Storia della lingua italiana
di Gherardo Fabretti
Riassunto del testo "Attraverso la poesia italiana". Si tratta di un excursus
all'interno della poesia italiana.
Università: Università degli Studi di Catania
Facoltà: Lettere e Filosofia
Esame: Storia della lingua italiana
Docente: Gabriella Alfieri
Titolo del libro: Attraverso la poesia italiana
Autore del libro: Pier Vincenzo Mengaldo
Editore: Carocci
Anno pubblicazione: 20041. La lingua in Iacopone da Todi – Donna de Paradiso
Mancanza dell'anafonesi ai vv. 17 e 76 iònta non diventa infatti iùnta e comménzo non diventa commìnzo.
Presenza della metafonesi ad esempio ai vv. 4, 16, 36 e 37 accùrre invece di accòrre e così via.
Mancanza della chiusura della e protonica in i ai vv. 35, 38 e 45 ma non sempre avviene .
Conservazione di i semiconsonantica ai vv. 17 e 44 per esempio, senza trasformazione in affricata palatale
sonora ionta e non giunta; iocondo e non giocondo.
Vari fenomeni di assimilazione relativi ai gruppi -ND e -GN ad es. ai vv. 32 e 73 – 74.
Mantenimento dei nessi di consonante + L che non si trasformano in nessi di consonante + j ad es. plena
non diventa piena al v. 56 però lo diventa al v. 17!
Si tratta di una lauda, cioè di una ballata sacra, in settenari che in tre casi diventano ottonari, secondo uno
schema semplicissimo: aax – bbbx – cccx eccetera. Variegati i tipi di rima: siciliana (ad es. vv. 1 – 2),
guittoniana (vv. 104 – 106), umbra (72 – 74), identica (81 – 82) e quasi rima per assonanza (76 – 78). Pochi
aggettivi e sostantivi rispetto ai tantissimi participi inseriti tra i nessi verbali.
Pur non essendo le rime difficili, pur apparendo il componimento come dominato dalla ripetitività, propria
di uno stile ridondante e percussivo, volutamente povero di timbri, è comunque chiarissima l'astuzia con la
quale le parole più forti, realistiche e drammatiche appaiono proprio nelle rime, dove è maggiore l'evidenza.
La sintassi è costruita sull'addossamento di singoli pezzi, senza coordinazione; rarissime le subordinazioni.
Questo allineamento rapido e drammatico, condotto per asindeti, riguarda anche elementi minimi e rapporti
sintattici più stretti: apposizione al posto di un complemento, come in Figlio occhi iocundi del v. 44 e Figlio
volto iocondo v. 121 oppure infinito assoluto in trovarse en affrantura al v. 102 e trovarse abraccecate al v.
134.
L'impostazione teatrale comporta l'ossessivo ricorso alle formule vocative, che la Madonna estende alla
croce stessa, personalizzandola, o che rivolge al figlio o a Pilato. Solo al coro degli ebrei sono negate queste
forme vocative.
Donna de Paradiso non è solo la lauda più celebre di Iacopone ma è anche l'unica teatrale del suo laudario,
quasi una concisa sacra rappresentazione, anteriore alle simili di altri laudari. Il tema è condiviso dallo
Stabat Mater latino attribuito allo stesso Iacopone , o comunque dalle fonti di questo. Ma si noti subito che
qui il tema non è trattato in modo statico, ma dinamico, come un racconto entro il “teatro”, via via in
progressione dallo straordinario inizio in medias res attraverso contrasti e sviluppi che si susseguono nel
mutare della voce degli attori. Quello di Iacopone è stato definito un laudario personale, nel senso di
specificamente scritto per i propri confratelli, come del resto è attestato.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 2. Guido Cavalcanti – La forte e nova mia disaventura
Si tratta di una ballata mezzana, cioè una ballata con la ripresa di tre versi, condotta su quattro stanze. La
perdita dell'amore si svolge in uno spazio puramente mentale, abitato da personaggi quali core, pensero,
vita, anima, tormento, Fortuna... Le uniche aperture alla spazialità sono comunque dominate
dall'indeterminazione e in tutta la ballata non compaiono né una metafora né una similitudine che apra verso
la realtà esterna. C'è un profondo carattere claustrofobico nel luogo dove si svolge questa battaglia d'amore,
e tale ambientazione è precisata dalla fortissima concentrazione verbale del componimento, che dà luogo ad
una lunga serie di ripetizioni martellanti.
Interessante la riduzione fonica. Nella I strofa c'è una fortissima assonanza delle rime; nella II strofa
ugualmente, sia nella é delle parole messe a fare rima (pènsero, vèggia, fèro) sia nelle assonanze di e al
centro delle parole dei versi (che strugg'e dole e 'ncende ed amareggia); nella IV i versi finali assonano con
quelli della ripresa.
Il martellato ossessivo della ballata scaturisce anche dalla netta predilezione per i versi senza sinalefi, con
attacchi consonantici tra le parole e non legati di tipo vocalico, ad eccezione dello straordinario verso 14,
tutto fluente per sinalefi e polisindeto.
Ognuna delle stanze sviluppa il tema dell'amore distruttivo, ciascuna per ogni stadio di questo,
dall'affermazione iniziale del proprio disfacimento fino alla constatazione finale che ne deriva, il
disintegrarsi del proprio stesso linguaggio con la separazione onirica o quasi psicotica delle proprie parole
vagabonde.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 3. Dante Alighieri – Così nel mio parlar vogli'esser aspro
Il componimento si apre, eccezionalmente, in forma metapoetica, giustificando perentoriamente un
atteggiamento stilistico che all'autore stesso appare del tutto nuovo. Il Così iniziale non è infatti necessario,
ma si trova lì proprio a rimarcare la sicurezza quasi da sentenza dell'affermazione. La dichiarazione di
stilistica è abbozzata secondo lo schema tipico dell'estetica medievale, improntato al principio del
conveniens: dato un tema o contenuto esso va espresso in un linguaggio ad esso congruente. Essendo la
donna di inaudita crudezza, il linguaggio non può che essere aspro. Che questa dichiarazione di poetica fregi
l'incipit della canzone è un fatto notevole, ma più notevole è il fatto che sia l'autore stesso a definire il
carattere stilistico di ciò che va a scrivere attraverso un aggettivo, aspro, evidenziato in posizione di rima e
stretto al suo oggetto, la pietra. Senza contare il fatto che aspro è un vero e proprio termine tecnicistico della
tradizione retorica, che comparirà nel De Vulgari Eloquentia, nel Convivio e nel canto XXXII dell'Inferno.
Sino ad allora la lirica italiana aveva sì accolto testi ricchi di definizioni stilistiche, ma si era trattato sino ad
allora di attacchi di poeti alle composizioni di altri: Orbicciani e Guinizzelli, Cavalcanti e Guittone, Onesto e
Cino.
Altro punto notevole, ancor di più, è il significato di quel parlare. Nell'esperienza poetica che precede le
petrose, e ne è anzi l'antitesi, vale a dire lo stilnovismo, la lingua – il parlare – era qualcosa di dato, di
ricevuto dall'alto, coerentemente al carattere assoluto e religioso di quell'esperienza. Il parlare dunque non
era nulla di cercato; cadeva dall'alto e l'io poetico si “limitava” a trascrivere. Lo testimonia benissimo Dante
stesso nel canto XXIV del Purgatorio («io mi son uno che quando / Amor mi spira, noto, ed a quel modo /
ch'ei ditta dentro vo significando»). Adesso che la poetica è capovolta, la lingua non è più ricevuta dall'alto
ma diviene cercata; a sottolineare il concetto Dante pone quel voglio, più forte e meno fedele a devo, vicino
invece alla poetica del conveniens.
L'aggettivo aspro è l'antitesi precisa di dolce, aggettivo – etichetta dello stilnovismo e l'asperità si esterna
nelle rime del componimento, dure, consonantiche, ricercate: aspro – diaspro (1 – 5), induca, traluca
(termini poetici) con manduca e bruca (termini non poetici), squatra, latra, atra. Sono insomma l'opposto
delle rime piane e usuali del Dante stilnovista.
Le rime aspre e difficili tendono a concentrarsi nella fronte della stanze e nel verso di collegamento con la
sirma, mentre vanno facendosi più semplici e normali nelle sirme, che in effetti contengono anche immagini
meno inusuali rispetto alle fronti. Gianfranco Contini ha osservato che le fronti ospitano l'elemento
oggettivo, mentre le sirme quello soggettivo mentre De Robertis ha fatto presente che spesso la fronte
sovrasta nettamente per numero di versi la sirma, come non è normale che sia; in qualche modo una
prevalenza del momento oggettivo.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 4. I modi stilnovistici di Così nel mio parlar vogli'esser aspro -
Dante
La canzone si oppone in ogni ambito ai modi stilnovistici. Il lessico ospita solo parole rare o attinte ad una
realtà concreta che nel caso dell'orso che scherza diventa quasi basso – comica; le parole significativamente
si ritroveranno con una certa frequenza nell'Inferno (impietrare, denti, manduca, bruca, guizzo, scherana,
latra, borro, scudiscio, ferza). La donna acquista tratti fisici, addirittura erogeni: biondi capelli increspati,
belle trecce simili a fruste; l'ossessione erotica non è sublimata attraverso stati d'animo ma attraverso vere e
proprie azioni (vv. 6, 11, 14, 20, 31, 35). Il lessico della descrizione delle pene d'amore è il medesimo
dell'amore tragico di Cavalcanti e delle sue battaglie: colpo, fiede, strida; stavolta però il lessico è gravato di
sovraccarichi espressivi, per i quali, ad esempio, lo stilizzato ferire si concretizza brutalmente nel mangiare
coi denti d'Amore e poi nel brucare, e si drammatizza in fendere e squatrare; la donna diviene addirittura una
scherana micidiale e atra. Un'altra differenza tra il Dante stilnovista e il Dante delle petrose è la ricchezza
metaforica delle seconde rispetto al linguaggio rarefatto ed essenziale della Vita Nuova. Nel componimento
sono frequentissime le metafore continuate o riprese, i movimenti che dall'astratto psichico e sentimentale
scendono continuamente al concreto e al terrestre, contaminandosi reciprocamente come mai la condizione
psicologica del Dante della Vita nuova avrebbe potuto e voluto. Ecco allora la lima, il manducare, la virtù
che bruca il pensiero, il cuore squartato, le strida emesse dalla mente e il caldo burrone. La donna stessa è
una metafora concretissima, glittica.
Dato che la realtà assume comunque le vesti della metafora, lo spazio entro cui si muove la canzone non è
più reale delle rime stilnoviste. Il paesaggio è puramente mentale eppure è popolato di immagini reificazioni
del pensiero e delle emozioni del poeta, quelle che nel Novecento saranno chiamate correlativi oggettivi. La
novità delle petrose di Dante, quindi, non sta solo nell'ostentata asprezza dello stile ma anche nella capacità
di svolgere un'ossessione in un discorso, di catturare, sia pure come correlati psichici, tanti frammenti inediti
di realtà.
Un paragone con La forte e nova mia disaventura di Cavalcanti può essere utile per cogliere sino in fondo
l'importanza di questo componimento. Se entrambe rappresentano in qualche maniera il martellamento di
un'ossessione il componimento di Dante si apre anche ad uno sviluppo interno. Le stanze si susseguono
secondo una progressione logica, rivelata dalla frequenza delle consecutive e dalla complessità stessa del
periodare. A differenza di Cavalcanti, Dante riduce al minimo le ripetizioni verbali, lasciando invece ampio
spazio alle sinonimie: manduca – bruca, disteso – riverso, grido – strida – latra – griderei. Il legame tra
stanza e stanza è la pista di lancio della progressione ma Dante la realizza non fermandosi alla ripresa
verbale bensì variando e distanziandosi dall'immagine di parteza, come se il discorso ripartisse da zero e
contemporaneamente nascondesse qualche potenzialità di sviluppo mai portata effettivamente a
compimento. Cavalcanti è come trincerato dietro un linguaggio essenziale e chiuso mentre Dante elegge a
propria insegna il mutamento, cercando e plasmando il linguaggio.
Gherardo Fabretti Sezione Appunti
Storia della lingua italiana 5. Dante Alighieri – il discorso di Pier della Vigna
Così nel mio parlar vogli'esser aspro
Dante e Virgilio percorrono un bosco contorto e stravolto, che non ha paragoni in paesaggi umani e nel
quale troviamo le Arpie. Dante sente voci provenire da ogni parte, senza vedere nessuno che li emetta e
Virgilio pensa che egli creda che provengano da gente nascosta, perciò lo invita al famoso esperimento di
spezzare le fronde.
In questi primi trenta versi, con funzione proemiale, appaiono già una serie di procedimenti stilistici che
preannunciano quelli più concentrati del discorso di Pier della Vigna: ecco allora le rime consonantiche
aspre in -osco, -olti, -entre e in -onchi, -erpi e, nel discorso vero e proprio di Pier -eschi, -olsi,-usto che
però si fermano alla fine nelle piane della retta dichiarazione di fedeltà al suo signore. Alle rime
consonantiche si accompagnano una serie di terzine varie con rime paronomastiche bronchi – tronchi, pruno
– bruno, scerpi – serpi – sterpi, volsi – tolsi – polsi.
La presentazione del nuovo paesaggio è scandita parallelisticamente dalla figura replicata della correctio
Non fronda verde ma di color fosco ad esempio, in un trionfo del negativo che dice l'incommensurabilità di
quel paesaggio infernale a quelli umani anche più desolati, presentandosi quasi come un rovesciamento, una
parodia triste, delle immagini tradizionali del locus amoenus (bosco, fronda verde, ramo, schietti, pomi, tutto
negato, mentre al posto degli uccellini stanno appollaiate le Arpie) e collocando subito in esponente
quell'altro tipo di negazione che dominerà tutto il canto: la negazione della vita, il suicidio.
Seguono, sempre nell'ambito della tensione sintattica, l'iperbato del verso 15 e il poliptoto a tre indici
concentrato nel solo verso 25, quest'ultimo a introduzione dei frequenti poliptoti che caratterizzeranno il
discorso di Pier.
Al verso 55 inizia il discorso di Pier, che caratteristicamente muove dall'attribuire alla civile proposta di
Virgilio quella stessa facoltà di persuadere allettando con la sua dolcezza che sicuramente i due uomini
condividevano; la terzina si chiude, complice la rima difficile, con una metafora, quel a ragionar m'inveschi,
che allude alla complicatezza e alla contorsione del suo dire, e forse di più, a quanto esso contiene di
inganno verso sé stesso, che le parole dissimulano ma insieme esprimono. Nelle due terzine successive Piero
si presenta con una solenne e allusiva amplificatio perifrastica che non vela la sua identità ma la subordina
all'eminente posizione politica e sociale che il dannato ha avuto in vita e di cui ancora va orgoglioso: la sua
identità coincide col suo ruolo. La mossa iniziale Io son colui che... si tinge di orgoglio, l'orgoglio di colui
che si vanta dell'intimità col proprio imperatore e col quale utilizza la metafora delle chiavi del cuore che era
propria della lirica e del linguaggio religioso. Non per niente il suo nome ricorda Pietro e il cognome si
ricollega alla vigna del Signore, anche se qui trasformata in orrido bosco. Non sfugge poi la finezza della
distribuzione onomastica: Federigo, quando ricorda l'intima amicizia con l'imperatore; Cesare e Augusto
quando la sua persona si allontana, assorbita nelle funzioni ufficiali, estranee ai sentimenti; mio segnor nella
solenne proclamazione di una fedeltà feudale e personale.
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Storia della lingua italiana 6. Il concetto dell'invidia di Pier della Vigne - Dante Alighieri
Così nel mio parlar vogli'esser aspro
Anche il successivo concetto dell'invidia, è espresso in maniera perifrastica da Pier delle Vigne ai vv. 64 –
66 e il tenore retorico del passo è accresciuto dalla litote mai...non. Possiamo anche affermare con una certa
sicumera che l'immagine del torcere gli occhi voglia alludere alla radice di invidia, in – videre, cioè guardare
in maniera ostile. È importante tener conto che è lei, l'invidia – puttana, a infiammare contro Delle Vigne gli
animi di tutti e il potente poliptoto dei versi 67 – 68 (i due infiammare a contatto) fa uscire il verbo fuor di
metafora e spalanca ai nostri occhi un vero e proprio travolgente incendio.
Arriviamo così alla difficile terzina dei versi 70 – 72, complessa perché difficile da svolgere nella sua
meccanica contorta, menzognera e autoassolutoria con la quale il protagonista presenta la causa psicologica
del proprio sucidio. Un cumulo di figure retoriche regge la terzina: rima paronomastica gusto – giusto, la
replicazione che sottolinea l'assurdo autolesionismo dell'azione me contra me, due figure etimologiche
disdegnoso – disdegno e ingiusto – giusto e l'ossimoro disdegnoso gusto.
Evidente pure il legame con la terzina precedente, con li animi tutti che fanno il paio con l'animo mio e il
contra me che ricompare anche nella terzina successiva: un'azione ostile, dunque, intrapresa da altri contro
Pier, si risolve quasi necessariamente in un'azione ostile e contro natura di lui contro sé stesso, innocente per
una sostanziale subalternità del cortigiano alla corte.
Le due terzine successive sono più semplici, quasi il placamento della precedente esplosione: la complicata
parafrasi di prima sull'invidia ora viene risolta in un semplice 'nvidia, degno riassorbe in rima il disdegno
della terzina precedente, la rima interna fra segnor e onor rincalza la lode dell'imperatore e in particolare
onor riprende l'altro onor del verso 69, suggerendo che la felice e distrutta onoratezza di Pier nasceva dal di
fuori, direttamente collegata a quella dell'imperatore.
Tutti i fenomeni sinora descritti sono collocati all'interno di una evidente struttura oratoria che li legittima
(vv. 55 – 57: esordio con captatio benevolentiae, vv. 58 – 75 narratio e argumentatio con reprehensio, 76 –
78 peroratio cum petitio). Il disperato e folto groviglio verbale di Pier della Vigna non è solo un omaggio al
personaggio ma vuole essere anche il correlato stilistico della contorsione psicologica del personaggio e del
carattere contorto e convulso dell'atto da lui compiuto, giustificato dietro i contorsionismi della parola.
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Storia della lingua italiana 7. Dante Alighieri e l'incontro con Iacopo del Cassero - Purgatorio
-
Il Purgatorio si attesta in un certo senso su un piano mediano tra l'eccesso del degradato Inferno e il sublime
dell'altezza del Paradiso. Lo dimostra, tra l'altro, il regime solitamente non ricercato delle rime, a descrivere
un mondo popolato da una umanità più fragile ma anche più piena. Il discorso vale anche per
l'Antipurgatorio, percorso da descrizioni tra le più soavi che Dante abbia mai messo su carta. Queste
descrizioni stanno in un preciso rapporto tonale con l'esperienza di malinconica umiltà e di dolce
disorientamento nell'attesa di quelle anime, sottolineata soprattutto dalla similitudine delle pecorelle che
escono dal chiuso.
Il primo personaggio che andiamo a incontrare è Iacopo del Cassero che subito instaura con Dante un
rapporto di forte fiducia (sanza giurarlo). La sanguinosa descrizione della sua fine fa contrasto con ciò che
precede, vale a dire la consueta richiesta al pellegrino di sollecitare preghiere per accorciare il tempo della
penitenza, e lo fa per l'insistito ritorno al motivo (priego 68, prieghi 70, s'adori 71). Sintatticamente la
transizione alla scena della fuga e morte è segnata con forza da un ma tanto più energico perché collocato al
centro del verso, il 73, in opposizione al pacifico e anagrafico Quindi fu' io. La descrizione della fine è di
intensissima concisione: tutta una serie di particolari della caccia e del ferimento sono taciuti, appare solo
Iacopo inseguito e trafitto a morte, visto con un realismo che prima di Dante era inconcepibile, Omero
escluso ma a Dante sconosciuto. Dante offre delle coordinate precise del luogo dove è avvenuto il delitto,
due cittadine o paesi veneti non rappresentati nemmeno nelle cartine del tempo. È un paesaggio non astratto,
anzi, fortemente concreto, fatto com'è di canne palustri e fango che gli impediranno di sottrarsi
all'assassinio. L'immagine della morte di Iacopo è una iperbole che si converte in realismo psicologico e
visivo assoluto: Dante non menziona i colpi subiti dall'uomo eppure noi lo vediamo contemplare inorridito e
stupefatto il loro effetto, contemplando il proprio svenamento come se non stesse accadendo a lui ma a
qualcuno accanto.
Il passaggio di parola tra Iacopo e Bonconte avviene senza transizione, come per concretizzare l'ansioso
accavallarsi dei racconti e delle richieste, come se la voce del secondo personaggio sormontasse impaziente
quella del primo. Proprio l'ansia di comunicare è alla base dell'invocativo deh di Iacopo e poi di Pia, mentre
un altrettanto addolorato Oh si aggiunge al Deh per introdurre la risposta di Bonconte. Dante gli attribuisce
un pentimento in extremis e proprio a questo è dovuto il mancato ritrovamento del corpo. La scena che il
poeta tratteggia è famosissima: un diavolo si sta preparando a trascinare l'anima di Bonconte all'Inferno ma
l'ultimo suo pensiero viene rivolto alla Madonna e l'ultimo suo atto è di formare una croce con le braccia.
Questo basta per giustificarlo agli occhi di Dio. Un angelo sopraggiunge per accompagnare l'anima in
Purgatorio e il diavolo si vendica facendo cadere il corpo di Bonconte nel torrente Archiano in piena, per
sciogliere il suo segno di croce e disperderlo per sempre. Proprio l'episodio dell'uragano scatenato dal
diavolo colpisce Dante, che lo rende camera di risonanza alla tragica fine di Bonconte e
contemporaneamente contrapposizione efficace fra lo scatenarsi mal guidato degli elementi e la quieta
salvezza dell'anima con le braccia in croce nel nome di Maria. Dante, rifacendosi al Tresor del maestro
Brunetto Latini, carica la descrizione con tutta una serie di forme verbali oggettive (trovò, sospinse, sciolse,
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Storia della lingua italiana voltommi, coperse, cinse) e di notazioni disforiche e terrificanti della natura scatenata che fanno del passo
una sorta di brano di Inferno nel Purgatorio.
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Storia della lingua italiana 8. Dante e Pia dei Tolomei - Purgatorio -
Sempre senza la minima transizione narrativa Dante accoglie la terza voce, quella di Pia dei Tolomei. La
femminilità della donna traspare sia dal pudore delle sue parole sia dalla sollecitudine per la fatica e il riposo
del pellegrino. Come non vi è introduzione narrativa, così non c'è commento dell'autore: le parole della Pia
sono quasi sospese nel vuoto, come dette a distanza.
È stato sempre osservato che le confessioni dei tre personaggi sono di natura e tono del tutto diversi: quanto
i due racconti precedenti sono diffusi, dettagliati ed espliciti, tanto quello di Pia è essenziale e quasi chiuso
(solo tre versi), ritroso, evasivo. Quanto nei primi due la circostanza della morte è rievocata con feroce
concretezza, tanto qui è appena allusa. Là è esposto in tutta la sua materialità e diffusione, il sangue, qui è
taciuto. Là è sottolineata drammaticamente con un caddi la pesantezza della caduta finale mentre in Pia
nessun accenno. Nei primi due racconti òa geografia è puntualissima, mentre nel terzo troviamo un generico
Maremma. Iacopo accusa esplicitamente il mandante dell'assassinio mentre Pia ricorre ad una perifrasi che
sa quasi di assoluzione; in fondo fu il marito ad assassinarla e Pia è combattuta per l'omicidio peggiore
realizzabile. Infine a differenza delle richieste di preghiera dei primi due personaggi, Pia si limita ad
affidarsi al buon cuore del poeta.
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