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identificazione e una più immediata sollecitazione emotiva. Diverse le cause
che hanno portato alla crisi. In primo luogo il superamento del prodotto
generalista, il linguaggio utilizzato troppo complesso o la selezione degli
argomenti, la tele- dipendenza, la percezione del ruolo del giornalista troppo
spesso schierato, nonché problemi di ordine interno, quali costi in aumento
per materie prime e per i dipendenti, gestione economica delle aziende
editrici da parte di enti privati o statali, i cui interessi economici
inevitabilmente influiscono nei contenuti delle testate. Tutto ciò ha un
comune denominatore: il calo dei lettori, in particolar modo i giovani, che
interagiscono maggiormente con media che ai loro occhi hanno più appeal,
come cellulari o internet, e relegano la lettura del giornale quotidiano agli
ultimi posti dell’attività svolta nei ritagli di tempo. Sembrerebbe però che un
nuovo fenomeno sia riuscito ad aumentare l’interesse da parte di quel target
lontano dalla carta stampata, un giornale tabloid, con poche notizie
importanti e di formato breve, di facile reperibilità e a costo nullo: la free-
press. Ormai in Italia dal 2000, la stampa gratuita si caratterizza per la sua
brevità nelle notizie, per la facile reperibilità, visto che è distribuita nei punti
di passaggio quali stazioni di treni e metropolitane o capolinea di autobus, e
per la sua conformità alle attuali tendenze dei lettori italiani, che prediligono
una lettura fugace e veloce. Ma come si inserisce questa novità all’interno
dell’attuale sistema mediatico italiano, come fa a sopravvivere all’interno di
un settore il cui elemento distintivo sembrerebbe proprio essere uno stato di
perdita perenne? Obiettivo del presente lavoro è quello di studiare e capire
in che modo questo nuovo fenomeno della stampa abbia in parte sanato la
crisi che da sempre attanaglia questo settore, alle prese con difficoltà
croniche relative ai costi di preparazione del prodotto, ai canali di
distribuzione, ad entrate pubblicitarie che prediligono gli spazi televisivi, al
distacco sempre maggiore dei lettori, che inevitabilmente gravano sul loro
sistema economico portando non pochi conti in rosso, e soprattutto in che
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modo le testate gratuite affrontano determinate problematiche. A
dimostrazione di ciò nella prima parte del lavoro si offre un quadro
economico generale sulla situazione della stampa italiana, dagli anni settanta
ad oggi, passando nella seconda parte alla spiegazione accurata del
funzionamento finanziario delle redazioni di questi nuovi prodotti stampa che
ricevono entrate esclusivamente dalla pubblicità, analizzandone i bilanci
dell’anno 2004, in cui c’e stata la piena affermazione di tutte e tre le testate,
Leggo, City e Metro, e quelli dell’anno 2005, in cui si considera l’evoluzione e
la differenza rispetto all’anno precedente. Un’ ultima analisi spetta poi al
confronto attraverso tabelle comparative di questi due esercizi per meglio
comprendere l’evoluzione sul mercato. A tale proposito non viene
trascurato l’aspetto sociologico del fenomeno, espresso in maniera chiara
nelle conclusioni, dove si giunge a compimento del lavoro definendo la
posizione dei nuovi media a stampa, la loro diffusione e il successo di
pubblico riscontrato, inseriti nella galassia della comunicazione e facenti
parte di un settore la cui economia ha da sempre destato preoccupazioni.
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CAPITOLO PRIMO
DENTRO LA MULTIFORME REALTA’ DELLA COMUNICAZIONE
1.1 La stampa e la sua evoluzione: un fenomeno in continuo
movimento.
Figlia dell’Unità d’Italia, la stampa del nostro paese è nata piuttosto in
ritardo rispetto alle realtà estere, e soprattutto non è riuscita a recidere da
subito quel cordone ombelicale che la legava ad un passato Risorgimentale,
dove la sua funzione era piuttosto pedagogica e di conseguenza elitaria.
Sono infatti questi i fattori di lunga durata che la caratterizzano, che
continuano a fare in modo che essa sia apprezzata e fruita da persone
laureate, per lo più uomini, residenti al nord e con una cultura medio alta,
3
determinandone uno dei diversi fattori di crisi, la mancanza di una cospicua
readership. Per meglio comprenderne le ragioni però è necessario procedere
ad una valutazione d’insieme.
1.1.1 Uno sguardo al passato.
E’ luogo comune ormai parlare di conti in rosso all’interno di un discorso di
economia dei quotidiani, in particolar modo nel nostro Paese. La stampa
italiana infatti non ha avuto vita facile a livello economico, anche e
soprattutto di riflesso ad una particolare situazione sociale. Portavoce
dell’esigenza di quel pluralismo informativo e di quella forte richiesta di
notizie che ha caratterizzato gli anni democratici del post fascismo, la
stampa quotidiana subisce sin da allora la forte concorrenza dei rotocalchi
settimanali che le sottraggono una buona parte di readership formata per lo
più da donne. A non migliorare le cose poi ha contribuito nel 1954 la nascita
di un altro mezzo di comunicazione di non poca rilevanza, la televisione,
3
Cfr. Censis, Rapporto annuale sulla comunicazione in Italia, (2001/2005).
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dannosa soprattutto per un tipo di giornalismo basato sulle immagini. Si
dovranno attendere gli anni settanta per avere un rilancio della carta
stampata, gli anni dei movimenti rivoluzionari sessantottini e degli
sconvolgimenti politici, ma in quel periodo crisi finanziaria e vivacità
editoriale sembravano correre su binari paralleli. In cifre si arriva a definire
una chiusura in attivo per sole diciassette testate su settantaquattro ed il
deficit complessivo sembra abbia superato i cento miliardi. Tra i molti
tentativi di sopravvivenza delle testate nella cosiddetta “stagione dei
comprati e venduti”
4
(sostegni da parte di gruppi finanziari che giustificano
questa affermazione), c’è stato anche quello del governo Moro, che nel 1976
ha concesso fondi per un biennio pari a quarantacinque miliardi ed ha
introdotto l’obbligo della dichiarazione di entrate pubblicitarie sul bilancio.
Questo intervento non sanò molto la situazione e le cifre indicanti le perdite
(70 lire sulla vendita di ogni quotidiano al prezzo di 200) continuano a
superare quelle dei ricavi netti, del 40% superiori ai costi di produzione. E’
comunque rilevante anche l’altro aspetto, la stagione di particolare attivismo
politico, economico e sociale, con uno sfondo drammatico quale era il
terrorismo brigatista. Rimaneva quindi la necessità di leggere un quotidiano
per avere maggiori spiegazioni e interpretazioni di fatti e problemi, e ad una
domanda così esplicita non tarda a rispondere l’editoria quotidiana che pone
sul mercato il prodotto forma “omnibus”, per tutti. Le vendite salgono ma le
Brigate Rosse non danno tregua neppure alle redazioni giornalistiche con
assassini e rapimenti di direttori e cronisti.
Con gli anni ottanta lo scenario sembra cambiare: avanza la tecnologia di
produzione e nel 1981 viene varata una nuova legge per l’editoria.
Procedimenti e metodi lavorativi utilizzati fino a quel momento si erano
infatti rilevati anacronistici e superati, il costo del lavoro era incompatibile
con i ricavi, ed era sempre più forte la necessità di ricorrere a nuove
4
G. Guastamacchia, I bilanci dei quotidiani nel 1975: nodi e contraddizioni della crisi, in Problemi
dell’informazione, n° 4, 1976, pp. 609- 634.
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tecniche di stampa e a nuovi programmi di razionalizzazione e snellezza
delle procedure lavorative col fine di ridurre le scorte di magazzino. La nuova
legge inoltre, la numero 416, sosteneva queste nuove applicazioni di
tecnologia all’interno delle redazioni prevedendo in primis finanziamenti a
fondo perduto e contributi per i costi della carta. Ma l’intervento
parlamentare non si fermò a questo. Si preoccupò altresì di garantire la
libertà di stampa e di iniziativa delle imprese editoriali smantellando quel
sistema di vincoli che gruppi economici e statali potevano porre loro
sanandone i deficit, automaticamente liberalizzò il prezzo di vendita dei
quotidiani, stabilì che si rendessero note le fonti di finanziamento della
stampa quotidiana e periodica, si adoperò per porre limiti ad atteggiamenti
monopolistici definendo confini precisi nella concentrazione territoriale delle
testate, istituendo a proposito la figura di un garante per l’informazione
svincolato dal potere esecutivo. I risultati furono presto evidenti. Molte
testate vennero salvate e rilanciate sul mercato. Tradotto in cifre, il risultato
ottenuto nel 1985 con l’impiego di finanziamenti pari ad un miliardo di lire è
stato quello di ridurre ad una ventina il numero di bilanci chiusi in passivo, e
per riuscire ad ottenere una maggiore quota di mercato le aziende editrici
commercializzarono sempre di più il proprio prodotto attraverso strategie di
marketing che prevedevano l’inserimento di giochi e svago nelle testate.
Nel 1987 vennero poi introdotte nuove disposizioni con una nuova legge per
l’editoria dal carattere piuttosto controverso, che non apportava neppure
grossi cambiamenti o svolte. Erano previste erogazioni di fondi statali
illimitate per i giornali di partito, non erano chiari i parametri più idonei per
individuare la posizione di controllo sui limiti di concentrazione che dovevano
mantenere le aziende editrici, ma soprattutto erano ancora presenti diversi
nodi strutturali. Primo fra tutti la scarsità di punti vendita e una distribuzione
non troppo differenziata, di cui ha fatto le spese soprattutto il sud, seguito
dalla mancanza di una regolamentazione per la diffusione di pubblicità
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enormemente concentrata nella televisione, sebbene in quegli anni la
stampa aveva incrementato il suo fatturato pubblicitario. Tutto ciò
naturalmente si rifletteva sui bilanci delle imprese editrici, il cui margine
operativo lordo, caratterizzato dalla differenza tra totale dei ricavi e costi
correnti, tendeva a migliorare ma in maniera molto modesta e soprattutto
continuava ad essere negativo l’utile operativo netto, dato dalla differenza
tra margine operativo lordo e ammortamenti. Era chiaro quindi che le
imprese non riuscivano ancora a sostenere spese in investimenti con i ricavi
dalle vendite né tanto meno ad ottenere un ritorno da essi visto che i fondi
necessari non potevano essere attinti dalle risorse del ciclo produttivo.
Nonostante difficoltà normative però gli anni ottanta sembra abbiano
registrato una lenta ma costante ripresa nel settore stampa, grazie in
particolar modo anche al fatto che l’editoria giornalistica era riuscita a
mantenere la sua precedente quota di introiti pubblicitari.
Addirittura nell’arco del 1989 si registrano positività notevoli per le testate
nazionali, come del resto anche per i quotidiani sportivi ed economici, con un
utile di 205 miliardi e 331 milioni al lordo di ammortamenti per il Corriere
della Sera e di 29 miliardi e 45 milioni al netto per Repubblica. Andamento
questo però destinato a vita breve.
1.1.2 Gli anni novanta, tra declino e risoluzioni.
Arrivano gli anni novanta ed inevitabilmente lo scenario cambia. Si continua
a respirare un’aria di positività ancora per tutto il 1990, quando la vendita
dei quotidiani sale fino a toccare un picco storico di 6.808.501 mila copie,
soprattutto per i grandi nazionali, che sono riusciti a mantenere alta la loro
quota di mercato pubblicitario. Non c’è da dimenticare comunque la chiusura
in passivo ancora per molte imprese. Neppure la legge Mammì varata nello
stesso anno è riuscita a sanare le lacune della controversa legislazione
precedente: essa si limitava infatti ad istituire l’autorità del Garante, a
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predisporre il piano delle frequenze, a stabilire procedure per le concessioni,
ma non si preoccupa di riformare o intaccare il funzionamento del sistema
televisivo né di regolamentare la distribuzione della pubblicità tra i media. Le
pressioni critiche dell’opinione pubblica vengono pertanto scaricate su una
norma di peso minore che definisce i limiti di posizioni dominanti nel
complessivo sistema mediatico, tra cui di particolare rilievo appariva
l’incompatibilità di possesso di giornali e attribuzione di concessioni tv, mai
applicata di fatto nella sua sostanza. Si inizia a parlare di crisi dunque dal
1991, quando l’allora presidente della FIEG Giovannini esponeva il rischio
per la carta stampata di essere travolta interamente dalla pubblicità e di
essere relegata in una posizione marginale.
Non tardano nemmeno a farsi sentire sulla stampa gli effetti dell’avversa
congiuntura economica di quegli anni, che provocano un progressivo
ridimensionamento degli indici di diffusione dei giornali e un peggioramento
degli indici di esercizio delle imprese editoriali. Inevitabile poi la conseguenza
della forte presenza dei network privati nazionali, con una fortissima
attrazione di pubblico, naturalmente sottratto alla carta stampata, e una
conseguente concentrazione di pubblicità, anche essa a scapito dei giornali.
Calano le vendite, aumentano i prezzi delle testate. I lettori sono facilmente
attratti dall’offerta informativa televisiva che propone nuovi telegiornali sulle
reti private Fininvest e programmi di opinione quali i talk show. Nel 1992 il
mercato generale della stampa chiudeva di nuovo in rosso, registrando il
doppio delle perdite rispetto all’anno precedente, e neppure nel il 1993 le
cose migliorarono. La causa maggiore tornò ad essere rappresentata dalla
scarsità di entrate pubblicitarie, ed anche i grandi nazionali videro
ridimensionarsi le cifre dei loro utili, non essendo più sufficiente il patrimonio
aziendale a remunerare il capitale investito.
Non solo, a far precipitare ancora le cose erano anche i vincoli legislativi che
favorivano la strozzatura del sistema distributivo e impedivano l’integrazione
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dei tradizionali punti di vendita, e la proverbiale arretratezza dei sistemi
postali e di trasporto, nonché il perenne problema dell’assenza di lettori.
La dirigenza delle aziende cercò quindi nuove vie d’uscita. Tentò con la
sostituzione degli allora direttori dei quotidiani con talenti più giovani
5
, con
l’uso di un linguaggio, soprattutto in seno allo scandalo di Tangentopoli del
1992, più violento e di impatto, nel rispetto ovviamente della già testata
formula “omnibus”, ma niente sembrò arrestare il sempre crescente
disavanzo nei bilanci delle imprese, perlomeno fino alla metà del decennio.
Sembrano infatti mostrare segni di ripresa i bilanci delle imprese editrici di
quotidiani stilati negli anni successivi al 1995, quando la vendita di copie
aveva raggiunto una soglia bassissima, destinata a scendere
maggiormente.
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Apparentemente questo potrebbe sembrare un aspetto contraddittorio, ma
paradossalmente è così. L'utile di esercizio delle 66 imprese considerate,
editrici di 78 testate quotidiane, è passato dai 45 miliardi del 1996, ai 121
miliardi del 1997 per più che raddoppiarsi nel 1998 (261 miliardi di lire). Il
settore nel suo complesso produce utili, ma non in tutte le sue componenti.
Al suo interno, infatti, sono tuttora presenti e purtroppo diffuse situazioni ai
limiti della marginalità economica, con crisi ricorrenti che mettono in forse la
stessa sopravvivenza di non poche testate. Basti pensare che è sufficiente
eliminare dai conti aggregati gli utili di tre imprese editrici, perché il settore
venga a trovarsi in una situazione di sostanziale pareggio.
Per le aziende editrici permangono inoltre difficoltà di ordine congiunturale
legate alla debolezza della domanda interna e ad una dinamica delle vendite
sostanzialmente stagnante. E' uno stato di cose alla cui origine pesano
tradizionali strozzature organizzative quali l'assetto rigido della rete
distributiva, l'inefficienza di servizi pubblici fondamentali quali poste e
5
Veltroni dirige l’ “Unità”, Mieli il “Corriere della sera”.
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6.672.260 copie nel 1994, 5.976.847 copie nel 1995, 5.881.350 nel 1996, cfr. Fieg, Indagine sulle
imprese editrici di giornali quotidiani (2000- 2001- 2002).