imprenditore nel
processo produttivo. Da nessuna norma della legge speciale è invece consentito desumere che debba
necessariamente ricorrere la prevalenza (funzionale e/o quantitativa) del lavoro proprio e dei componenti
della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito.
La legge quadro ha realizzato una vistosa frattura rispetto alla legge del 1956 e preclude ogni residua
possibilità di ricondurre il nuovo modello di impresa artigiana nell’alveo della definizione generale di
piccolo imprenditore.
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Diritto dell'Impresa È quindi venuto meno il solo dato che imponeva di attribuire valore generale alla nozione di impresa
artigiana contenuta nella legge speciale del 1956. Oggi, perciò, il riconoscimento della qualifica artigiana in
base alla legge quadro non basta per sottrarre l’artigiano allo statuto dell’imprenditore commerciale. E’
necessario altresì che sia rispettato il criterio della prevalenza fissato dall’art. 2083. In mancanza,
l’imprenditore sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali, ma dovrà qualificarsi imprenditore
commerciale non piccolo ai fini civilisti e quindi potrà fallire.
L’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane non preclude all’autorità giudiziaria di accertare se
effettivamente sussistano i presupposti per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore.
Anche l’esonero delle società artigiana dal fallimento si deve ritenere cessato.
Una società artigiana godrà delle provvidenze di cui godono le altre imprese artigiane, ma in caso di
dissenso fallirà al pari di ogni altra società che esercita attività commerciale.
Non è sostenibile che le imprese artigiane, rispondenti ai requisiti fissati dalla legge del 1985, siano imprese
civili e non commerciali per difetto del requisito dell’industrialità.
La distinzione fra impresa industriale ed impresa artigiana è in funzione delle dimensioni dell’impresa e non
della natura dell’attività.
L’imprenditore artigiano non è che un piccolo industriale e quindi, giuridicamente, rientra nella categoria
degli imprenditori commerciali, come del resto emerge dal fatto che alcune delle attività esercitabili
dall’impresa artigiana sono espressamente ricompresse nell’elenco delle attività commerciali di cui all’art.
2195.
Al pari di ogni imprenditore commerciale, l’imprenditore artigiano individuale sarà esonerato dal fallimento
solo se in concreto ricorre la prevalenza del lavoro familiare. L’impresa artigiana in forma societaria sarà
invece sempre esposta al fallimento in applicazione della parte restata in vigore dell’art. 1, 2° comma, legge
fallimentare.
È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado (fino ai
nipoti) e gli affini entro il secondo grado (fino ai cognati) dell’imprenditore: cosiddetta famiglia nucleare.
È frequente che la piccola impresa sia anche impresa familiare, ma fra le due fattispecie non vi è
coincidenza.
Il legislatore ha voluto predisporre una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell’impresa,
destinata a trovare applicazione quando non sia configurabile un diverso rapporto giuridico e non sia perciò
azionabile altro mezzo di tutela.
La tutela legislativa è realizzata riconoscendo ai membri della famiglia nucleare, che lavorino in modo
continuato nella famiglia o nell’impresa (il lavoro domestico è equiparato a quello nell’impresa e il lavoro
della donna è equiparato a quello dell’uomo), determinati diritti patrimoniali e amministrativi.
Diritti patrimoniali:
diritto al mantenimento;
diritto di partecipazione agli utili dell’impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato;
diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda sempre in proporzione alla
quantità ed alla qualità del lavoro prestato;
diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda stessa.
Sul piano gestorio è poi previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa e talune
altre decisioni di particolare rilievo sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa
Enrica Bianchi Sezione Appunti
Diritto dell'Impresa stessa.
Il diritto di partecipazione è trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e con il
consenso unanime dei familiari già partecipanti. È inoltre liquidabile in danaro qualora cessi la prestazione
di lavoro ed in caso di alienazione dell’azienda.
Per quanto riguarda la titolarità dei beni aziendali, essi restano di proprietà esclusiva dell’imprenditore-
datore di lavoro.
I diritti patrimoniali dei partecipanti all’impresa familiare vanno concepiti come semplici diritti di credito
nei confronti del familiare imprenditore.
Sul piano gestorio il silenzio del dato legislativo in merito agli atti di gestione ordinaria va risolto nel senso
che essi rientrano nella competenza esclusiva dell’imprenditore e che nessun potere competa al riguardo agli
altri familiari. La violazione da parte dell’imprenditore dei poteri gestori ex lege riconosciuti ai familiari lo
esporrà al risarcimento dei danni eventuali nei loro confronti, ma non inciderà sulla validità o sull’efficacia
degli atti compiuti, che saranno perciò ugualmente produttivi di effetti nei confronti dei terzi.
L’imprenditore agisce nei confronti dei terzi in proprio e non quale rappresentante dell’impresa familiare. Se
l’impresa è commerciale solo il capo famiglia-datore di lavoro sarà esposto al fallimento in caso di dissenso.
Enrica Bianchi Sezione Appunti
Diritto dell'Impresa