Appunti sul libro di Andolfi - "Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare".
Si propone una modalità di intervento psicoterapeutico con le famiglie, in un modello trigenerazionale (figli-genitori-nonni), laddove il paziente designato è il portavoce di una crisi che riguarda tutta la famiglia. La proposta di elaborare i "miti familiari" aiuta la famiglia a svelare e superare meccanismi inconsapevoli di condotta che possono alimentare i sintomi di uno o più membri. Caldeggiato anche l'uso della provocazione, del gioco, della drammatizzazione, al fine di superare momenti di stallo e favorire l'emergere di schemi disfunzionali. L'ultimo capitolo è dedicato al caso clinico di una famiglia.
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare
di Antonino Cascione
Appunti sul libro di Andolfi - "Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare".
Si propone una modalità di intervento psicoterapeutico con le famiglie, in un
modello trigenerazionale (figli-genitori-nonni), laddove il paziente designato è il
portavoce di una crisi che riguarda tutta la famiglia. La proposta di elaborare i
"miti familiari" aiuta la famiglia a svelare e superare meccanismi inconsapevoli
di condotta che possono alimentare i sintomi di uno o più membri. Caldeggiato
anche l'uso della provocazione, del gioco, della drammatizzazione, al fine di
superare momenti di stallo e favorire l'emergere di schemi disfunzionali.
L'ultimo capitolo è dedicato al caso clinico di una famiglia.
Università: Università degli Studi di Roma La Sapienza
Facoltà: Psicologia
Corso: Psicologia
Titolo del libro: Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare
Autore del libro: Andolfi
Editore: Bollati - Boringhieri
Anno pubblicazione: 19871. Il terapeuta come nesso relazionale
In precedenti lavori era stato evidenziato il dilemma terapeutico della famiglia nella sua incapacità di
tollerare quelle fasi di disorganizzazione che sono necessarie per modificare l’equilibrio funzionale proprio
di uno stadio di sviluppo e acquisirne uno nuovo, che si esprimeva nella sua richiesta di “aiutarla a muoversi
stando ferma”. Veniva considerata come resistenza al cambiamento e pertanto scoraggiata se non ostacolata,
in quanto ritenuta improduttiva.
Questa resistenza era avvertita dal terapeuta come un vero e proprio rifiuto nei suoi confronti e nei confronti
della terapia, e lo spingeva spesso a tentare di modificare dall’inizio l’immagine di sé presentata dalla
famiglia, opponendosi ai tentativi messi in atto da quest’ultima per coinvolgerlo nel gioco.
Ma nell’atto stesso di opporsi al gioco erano già impliciti la sua partecipazione e il suo coinvolgimento.
Se in pratica gli risultava impossibile mantenere una posizione esterna di osservatore neutrale, ben più utile
sarebbe stato per lui prima assecondare il gioco della famiglia e dall’interno di questa nuova configurazione
di rapporti costruire il gioco terapeutico.
Se da un lato si richiede al terapeuta di assumere una sua coerenza interna, dall’altro è necessario che egli
instauri una proficua atmosfera di rapporto, una forma di contatto epidermica, ciò richiede un uso del Sé
flessibile, aperto e senza prevenzioni.
Proprio riempiendo vuoti importanti il terapeuta potrà raccogliere informazioni vitali sul significato di quei
vuoti per i suoi interlocutori. Quando al terapeuta vengono richieste funzioni ancora più magiche, magari di
impersonare una “divinità”, può essere più utile per lui accettare questa investitura che scappare dal gioco.
Se il terapeuta potrà usarsi come immagine ideale quel tanto che basta per farla divenire una metafora
relazionale, potrà magari cogliere il diverso bisogno di un “essere superiore” rispettivamente per un partner
A e per un partner B. Subito dopo l’esigenza di quell’entità straordinaria potrà essere legata all’assenza di un
genitore importante per A o di una guida nel matrimonio per B; in questo modo, sviluppando e ampliando i
significati legati alla ricerca di una divinità, si potranno rilevare differenze e complementarietà tra i bisogni
di A e di B, permettendo a ciascuno, terapeuta compreso, di operare la triangolazione necessaria per
orientarsi rispetto allo specifico problema.
Non occorre infatti che il terapeuta rinunci a usare sé stesso (nella sua complessità di essere pensante ed
emozionale) come nesso principale per raccogliere informazioni, al fine di mantenersi costantemente a un
meta livello.
E’ proprio nella sua possibilità di occupare alternativamente una posizione di osservatore di ciò che accade
nella relazione e di stabilire legami diadici ora con l’uno ora con l’altro dei partecipanti, ponendo a sua volta
il terzo nella qualità di osservatore di quanto si sta svolgendo, che risiede uno degli elementi strutturali della
terapia: la struttura triangolare che permette di entrare e uscire dal rapporto, distanziandosi quel tanto che è
necessario per capire cosa sta succedendo e per crearsi dei modelli di apprendimento.
Come il terapeuta apprende, nel momento in cui si pone come osservatore, le regole e le modalità relazionali
delle diverse diadi che va attivando, allo stesso modo coloro che assistono alle interazioni tra il terapeuta e
l’altro membro della diade apprendono modalità nuove di rapportarsi, modellate in parte su ciò che vedono
fare al terapeuta, nel momento in cui egli risponde a determinate richieste funzionali.
Creare di continuo nuovi rapporti triangolari e cercare di legare tra loro i vari triangoli diventa uno dei
compiti principali del terapeuta, nel momento in cui si pone come attivatore delle diverse relazioni.
Quanto più il terapeuta riuscirà a legare, slegare, strutturare, ristrutturare i legami, tanto più ciascuno,
terapeuta incluso, potrà sperimentarsi in nuove posizioni relazionali e quindi apprendere nuovi modi di
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare essere e di porsi in relazione agli altri.
Per riproporsi come nesso relazionale del gruppo familiare, il terapeuta dovrà anche essere in grado di
cogliere il “mondo” di ogni membro della famiglia, di immedesimarsi cioè con una parte dei suoi aspetti più
specifici e personali. Dovrà scoprire come ciascuno si prefigura il primo incontro e quelli successivi, quali
potenziali scenari alternativi è disposto a mettere in atto nella sua fantasia, quali rischi e quali sfide sono
tollerabili e in quali tempi, senza che il rapporto venga interrotto
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 2. La prima telefonata in psicoterapia
Rappresenta il momento iniziale in cui il problema viene presentato a una persona competente, alla quale si
chiede una soluzione.
Il tempo concesso a chi telefona per prendere un appuntamento è più limitato rispetto a quello di cui egli può
disporre in altre circostanze; la necessità di esporre nelle sue linee generali il problema gli offre spesso la
possibilità di introdurre argomenti e prendersi uno spazio che gli sarebbero negati in seduta. A tal riguardo è
determinante l’atteggiamento del terapeuta che può concorrere a estendere o contenere il tempo della
conversazione.
Chi chiama si trova nella necessità di anticipare in parte quali saranno gli elementi che il terapeuta desidera
maggiormente conoscere e quali gli elementi che potranno aiutarlo a stabilire una buona relazione con lui.
Egli acquista la funzione di intermediario della famiglia e di garante dei suoi equilibri nei confronti del
terapeuta, al quale viene portata una proposta di relazione; nello stesso tempo si trova nella condizione di
effettuare nei suoi confronti dei tentativi di alleanza o di disimpegno che gli consentano, rispettivamente di
acquisire una posizione di vantaggio nelle relazioni familiari o un aiuto per migliorarle o, viceversa, di
mantenere determinati equilibri e vantaggi acquisiti.
Il terapeuta si trova di fronte al compito di accogliere la domanda, e di esplorarne preliminarmente alcuni
possibili significati, o di rifiutarla; egli comincia a costruire ipotesi triangolari e a tradurle in domande che
tentano di ampliare gli elementi portati dall’interlocutore o di introdurvi proposte di nuove connessioni.
Per fare questo è indispensabile che egli riesca a stabilire un legame con gli aspetti più significativi delle
relazioni familiari, quelli di più alto contenuto emotivo, in grado di sollecitare il desiderio di una
prosecuzione del rapporto terapeutico, in seguito alla sensazione che siano stati toccati punti importanti.
E’ importante creare connessioni tra gli elementi forniti da chi chiama e quelli che il terapeuta percepisce
come vuoti informativi, sulla base delle sue passate esperienze o sulla base dei dissonanze emotive da lui
percepite.
Nella prima telefonata si abbozza cosi lo scenario del futuro rapporto terapeutico, si creano aspettative di
alleanza e bisogni di dipendenza, tanto più forti quanto più forti sono stati gli stimoli emotivi legati alle
immagini evocate nel dialogo.
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Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 3. Il contatto col paziente: punti nodali e trame alternative
Sotto il profilo del joining, il terapeuta fin dal primo momento cerca di mettersi in contatto, di “entrare” nel
mondo dei suoi interlocutori e di vedere la realtà attraverso i loro occhi o i loro presunti sentimenti,
scendendo però a livelli che possono ancora passare inosservati ai singoli soggetti.
L’elemento più importante è che ciò che viene osservato deve rappresentare una realtà emotivamente
significativa per il soggetto, per cui egli “senta” che è stato colto dal terapeuta un aspetto affettivo rilevante,
e che quindi ha la possibilità di essere compreso e di condividere con lui parte del proprio mondo. Siccome
tale realtà condivisa è però il risultato di una serie di interazioni che si inseriscono in un processo, debbono
esservi da ambo le parti certi accomodamenti, cioè movimenti di adattamento della propria immagine a
quella dell’altro, nel tentativo di arrivare a certi elementi di identificazione accettati da entrambi.
Il joining rappresenta il presupposto del buon esito della terapia, identificandosi con la capacità di cogliere la
situazione psicologica attuale dei membri del sistema e di risalire da essa ai problemi e ai condizionamenti
che ad essa sono legati. Il joining si attua essenzialmente attraverso il singolo individuo che fa da tramite
col resto della famiglia e che può cambiare di volta in volta.
Il terapeuta dunque costruisce il rapporto con la famiglia attraverso il rapporto con i suoi vari componenti e,
contemporaneamente, attraverso il modo in cui collega le loro diverse esperienze, dando loro un significato
in un quadro complessivo.
Quella che è apparentemente una raccolta di informazioni diventa quindi un mezzo per introdurre
informazione nella struttura percettiva. Il joining costituisce pertanto contemporaneamente un mezzo di
unione e uno strumento di cambiamento. Evocare un’immagine o proporre una definizione o un significato è
anche agire attraverso di essi.
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Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 4. Il rapporto terapeutico: tra l’uno e l’insieme
Il terapeuta, nella sua natura di nesso nuovo temporaneo e altamente significativo, diviene un primo
elemento di modificazione della trama familiare; partendo da queste premesse e dall’impossibilità di entrare
ora nella storia vissuta nel tempo della famiglia, è possibile costruire una storia con la famiglia nel contesto
della terapia. Il terapeuta diventa parte integrante della famiglia.
Il cambiamento e la sua verifica in un certo senso esulano dal contesto terapeutico: riguardano la famiglia
che lo cerca al di fuori di esso, nella misura in cui impara in terapia a collegare diversamente le proprie
conflittualità individuali. Quello che apprende è soprattutto un metodo di lavoro: come il terapeuta,
apprendendo un metodo, può applicarlo a infinite situazioni diverse di rapporto terapeutico, così la famiglia
può applicare il metodo appreso a nuove esigenze future, quando nel suo divenire vengono richiesti nuovi
adattamenti personali e una diversa integrazione tra l’essere di ciascuno e l’appartenere di molti alla stessa
storia evolutiva.
Il terapeuta interviene, in un continuo movimento di spola dall’individuo alla famiglia, nel momento in cui
riconduce quanto emerge dal suo entrare in rapporto con ciascuna persona alle relazioni di quest’ultima con
gli altri membri del sistema.
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 5. Il triangolo come unità di osservazione terapeutica
Per quanto siano state formulate diverse ipotesi triangolari delle relazioni, è fondamentale considerare la
soluzione dei conflitti all’interno dei triangoli e l’influenza che la soluzione stessa può avere nel processo di
individuazione personale.
La comparsa di un terzo soggetto in una situazione di conflitto a due non solo aggiunge all’interazione una
dimensione nuova, che consente delle alleanze e un rapporto di inclusione-esclusione rispetto ad esse, ma
può rappresentare anche uno stimolo all’emergere di risorse individuali nascoste e all’evoluzione del
sistema. Ciò è possibile in virtù del fatto che nell’interazione triadica ciascuno dei partecipanti può stare a
guardare cosa succede tra gli altri due nel corso dell’interazione.
Questa opportunità si offre, di volta in volta, a ciascuno dei componenti del triangolo, nella misura in cui
ciascuno viene a trovarsi nella posizione di osservatore di quanto accade tra gli altri due.
All’interazione triadica sono collegate anche altre possibilità: per esempio il figlio può intromettersi nella
discussione adottando un atteggiamento meno polemico, spezzando l’interazione quando assume toni troppo
esasperati; lo stesso può fare un genitore.
Vedere come un altro affronta e risolve le difficoltà nelle quali ci dibattiamo serve ad apprendere
comportamenti e a modulare eventuali tensioni in modo tale da rendere sopportabili e produttive situazioni
altrimenti potenzialmente distruttive per la carica emotiva che le accompagna. Ciascun membro della diade
può cosi assumere in circostanze particolari o in periodi critici dell’evoluzione familiare la funzione di
modello nel contenere e nel mediare le tensioni esistenti tra gli altri due.
Tutto ciò ha anche importanza nei momenti di separazione, quando è necessario un sostegno
all’elaborazione della perdita. Ad esempio nel periodo in cui i figli si svincolano dalla famiglia spesso
diventa determinante la funzione di mediazione di uno dei due genitori nei confronti dell’altro, per attenuare
ansie o sdrammatizzare tensioni che potrebbero ostacolare il distacco e per fornire un sostegno sostitutivo.
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 6. Triangoli trigenerazionali
Collocando le relazioni triangolari su un piano trigenerazionale possiamo cogliere aspetti più complessi
delle relazioni attuali. Ad esempio una figlia, viene a trovarsi in una specie di incrocio dove si intersecano
due dimensioni: una verticale, relativa alla sua posizione all’interno di una gerarchia generazionale; e una
orizzontale, costituita dal legame coniugale e da altri eventuali legami (fratelli, ecc.).
Le reti relazionali possono essere scomposte in tanti triangoli i cui vertici vengono di volta in volta occupati
da persone diverse; nei legami che li compongono viene veicolata tutta una serie di aspettative e bisogni che,
pur avendo la loro origine all’interno delle singole relazioni, cercano una risposta anche in rapporti assai
lontani da quello di partenza, qualora non vengano inizialmente soddisfatti. Ad esempio se la moglie ha
un rapporto difficile con la madre o con il marito, è probabile che le sue aspettative nei loro confronti, che
sono rimaste senza risposta, vengano trasferite sulla figlia. La relazione di quest’ultima con la madre viene
quindi a complicarsi per la presenza di due componenti sovrapposte: la prima relativa alla parte che
direttamente la coinvolge, la seconda alla parte in cui essa diventa la semplice mediatrice di una richiesta
originariamente diretta a un altro. La figlia deve pertanto riuscire a risolvere l’ambiguità derivante dalla
compresenza di questi due livelli e il dilemma che si riferisce al rapporto tra le persone collocate negli altri
due vertici del triangolo – se vuole almeno parzialmente liberarsene.
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare 7. Le coordinate familiari
La comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo sembra quindi favorita dalla costruzione di
uno schema di osservazione che permette di “vedere” i comportamenti attuali di una persona come metafore
relazionali, ovvero come segnali indiretti di bisogni e coinvolgimenti emotivi del passato che trovano lo
spazio e il tempo di manifestarsi concretamente nelle relazioni presenti.
Cosi un’informazione su come si esprime oggi il rapporto tra un padre e un figlio contiene un aspetto
implicito e complementare che ci informa anche su come un genitore percepisce oggi il rapporto passato tra
sé e il proprio padre.
La complessità aumenta se il tutto si connette pure a quelle immagini più astratte e ideali del “fare il padre e
il figlio”. Il nostro orizzonte relazionale si distende e si amplia se inseriamo lo spazio di coppia in un
territorio più vasto in cui le relazioni coniugali diventano il punto d’incontro e di sintesi tra due storie
familiari diverse. Possiamo così osservare se e come una persona ricerchi e stimoli nel partner parti genuine,
così da stabilire una relazione mutuale, oppure quanto il livello orizzontale sia gravato da funzioni di
compensazione genitoriali e/o filiali che non si sono sviluppate armonicamente sul piano longitudinale.
Antonino Cascione Sezione Appunti
Tempo e Mito in Psicoterapia Familiare