Preciso riassunto del manuale per sostenere l'esame di virologia. Vengono esposte le principali metodiche di coltura e analisi dei virus. Si esplicano le modalità di azione dei virus e dei virioni, in tutte le fasi del ciclo replicativo virale.
Elementi di virologia molecolare
di Domenico Azarnia Tehran
Preciso riassunto del manuale per sostenere l'esame di virologia. Vengono
esposte le principali metodiche di coltura e analisi dei virus. Si esplicano le
modalità di azione dei virus e dei virioni, in tutte le fasi del ciclo replicativo
virale.
Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
Facoltà: Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali
Corso: Scienze Biologiche
Esame: Virologia
Titolo del libro: Elementi di virologia molecolare
Autore del libro: Alan J. Cann
Editore: Ambrosiana
Anno pubblicazione: 20061. Storia della virologia
La virologia è spesso considerata come una “nuova” disciplina della biologia; se questo è vero per quanto
concerne il formale riconoscimento dei virus come organismi distinti dagli altri esseri viventi, tuttavia oggi
sappiamo che i popoli antichi non soltanto non furono risparmiati dagli effetti delle infezioni virali, ma che,
in alcuni casi ricercarono attivamente anche le cause e i mezzi per la prevenzione. E' probabile che il primo
documento scritto riguardante un'infezione virale sia rappresentato da un geroglifico, trovato in Egitto, del
3700 a.C., che mostra un sacerdote con tipici segni di un paziente guarito dalla poliomelite paralitica. Si
ritiene, inoltre, che anche il faraone Ramses V, che morì nel 1196 a.C., sia deceduto a causa del vaiolo. In
Cina, invece, dove il vaiolo è stato endemico fin dal 1000 a.C., per contrastare questa malattia fu sviluppata
la pratica della vaiolizzazione. Avendo riconosciuto che i sopravvissuti alle epidemie di vaiolo erano protetti
da successive infezioni, i cinesi usavano inalare, come fosse tabacco da fiuto, le croste secche prelevate dalle
lesioni vaiolose o, come in pratiche successive, inoculare il pus prelevato da una lesione in una scalfittura
praticata sull'avambraccio. La vaiolizzazione, sebbene sempre rischiosa, poiché il risultato dell'inoculazione
non era mai sicuro, fu praticata per secoli dimostrandosi un efficace mezzo di prevenzione della malattia.
Edward Jenner, all'età di 7 anni, rischiò la vita a causa della vaiolizzazione e non sorprende che tale
esperienza l'abbia spinto alla ricerca di trattamenti alternativi più sicuri. Egli aveva notato che le mungitrici
che vivevano nella sua contea e che avevano contratto una malattia non grave, chiamata vaiolo bovino, non
si ammalavano di vaiolo persino quando era presente in forma epidemica nella loro comunità. Allora,
Jenner, il 14 Marzo 1796, usò materiale infettato con il virus del vaiolo bovino per vaccinare un bambino di
8 anni. Dopo pochi mesi, inoculò deliberatamente lo stesso bambino con materiale da un caso di vaiolo
umano e vide con grande scalpore che la malattia non si sviluppò. Da questo esperimento è derivato il
termine vaccinazione (dal latino vacca=mucca). Bisogna ricordare, però, che il virus del vaiolo è uno dei
virus più grandi e che il vaiolo bovino non è della stessa specie del vaiolo umano. Il vaccino di Jenner era
basato sul virus del vaiolo bovino (cowpox virus). L'attuale vaccino è basato sul virus vaccinico, una nuova
specie, geneticamente diversa, emersa come conseguenza dei passaggi, uomo-uomo o mucca-mucca. Nel
1885 fu generato, da Louis Pasteur, il primo vaccino antivirale attenuato contro la rabbia, sebbene egli
ignorasse completamente la natura dell'antigene infettivo. Quando si parla di vaccino attenuato si parla di un
virus vivo in grado di riprodursi, tuttavia la sua progenie virale non avrà caratteristiche patogene evidenti,
ossia non si osservano i sintomi della malattia. Pasteur attenuò il virus della rabbia propagando il virus in
questione più volte nei conigli finchè osservò che questi animali non manifestavano, in parte, i sintomi
evidenti della malattia, ossia avevano una sua forma blanda.
Nel 1892, il botanico russo Dimitri Iwanowski dimostrò che estratti derivati da piante di tabacco ammalate,
anche dopo passaggi attraverso filtri di ceramica capaci di trattenere anche i più piccoli batteri conosciuti,
potevano trasmettere malattie ad altre piante. Sfortunatamente egli non comprese appieno il significato di
questi risultati e fu Martinus Beijerinck che per primo, alcuni anni dopo, sviluppò la moderna concezione sui
virus, che definì con il termine contagium vivum fluidum (un agente vivente solubile). Successivamente, nel
1898, Freidrich Loeffler e Paul Frosh dimostrarono che un agente con caratteristiche simili era responsabile
dell'afta epizooitica nei bovini ma, nonostante la conferma che questi nuovi agenti fossero causa di malattia
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Elementi di virologia molecolare negli animali e nelle piante, nessuno accettava l'idea che potessero provocare malattie anche nell'uomo.
Queste perplessità furono superate nel 1909 quando Karl Landsteiner ed Erwin Popper dimostrarono che la
poliomelite era causata da un agente filtrabile; fu così riconosciuto per la prima volta che una malattia
umana potesse essere causata da un virus. Nel 1915, Federick Twort e Felix d'Herelle furono i primi a
scoprire i virus che infettano i batteri, che d'Herelle chiamò batteriofagi (“mangiatori di batteri”). Nel 1930 e
nei decenni successivi, scienziati pionieri della virologia, quali Salvador Luria, Max Delbruck e molti altri,
utilizzarono questi virus come sistemi modello per studiare diversi aspetti come la struttura, la genetica e le
modalità di replicazione dei virus.
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Elementi di virologia molecolare 2. Origine dei virus e proprietà condivise
L'origine dei virus è tutt'oggi ancora poco chiara e si fa riferimento a tre ipotesi:
1.Evoluzione regressiva: i virus sono forme di vita degenerate che hanno perso molte delle loro funzioni ed
hanno mantenuto soltanto l'informazione genetica necessaria per una forma di vita parassita.
2.Origini cellulare: i virus sono un insieme di componenti macromolecolari , che hanno abbandonato il loro
stato sub-cellulare all'interno della cellula.
3.Entità indipendenti: i virus si sono evoluti parallelamente agli organismi cellulari da molecole
autoreplicanti che si pensi siano esistite nel primitivo “mondo a RNA” prebiotico.
Comunque in generale, tutti i virus per definizione sono dei parassiti intracellulari obbligati perché mancano
di tutte le informazioni genetiche che codificano l'apparato necessario per la produzione di energia
metabolica e per la sintesi proteica. Il loro genoma consiste di DNA o RNA, ma non di entrambi. Le
particelle virali (virioni) sono prodotte come risultato dell'assemblaggio di componenti preformati; altri
agenti “crescono” grazie all'aumento controllato dei loro componenti e si moltiplicano mediante il processo
di divisione, i virioni, invece, non crescono e non vanno incontro a divisione. Inoltre essi sono formati da
acido nucleico rivestito di solito da un involucro proteico (capside) ed in alcuni casi da una membrana
contenente lipidi e glicoproteine (envelope). Altri agenti infettanti studiati dai viriologi sono i viroidi,
virusoidi e prioni. I viroidi sono piccoli RNA circolari (200-400 nt), sprovvisti di capside ed envelope.
Questi sono associati ad alcune malattie delle piante, sono infettivi dunque e parassiti intracellulari obbligati.
I virusoidi, o virus satelliti, sono simili ai viroidi ma di maggiori dimensioni, sono molecole satellite che per
moltiplicarsi dipendono dalla presenza di un virus in replicazione (da qui il termine satellite). Essi sono
presenti nelle piante e negli animali e sono associati a malattie come l'epatite delta. I prioni, invece,
consistono di un singolo tipo di proteina e sono privi di acido nucleico. La proteina del prione e il gene che
la codifica è presente anche nelle cellule normali non infettate. Essi sono associati a malattie infettive come
particolari encefalopatie.
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Elementi di virologia molecolare 3. Ospiti viventi animali e vegetali
Le cellule eucariotiche possono essere coltivate in vitro (colture cellulari) e impiegate per la propagazione
del virus; tali tecniche sono tuttavia costose e non di facile esecuzione. Alcuni virus, come il virus
dell'influenza, si replicano nelle cellule delle uova embrionali di pollo nelle quali, i ceppi che vi sono
adattati, crescono molto bene raggiungendo numeri elevati. Uova embrionali di pollo sono state impiegate
per la propagazione dei virus per la prima volta nei primi decenni del diciannovesimo secolo. Questo
metodo di coltura è risultato molto efficace per l'isolamento e la replicazione di diversi virus, in particolare
per quelli dell'influenza e per i poxvirus. In virologia l'utilizzo di ospiti animali è ancora impiegato nei
seguenti casi:
1)Per la riproduzione di virus che non possono essere efficacemente studiati in vitro (es., virus dell'epatite
B);
2)Per studiare la patogenesi dell'infezione virale;
3)Per verificare la sicurezza di un vaccino.
Nonostante ciò l'impiego di animali è sempre meno frequente a causa dei seguenti motivi:
1)l'allevamento e il mantenimento di animali infettati con virus patogeni è molto costoso;
2)gli animali sono sistemi complessi nei quali talvolta è difficile distinguere un particolare evento;
3)l'uso non necessario e dispendioso degli animali da esperimento non è per molti moralmente corretto;
4)grazie al progresso scientifico, le colture cellulari e le tecniche di biologia molecolare hanno rapidamente
preso il sopravvento sull'impiego di animali da esperimento.
L'uso delle piante come organismi ospiti, diversamente da quello degli animali, non causa problemi morali e
continua a svolgere un ruolo importante nello studio dei virus vegetali; tali sistemi, però, possono rallentare
il raggiungimento di un risultato e il loro mantenimento è elevato. Negli ultimi anni, per lo studio degli
effetti dei virus sull'organismo ospite, è stata impiegata una tecnologia completamente nuova. Si tratta della
creazione di piante e animali transgenici realizzati inserendo nel DNA di organismi da esperimento l'intero
genoma di un virus o una sua parte. Tali inserzioni, comportano l'espressione di mRNA e proteine virali in
cellule somatiche (e alcune volte nelle cellule della linea germinale), consente di studiare in ospiti viventi
l'effetto patogeno delle proteine virali, sia da sole che in varie combinazioni.
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Elementi di virologia molecolare 4. Le colture cellulari
Una coltura cellulare è costituita da un gruppo omogeneo di cellule eucariotiche provenienti da tessuti
animali; le colture sono mantenute in vita per tempi anche molto lunghi, usando condizioni sperimentali
appropriate. Ottenere colture cellulari partendo dai tessuti degli organismi superiori è un’operazione
complessa, dato che tali tessuti sono eterogenei (cioè presentano tipi cellulari diversi tra loro). Generalmente
i protocolli di isolamento prevedono una prima fase il cui scopo è quello di separare i diversi tipi cellulari
presenti nel tessuto demolendo la matrice extracellulare e le giunzioni intercellulari che le mantengono
unite. A tale scopo il tessuto viene incubato con enzimi proteolitici (tripsina e/o collagenasi) dissociando le
singole cellule mediante tecniche meccaniche. Alla fase di dissociazione segue la fase di separazione; per
separare i vari tipi cellulari da una sospensione cellulare mista si può procedere in vari modi:
1.Separando le cellule in base alle loro dimensioni o al loro peso, centrifugandole a bassa velocità con
l’ausilio di sostanze (es Percoll, Ficoll o Lymphoprep) che possono anche essere stratificate in gradienti a
diversa densità;
2.Sfruttando la diversa attitudine dei diversi tipi cellulari ad aderire su superfici di vetro o di plastica;
3.Marcando le cellule con anticorpi coniugati con sostanze fluorescenti, e poi separando le cellule marcate
da quelle non marcate;
4.Utilizzando terreni di coltura selettivi che favoriscano la crescita solo di alcuni tipi cellulari e/o
aggiungendo al terreno di coltura ormoni che favoriscono (o inibiscono) la crescita di determinati tipi
cellulari.
La sospensione cellulare omogenea così ottenuta è messa in “coltura”, cioè viene trasferita in contenitori
appositi contenenti miscele di sostanze inorganiche ed organiche necessarie al sostentamento delle cellule.
Le cellule crescono adese o in sospensione. Le cellule che crescono al supporto su cui sono state seminate
(cioè sulla parete della fiasca) crescono formando monostrati (se sono sane, in quanto risentono
dell’inibizione da contatto) o pluristrati (se sono tumorali e quindi non risentono dell’inibizione da contatto e
formano i cosiddetti foci di trasformazione, singolare focus). Le cellule non crescono adese alla parete della
fiasca, ma sospese nel terreno di coltura senza aderire ad alcun supporto. Esistono differenti tipi di colture
cellulari: coltura primaria, coltura preparata a partire dai tessuti di un organismo eucariote vuol dire prendere
da un animale dei pezzetti di tessuto specifico, disgregare questo tessuto tramite uso di proteasi e
collagenasi, recuperare le singole cellule che formano questo tessuto e metterle in coltura. Queste colture
primarie hanno vita breve e vivono per pochi cicli di replicazione, massimo 5-10 replicazioni per cellula;
coltura secondaria, coltura propagata a partire dalle colture primarie, cellule di linea o immortalizzate,
gruppi di cellule morfologicamente uniformi che possono essere propagate in vitro per un tempo indefinito,
clone, popolazione proveniente da un’unica cellula progenitrice. Le colture possono essere inoltre suddivise
in coltura finita, quando alcuni tipi di cellule normali (fibroblasti o linfociti) possono essere coltivati in vitro,
in presenza di un'alta percentuale di siero, per un periodo di tempo limitato e per un numero totale di
divisioni cellulari limitato (50-100) fino a quando raggiungono una fase di crisi in seguito alla quale
cessando di dividersi ed entrano in una fase di senescenza che conduce alla morte cellulare, o coltura
continua, deriva da colture di cellule primarie che, per acquisizioni di mutazioni geniche (linea cellulare
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Elementi di virologia molecolare immortalizzata non trasformata) o in seguito a trasformazioni in vivo (es. tumori) o in vitro (es. per
infezione con virus EBV) (linea cellulare trasformata), hanno superato la fase di crisi e sono in grado di
crescere infinitamente. I materiali e le sostante utilizzate per le colture sono:
MEM (Minimum Essential Medium): è il terreno di coltura;
FBS (Siero Fetale Bovino): contiene numerosi fattori di crescita (non contenuti nel terreno di coltura) utili
per la crescita delle cellule.
TRIPSINA: enzima proteolitico che rompe i legami peptidici delle proteine extracellulari che costituiscono
il substrato su cui le cellule sono ancorate (nel nostro caso serve per staccare le cellule dalla plastica della
fiasca): la temperatura ottimale per il suo funzionamento è 37°C ma funziona anche a temperatura ambiente.
In questo caso occorre lasciar agire per un tempo più lungo.
FIASCHE: sono i “contenitori” in cui le cellule proliferano. Internamente sono sterili; possono avere un
tappo ventilato, cioè con un filtro che permette gli scambi gassosi e contemporaneamente garantisce la
sterilità della coltura.
TUBI: sono provette a fondo conico con capienza di 15 e 50 ml utilizzate per riporre i reagenti liquidi e per
la centrifugazione delle sospensioni cellulari.
Il terreno di coltura, invece, viene scelto in base alle caratteristiche e alle esigenze del tipo cellulare
utilizzato. Può essere liquido (pronto all’uso) oppure in polvere (in tal caso deve essere ricostituito come
indicato dalla casa produttrice). In ogni caso il terreno di coltura deve avere le seguenti caratteristiche: 1)
deve avere determinati valori di pH e osmolarità; 2) deve essere non tossico; 3) deve contenere tutti i
composti necessari al metabolismo cellulare, e precisamente: ioni, per mantenere il bilancio osmotico;
zuccheri, come fonte di energia; amminoacidi, per la formazione di proteine; vitamine, cofattori enzimatici.
Prima dell’uso al terreno di coltura vengono aggiunti una miscela di antibiotici (di solito
penicillina/streptomicina) e un antimicotico (generalmente anfotericina B). Un problema che ha reso difficili
i tentativi pionieristici di mantenimento di colture e complica la vita quotidiana dei biologi cellulari è la
sterilità: i terreni di coltura ed il siero sono infatti molto "appetibili" per batteri, lieviti e funghi che possono
facilmente inquinare le colture cellulari. Questo problema viene affrontato a vari livelli:
1)Tutte le manipolazioni delle colture cellulari vengono fatte in cappe a flusso laminare provviste di filtri,
che limitano la contaminazione occasionale con microrganismi trasportati dall'aria.
2)Tutti i materiali utilizzati per la manipolazione (pipette, piastre da coltura) sono sterili e di norma
monouso.
3)Ai terreni di coltura vengono spesso aggiunti antibiotici per limitare la possibilità di inquinamento da parte
dei più comuni batteri.
I sistemi di sterilizzazione che servono appunto per ovviare a questi problemi sono tutt'oggi:
Filtri : si utilizzano per sterilizzare i terreni, i tamponi o altre sostanza allo stato liquido. Si tratta di
membrane di cellulosa o altre sostanze (nylon, nitrocellulosa, polisulfone, policarbonato; la scelta del tipo di
filtro dipende dalla sostanza che dobbiamo filtrare) che differiscono per la porosità (di solito usiamo
membrane con pori da 0,2 m che ci permettono di filtrare i possibili contaminanti presenti nella soluzione) e
per il diametro (dipende dall’uso che ne vogliamo fare, ad esempio se vogliamo applicarlo ad una siringa o
ad un apparato di filtrazione). Durante l’uso è consigliabile non applicare una pressione troppo alta che
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Elementi di virologia molecolare provocherebbe una rottura del filtro.
Mezzi chimici: si usano sostanze dal conosciuto potere germicida, diluite alle concentrazioni opportune. Le
sostanze più usate sono l’ipoclorito di sodio (concentrazione [c] d’uso 2%), lo Zefirol ([c] d’uso dall’1% al
5%) e l’etanolo ([c] d’uso 70%). Si utilizzano per la pulizia degli strumenti, della cappa, dell’incubatore,
delle mani dell’operatore e di tutto ciò che non può essere sterilizzato con altri mezzi.
Mezzi fisici : sono due, i raggi ultravioletti ed il calore. L’uso dei raggi ultravioletti è possibile grazie
all’esistenza di particolari lampade (lampade UV) che vengono accese nella cappa sterile e/o nell’ambiente
in cui è posta la cappa. Tali lampade vanno tenute accese minimo due ore, preferibilmente tutta la notte. La
sterilizzazione con il calore è utilizzata per la vetreria e per strumenti di metallo e plastica; si distingue
sterilizzazione a secco (in stufe che raggiungono dai 180°C ai 300°C) per la strumentazione in vetro che non
ha pezzi di plastica (che non resisterebbero a tali temperature) e sterilizzazione in autoclave (che sterilizza
con vapore acqueo a 120°C) dove si possono mettere a sterilizzare strumenti di plastica o bottiglie
(compreso il tappo).
I vantaggi derivati dall'uso delle colture cellulari sono:
Le colture costituiscono un materiale abbondante ed omogeneo per lo studio delle cellule sia in condizioni
fisiologiche che in seguito al trattamento con agenti chimici, fisici e biologici.
Si possono ottenere cloni e varianti della cellula originale.
Si possono congelare e recuperare a distanza di anni.
Si possono testare contemporaneamente anche un gran numero di condizioni sperimentali con risparmio di
tempo (il tempo necessario per osservare una modificazione in vivo è molto più lungo di quello necessario
per vedere una modificazione in vitro ).
L’uso delle colture permette di evitare la vivisezione ed il sacrificio di animali.
La coltura cellulare è un sistema più economico rispetto al mantenimento di animali.
L’uso delle colture permette di ottenere dati riproducibili.
Gli svantaggi invece risultano essere:
L’uso delle colture fornisce una visione un po’ “ristretta” della realtà, in quanto non è possibile tener conto
di tutte le variabili che intervengono in vivo , e nemmeno riprodurle in vitro.
Su alcune linee cellulari non possono essere effettuati alcuni tipi di studi (ad esempio studi sull’inibizione da
contatto non possono essere effettuati sulle cellule tumorali).
Pericolo di contaminazioni.
Esperienza degli operatori.
Il protocollo standard per la crescita di una coltura cellulare può essere schematizzato: Da una fiasca
contenente cellule a confluenza: Scartare il terreno di coltura; Lavare con MEM senza siero; Aggiungere
tripsina; Lasciar agire la tripsina per circa 5 min a 37°C; In questo tempo preparare un tubo contenente
MEM + FCS al 10%; Trascorsi i 5 minuti, verificare che le cellule si siano staccate; quindi aggiungere il
MEM + FCS al 10% e centrifugare (10 min a 500xg); Scartare il sopranatante (sul fondo del tubo è visibile
il pellet, composto dalle cellule sedimentate); Aggiungere al sedimento una piccola quantità (circa 1 ml) di
MEM + FCS al 10% per effettuare una risospensione graduale delle cellule; aggiungere altro MEM + FCS
al 10% fino a raggiungere il volume desiderato. Prelevare un certo volume di sospensione cellulare e
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Elementi di virologia molecolare seminare in fiasca; il volume di sospensione cellulare da seminare dipende dalla superficie di crescita della
fiasca e dalla densità desiderata (nel nostro caso seminiamo 2 ml di sospensione cellulare in una fiasca che
ha superficie di crescita di 25cm2, contenente 10 ml di MEM + FCS al 10%). (Come sappiamo la capacità
delle cellule di crescersi e dividersi è controllata da un orologio cellulare. Quest'ultimo è composto da
proteine che integrano i segnali pro- e anti- proliferanti provenienti dall'ambiente esterno e dall'interno della
cellula. Abbiano dei regolatori positivi che attivano il ciclo cellulare e invece dei regolatori negativi che lo
inibiscono. Nei primi abbiano i complessi ciclina-CDK che sono delle chinasi ciclina-dipendente che vanno
a fosforilare il retinoblastoma, che liberano E2F per trascrivere dei geni necessari per G1 e S. Dei secondi
invece fanno parte gli inibitori dei complessi ciclina-CDK e oncosopressori.)
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Elementi di virologia molecolare 5. Metodi di saggio dei virus
Per quantificare delle particelle virali è possibile usare il microscopio elettronico e contare ogni singola
particella oppure usare il saggio di emoagglutinazione è una titolazione, e si può usare solo con virus
emoagglutinanti .Con microscopia a scansione vediamo globuli rossi con virus influenzali sulla loro
superficie. Alcuni virus hanno la capacità di riconoscere attraverso proteine presenti sulla loro superficie,
delle molecole presenti sui globuli rossi, in particolare l'acido sialico di cui i globuli rossi sono molto ricchi.
Questi virioni, potendo interagire con gli eritrociti, agglutinano e quindi tengono vicino a se più eritrociti
agglutinandoli. Possiamo quindi usare questa tecnica per titolare questi virus. In delle piastre con pozzetti ad
U si distribuisce prima un tampone dello stesso volume, es. 100 microlitri; poi prendiamo 100 microlitri
della nostra sospensione virale effettuando quindi una diluizione 1 a 2. Agitiamo per rendere omogenea la
diluizione, e prendiamo 100 microlitri del primo pozzetto trasferendoli nel secondo pozzetto, così da fare
una diluizione 1 a 4; così si continua facendo altre diluizioni di due. Dopo le diluizioni si aggiungono in tutti
i pozzetti 100 microlitri di emazie allo 0,5% (emazie di pollo, di coniglio o umane di gruppo 0 RH
negativo). A questo punto bisogna attendere che questi eritrociti sedimentino in base alla forza di gravità. Se
il virus non c'è, gli eritrociti sedimentando andranno a sbattere contro le pareti del pozzetto a U, formando
un bottoncino in fondo al pozzetto. Se il virus c'è, esso farà un reticolo di emazie che darà l'agglutinazione
dei globuli rossi. Il pozzetto appare quindi in questo caso omogeneamente colorato in rosso e non si avrà
solo un puntino in fondo. Questa è una tecnica macroscopica che in un'ora permette di titolare il virus, anche
se può essere usata solo per i virus che causano agglutinazione delle emazie. Le diluizioni sono ravvicinate
(in base due piuttosto che dieci) ma, affinché avvenga il fenomeno dell'agglutinazione, è stato calcolato che
è necessaria la presenza di almeno 105 virioni. Lo scarto è quindi abbastanza grande, cosa che da poca
precisione al metodo. Il titolo, in questo caso, viene dato in HU/ml ed è dato dall'inverso dell'ultima
diluizione in cui si osserva l'agglutinazione. Un ulteriore uso della capacità dei virus di legare le emazie ci
permette di vedere quali sono le emazie infette da questi virus. Molte delle glicoproteine virali, tra cui quelle
che causano l'emoagglutinazione (la HA, emoagglutinina), prodotte durante il ciclo di replicazione virale
vengono esposte sulla superficie della cellula infetta permettendo appunto questo fenomeno.
L'agglutinazione ci permette di vedere anche come alcuni virus non hanno un grosso rilascio dalle cellule
infette.
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Elementi di virologia molecolare 6. Colture virali per analizzare i virus
Durante l'analisi di un virus, però, può essere utile ricorrere a delle colture virali per analizzarne
specialmente le unità virali infettive. Per questo si usa il saggio delle placche. Si prende un monostrato
cellulare e si infettano le cellule con la nostra sospensione virale. Per titolare il virus, la sospensione virale
deve essere trattata in un certo modo poiché non conosciamo la quantità di virus che abbiamo in mano. Se
abbiamo una piastra con diametro di 6 cm possiamo calcolare che, a livello di monostrato, possiamo avere
da 5x105 a 5x106 cellule che formano il monostrato (in base alla dimensione delle cellule). Se da una cellula
si formano mille o un milione di nuove particelle virali, possiamo avere numeri immensi come 5x108 virus,
se vengono prodotti mille virus per cellula. Dalla nostra sospensione virale dobbiamo quindi fare varie
diluizioni. Normalmente vengono operate diluizioni in base dieci. La diluizione 0 sarà 1 a 10, poi faremo 1 a
100, poi 1 a 1000 ecc... Con queste singole diluizioni andremo ad infettare delle repliche, cioè dei
monostrati non infetti con le varie sospensioni virali diluite. Tutte verranno infettate un'ora a 37 gradi come
abbiamo già visto. Successivamente si toglie l'inoculo virale e si mette sopra nuovo terreno in modo da far
sviluppare il virus nelle cellule. Se mettiamo il nuovo terreno in forma liquida, i virus che sono entrati in
queste cellule si replicano, e, quando vengono rilasciati nel mezzo, possono andare ad infettare anche cellule
molto lontane sul monostrato. Il risultato sarebbe che dopo uno o due giorni avremo tutti i pozzetti uguali
perché le cellule sarebbero state infettate tutte quante e quindi avrebbero tutte l'effetto citopatico. Anche le
piastre con meno virus alla fine diventerebbero identiche alle altre perché il virus si diffonderebbe nel mezzo
ed infetterebbe tutte le cellule. Bisogna quindi, dopo il periodo di adsorbimento virale, quindi dopo un'ora,
aggiungere nuovo terreno di coltura reso semi-solido con l'aggiunta di addensanti come agarosio e
metilcellulosa. Questo terreno semi-solido impedisce il salto di un virus da una cellula ad un'altra lontana. Il
virus può quindi infettare solo cellule limitrofe e non cellule lontane. Durante il tempo di incubazione delle
colture, dato che il virus si replica, sopra i monostrati si creano delle aree di lisi molto simili a quelle che
avvengono con i batteriofagi sui batteri, solo che in questo caso sono cellule animali infettate e morte per
infezione. Le varie zone di lisi possono essere rilevate facilmente colorando il monostrato con coloranti
come il cristal-violetto. Le placche appariranno come aree perfettamente trasparenti, dato che le cellule sono
morte. Per il saggio non si fa altro che contare le singole placche comparse sul monostrato, similmente ai
batteri. Aumentando la diluizione diminuisce il numero delle placche dato che si riduce il numero di virus
che hanno infettato il monostrato. Fare le diluizioni è importante in quanto così è possibile contare le
placche, che altrimenti sarebbero centinaia. Contando il numero delle placche possiamo ottenere il titolo
virale. Conoscendo il volume iniziale della sospensione virale che abbiamo fatto adsorbire possiamo
determinare il titolo virale. Il titolo virale si ottiene facendo la media delle placche di lisi ottenute con le
varie diluizioni. Infine, dato che generalmente si infetta con 0,5 ml di sospensione virale, il titolo virale
ottenuto sarà moltiplicato per due (dato che la concentrazione è in ml), che poi verrà moltiplicato per
l'inverso dell'ultima diluizione che forma placche (esempio 10-8 quindi moltiplichiamo per 108). L'unità è il
PFU (unità formante placca)/ml. Questa è quindi la titolazione per placche.
Un altro metodo per la misurazione delle unità virali infettive, ossia i virioni che uccidono la cellula come ad
esempio virus nudi litici oppure virus con envelope particolarmente aggressivi, si usa il saggio dei foci di
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Elementi di virologia molecolare infezione fluorescenti. Questo metodo è usato molto per titolare il retrovirus dell'HIV, che viene liberato
dalla cellula ospite per gemmazione. Il problema che si riscontra nell'analizzare questo virus è che in vivo
non produce placche quindi l'operatore è impossibilitato ad usare il saggio delle placche. Il saggio consiste,
dunque, nel considerare delle cellule ospiti in agar dove all'interno è stato precedentemente trasportato un
plasmide contenente un gene reporter, LacZ, che codifica per la -galattosidasi di E.coli. Questo gene a sua
volta è sotto controllo di un promotore dell'HIV (HIV LTR). Quindi se infettiamo le cellule con il virus
dell'HIV, esso codifica per una proteina, HIV TAT, che attiva il regolatore e quindi viene codificato LacZ.
Al posto di quest'ultimi possiamo aggiungere GFP, una proteina fluorescente. In questo saggio non
osserveremo dei buchi ma in maniera colorimetrica vedremo nel caso di LacZ delle palline blu o nel caso di
GFP useremo un microscopio a fluorescenza per evidenziare la suddetta proteina.
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Elementi di virologia molecolare 7. Metodi sierologici di studio dei virus
Per saggiare su cellule bersaglio l'infettività di molti virus, spesso si aggiungono ad una preparazione virale
degli anticorpi in metodi chiamati metodi sierologici, perché appunto si basando sullo studio delle reazioni
antigene-anticorpo. Anticorpi prodotti contro un dato virus possono inibire l'interazione tra il virus stesso e il
recettore cellulare oppure possono evitare che il virione liberi il suo genoma e lo metti a disposizione della
cellula ospite, in maniera tale da neutralizzare l'infettività del virus stesso e per questo sono detti anticorpi
neutralizzanti. Altri anticorpi possono, invece, reagire con il virus senza tuttavia interferire con la sua
capacità di infettare, quindi si dice che questi anticorpi non hanno capacità neutralizzante. Le reazioni di
neutralizzazione avvengono sia in vivo così come in vitro. I saggi di neutralizzazione sono stati molto utili
anche per la definizione dei sierotipi virali. La definizione di quest'ultimi è importante per la classificazione
e nello sviluppo dei vaccini, infatti per generare un vaccino efficace si dovrebbero includere tutti gli esempi
dei sierotipi di un dato virus (ad esempio nel virus della poliomelite abbiamo 3 sierotipi diversi e un vaccino
adeguato dovrebbe coprire tutti gli individui e quindi tutti i sierotipi del virus). Il primo test che si riscontra
nei metodi sierologici è il test di inibizione dell'emoagglutinazione, che verifica la presenza di anticorpi
neutralizzanti. Questo metodo mette in evidenza gli anticorpi in grado di reagire con gli antigeni virali
responsabili dell'emoagglutinazione. Infatti campioni di eritrociti sono miscelati con quantità note di virus e
varie diluizioni del siero da saggiare. La presenza di anticorpi specifici per il virus verrà evidenziata
dall'inibizione all'emoagglutinazione, sarà inoltre possibile stabilire un titolo anticorpale (anche se non
accuratissimo) determinato in base alle diluizioni di siero che non è più inibente. Quindi il titolo anticorpale
di un siero corrisponderà alla più alta diluizione in grado di inibire l'emoagglutinazione. Nel caso in figura
3200 unità inibenti l'emoagglutinazione.
Un altro metodo per identificare un antigene virale direttamente sul campione (in situ), evitando l'isolamento
e la coltivazione del microrganismo stesso, è l'immunofluorescenza. Gli anticorpi possono venire legati
covalentemente a coloranti fluorescenti come la rodamina B che conferisce una fluorescenza rossa. Tale
modificazione non altera la specificità dell'anticorpo e, al contempo, rende possibile rilevare l'anticorpo
legato ad antigeni superficiali di cellule o di tessuti osservati al microscopio a fluorescenza. Infatti quando
eccitate alla luce a una particolare lunghezza d'onda, le cellule ricoperte da anticorpi emettono una brillante
fluorescenza. Esistono due diverse procedure che utilizzano anticorpi a fluorescenti: il metodo diretto e il
metodo indiretto. Nel metodo diretto, l'anticorpo specifico per l'antigene di superficie è covalentemente
legato al colorante fluorescente. Nel metodo indiretto, la presenza di un anticorpo non fluorescente sulla
superficie della cellula è rilevato da un anticorpo fluorescente diretto contro l'anticorpo non fluorescente.
Domenico Azarnia Tehran Sezione Appunti
Elementi di virologia molecolare