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Gabriele D'Annunzio – La pioggia nel pineto


Occorre guardare con particolare attenzione alla compaginazione metrica della poesia, perché qui la struttura metrica è più o meno la cosa stessa, forse un modo per suggerire che, a differenza di Pascoli col suo acuto simbolismo e col suo sé nascosto, D'Annunzio anche nelle sue grandi riuscite è, per così dire, tutto lì; si esaurisce nella superficie del testo; è proprio come sembra.Sono quattro strofe lunghe, come le ha chiamate lo stesso autore, di eguale estensione (32 versi) ma di composizione di versi e gioco delle rime via via differenti. Questo isostrofismo puramente numerico è quanto resta della metricità tradizionale: la strofa diviene un puro contenitore di un discorso poetico aperto, come mostra anche il tono delle rime, ora lontane ora baciate con effetto di eco immediata o di rintocco.I versi messi in opera vanno (con esclusione del quadrisillabo) dal trisillabo al novenario, e la partitura fonica, a cominciare dalle rime, è così esuberante che non si potrebbe parlare legittimamente di prosa d'arte. Tanto più che la varietà dei versi finisce per essere in gran parte unificata da un principio ritmico ricorrente, il piede atona – tonica – atona che forma i versi più comuni (trisillabo, senario e novenario) e non è escluso derivi da rammemorazione ritmica del novenario pascoliano più tipico, quello esclusivo in Myricae. Le basi, insomma, appaiono i tre versi appena nominati, col senario che scende talvolta a quinario o cresce a settenario e il novenario che cala a ottonario. E tuttavia la già notevole varietà di misure è arricchita da quelle che vengono a crearsi entro o a cavallo dei versi: a parte i molti novenari che risultano da senario più trisillabo (27 – 28, 34 – 35), alcune coppie di versi brevi danno luogo a endecasillabi (17 – 18, 44 – 45) o anche a decasillabi dal canonico ritmo uniforme di terza – sesta – nona: 1 – 2, 90 – 91. Altrimenti agiscono da moltiplicatori di misure e pause le rime al mezzo, molte (umane 4, piove 10 ss., varia 37, pianto 41 e 43, vita 55) e sull'orizzontale le allitterazioni senza numero (bosco – odo 2, parole – nuove 5). Tutto ciò è una strabiliante orchestrazione, ed è soprattutto in virtù di questa che d'Annunzio qui riesce, come di solito non fa, a tenere certe posizioni. È una lirica della ripetizione variata. Si ripetono parole tematiche, soprattutto piove o ascolta, come in un dialogo muto, o in fine di strofa sempre Ermione, il nome shakesperiano che D'Annunzio regala alla coprotagonista della poesia, la grande attrice Eleonora Duse; ma anche cellule minori quali pianto o aulire. Senza dire che l'intera ultima parte della strofa iniziale ritorna in quella finale, con inversione pronominale del motivo della favola che illude. Ancor più conta però il ripetersi di certi moduli costruttivi: così l'aggettivo trisillabo rigettato a costituire da un solo verso (5 – 7, 15 – 15, 20 – 21) o i versi bipartiti in membri brevi semanticamente solidali se non identici (39, 41, 75 – 76, 87). E quanto al lessico in sé, non sembra inutile notare che la ricerca del vocabolo aristocratico, per aulicità o latinismo, altrove in D'Annunzio procurata e sfrenata, qui è più contenuta e i tecnicismi vegetali hanno piuttosto valore specificante, per la varietà dello spettacolo. È sempre stato notato il carattere strenuamente imitativo della Pioggia, che muove anzitutto dalla sua plenitudine sonora e passa anche attraverso il motivo continuato, perfettamente e anche pericolosamente dannunziano, della metamorfosi dell'umano in vegetale, veicolato anzitutto dall'insistente come: che qui al v. 60 D'Annunzio colloca in rima tramite forte inarcatura, quasi semantizzando o, meglio, tematizzando la congiunzione, come a dirci insomma che al di là delle singole sue fattispecie è la metamorfosi il grande tema della lirica. E forse si può andar oltre. In D'Annunzio la natura non è più la proiezione degli stati d'animo umani, come nei romantici, né come nei simbolisti e in Pascoli il loro correlativo simbolico; è oggetto di una indistinzione fra non – umano e umano, che è l'altra faccia di un dominio dell'uomo sulla natura. E il dominio dell'uomo sulla natura non è, per D'Annunzio, che il dominio dell'uomo sull'uomo.


Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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