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Dante Alighieri – il discorso di Pier della Vigna

Dante Alighieri – il discorso di Pier della Vigna


Così nel mio parlar vogli'esser aspro


Dante e Virgilio percorrono un bosco contorto e stravolto, che non ha paragoni in paesaggi umani e nel quale troviamo le Arpie. Dante sente voci provenire da ogni parte, senza vedere nessuno che li emetta e Virgilio pensa che egli creda che provengano da gente nascosta, perciò lo invita al famoso esperimento di spezzare le fronde.
In questi primi trenta versi, con funzione proemiale, appaiono già una serie di procedimenti stilistici che preannunciano quelli più concentrati del discorso di Pier della Vigna: ecco allora le rime consonantiche aspre in → -osco, -olti, -entre e in → -onchi, -erpi e, nel discorso vero e proprio di Pier → -eschi, -olsi,-usto che però si fermano alla fine nelle piane della retta dichiarazione di fedeltà al suo signore. Alle rime consonantiche si accompagnano una serie di terzine varie con rime paronomastiche → bronchi – tronchi, pruno – bruno, scerpi – serpi – sterpi, volsi – tolsi – polsi.
La presentazione del nuovo paesaggio è scandita parallelisticamente dalla figura replicata della correctio → Non fronda verde ma di color fosco ad esempio, in un trionfo del negativo che dice l'incommensurabilità di quel paesaggio infernale a quelli umani anche più desolati, presentandosi quasi come un rovesciamento, una parodia triste, delle immagini tradizionali del locus amoenus (bosco, fronda verde, ramo, schietti, pomi, tutto negato, mentre al posto degli uccellini stanno appollaiate le Arpie) e collocando subito in esponente quell'altro tipo di negazione che dominerà tutto il canto: la negazione della vita, il suicidio.
Seguono, sempre nell'ambito della tensione sintattica, l'iperbato del verso 15 e il poliptoto a tre indici concentrato nel solo verso 25, quest'ultimo a introduzione dei frequenti poliptoti che caratterizzeranno il discorso di Pier.
Al verso 55 inizia il discorso di Pier, che caratteristicamente muove dall'attribuire alla civile proposta di Virgilio quella stessa facoltà di persuadere allettando con la sua dolcezza che sicuramente i due uomini condividevano; la terzina si chiude, complice la rima difficile, con una metafora, quel a ragionar m'inveschi, che allude alla complicatezza e alla contorsione del suo dire, e forse di più, a quanto esso contiene di inganno verso sé stesso, che le parole dissimulano ma insieme esprimono. Nelle due terzine successive Piero si presenta con una solenne e allusiva amplificatio perifrastica che non vela la sua identità ma la subordina all'eminente posizione politica e sociale che il dannato ha avuto in vita e di cui ancora va orgoglioso: la sua identità coincide col suo ruolo. La mossa iniziale Io son colui che... si tinge di orgoglio, l'orgoglio di colui che si vanta dell'intimità col proprio imperatore e col quale utilizza la metafora delle chiavi del cuore che era propria della lirica e del linguaggio religioso. Non per niente il suo nome ricorda Pietro e il cognome si ricollega alla vigna del Signore, anche se qui trasformata in orrido bosco. Non sfugge poi la finezza della distribuzione onomastica: Federigo, quando ricorda l'intima amicizia con l'imperatore; Cesare e Augusto quando la sua persona si allontana, assorbita nelle funzioni ufficiali, estranee ai sentimenti; mio segnor nella solenne proclamazione di una fedeltà feudale e personale.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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