VIII
un nuova forma di fruizione della comunicazione urbana, che si fa sempre più labile, distratta e
casuale.
Il nuovo mezzo viene valorizzato dall’estro creativo di artisti prestati al mondo della
pubblicità: i primi cartellonisti sono gli affichers della Ville Lumiére, ma ben presto l’arte del
manifesto d’autore si diffonde nel resto d’Europa, confondendosi con le principali tendenze
artistiche dell’epoca.
Ed arriviamo finalmente ai giorni nostri, dove il rapporto tra la città, pubblicità e luoghi di
consumo si è ingigantito così come lo spazio metropolitano: l’incremento dello sviluppo urbano ha
avuto un andamento assai rapido nel corso del XX secolo e oggi, almeno 150 città ospitano più di
un milione di abitanti, un numero in costante crescita. Gli abitanti delle moderne metropoli, o per
meglio dire delle Megalopoli, sono quei Global Consumers, frutto del meltin’ pot della società del
XXI secolo, che ha portato ha un’omogeneizzazione dei comportamenti, degli stili di vita, dei
consumi.
La globalizzazione agisce a molti livelli che interagiscono e si "rinforzano" reciprocamente.
La globalizzazione investe ogni campo ed il risultato, l'effetto di questo fenomeno è quello
che accade in un punto qualsiasi del pianeta è come se avvenisse sotto casa, accanto a noi come se
vivessimo in un immenso “villaggio globale” (Mc Luhan, M. 1964).
Il processo di “metropolizzazione del sociale”(Codeluppi, V. 2001) si è compiuto consentendo
il realizzarsi del consumismo di massa: le merci diventano “supermerci”, i manifesti diventano
“eventi di grande dimensione”, i grandi magazzini si sono trasformati in centri commerciali e in
shopping malls. Il “villaggio globale” ha permesso un commercio e un consumismo globale:
Internet ha moltiplicato i momenti di svago e di acquisto e oggi gli shopping center virtuali sono
una realtà affermata. Essere in Rete significa avere una vetrina che può essere vista giornalmente da
milioni di potenziali clienti.
La comunicazione pubblicitaria è uscita dagli studi degli artisti ed è diventata lavoro per le
IX
agency: al manifesto si sono affiancati i messaggi radiofonici, televisivi e virtuali, in particolare la
comunicazione pubblicitaria attraverso il banner e le prospettive di sviluppo della pubblicità in rete
hanno attirato numerosi investimenti.
Il colore e le forme suadenti dei manifesti d’autore, che abbellivano il paesaggio urbano delle
metropoli ottocentesche, sono oggi soppiantati da una miriade di affissioni più o meno belle e
suadenti che tappezzano, a volte in modo selvaggio, i muri delle città.
Nell’analisi della tesi prenderò in esame il consumismo di massa e i modi in cui la merce era
resa desiderabile al pubblico di fine XIX secolo (l'esposizione dei prodotti nelle Esposizioni
nazionali ed universali europee e americane, il commercio borghese nelle metropoli ottocentesche,
lo shopping nei primi Grandi Magazzini, i passages, i negozi, le vetrine) e, in continuum temporale,
i luoghi di consumo odierni (centri commerciali, shopping malls, outlet, discount): in particolare mi
soffermerò sull’analisi di due tra le più importanti Esposizioni Internazionali: il Motorshow di
Bologna e lo Smau di Milano.
Seguirà il tema del Manifesto come mezzo grafico dalle origini fino ai giorni: l’affermazione
del manifesto alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo, in Europa e negli Stati Uniti; la
mia postfazione all’analisi di A. Abruzzese sulle tre fasi storiche del Manifesto; l’analisi delle
tecniche grafiche usate ai primordi dell’affissione: pittura, litografia, cromolitografia; l’evoluzione
della pubblicità urbana durante il XX secolo attraverso gli sviluppi linguistici e tecnici; le tecniche
grafiche tradizionali e moderne, gli sviluppi iconografici e le forme di comunicazione pubblicitaria.
L’analisi del manifesto pubblicitario in Francia e in Italia attraverso le opere e lo stile dei più
importanti cartellonisti dei due paesi: gli Affiches nelle opere di Cheret, Toulouse-Lautrec e Mucha;
le origini del manifesto in Italia nelle opere di Dudovich e Cappiello. L’evoluzione del
manifesto metropolitano moderno: out-door advertising (insegne luminose, mega-cartelloni sulle
facciate laterali dei palazzi, vetrinistica), lo sviluppo e delle prospettive della pubblicità stradale (la
pubblicità sui mezzi di trasporto pubblico). Case history IGP Decaux.
X
E infine il contesto pubblicitario attuale e le forme pubblicitarie on-line: banner, siti e e-mail
promozionali; analisi di aziende creatrici di banner, nuove professioni (graphic e web designer).
1
Capitolo 1
Vedere e Comprare: due secoli di esposizione delle merci
1.1.
1.1.1.
Le grandi Esposizioni Universali del XIX secolo (1851-1900)
Per meglio comprendere il senso che la pubblicità ha assunto nel nostra vita quotidiana, dal nostro
modo di fruizione culturale, da come ci vestiamo, da cosa mangiamo, eccetera eccetera, è
necessario ritornare alle origini della civiltà dei consumi, alle origini dell’industria culturale, alle
prime esperienze dell’uomo con le merci: insomma torniamo nel XIX secolo.
Questo secolo, come già detto, fu il genitore della rivoluzione industriale e della nuova civiltà delle
macchine, ma anche della civiltà dell’immagine
1
, alla quale era conferito il compito di trait d’union
fra merce e consumo, fra pubblico e privato. La merce è spettacolo; lo spettacolo è merce (A.
Abruzzese, “Cinema e industria culturale:dalle origini fno agli anni ‘30”).
Le Esposizioni Universali furono l’espressione delle strutture di amplificazione del rapporto sociale
merce-pubblico, il luogo dell’immaginario collettivo borghese. In questo scenario operò la
comunicazione pubblicitaria, dando visibilità e distinzione agli oggetti, divenuti tecnicamente
riproducibili, diversi, con una propria “personalità specifica”. Aver conferito ad ogni prodotto una
personalità riconoscibile rappresentò l’inizio delle moderne strategie di differenziazione dei prodotti
e di segmentazione del target.
La prima Esposizione Universale del 1851, a Londra, fu sicuramente l’evento di massima
“globalizzazione” internazionale del secolo. Simbolo del trionfo del mondo borghese e capitalistico,
l’esposizione londinese sancì agli occhi del mondo l’affermazione di una classe ricca e potente,
padrona dei commerci e delle manifatture, ma anche desiderosa di beni culturali, immagini
simboliche dell’avvenuta egemonia.
1
Feuerbach identifica nella civiltà dell’immagine lo spirito del XIX secolo.
2
La storia delle grandi esposizioni è la storia del progresso industriale: nell’esposizione del 1851
l’americano Hughes taglia il nastro per il primo collegamento telegrafico mediante il cavo
sottomarino; nel 1876 a Filadelfia in occasione del centenario dell’Indipendenza degli Stati Uniti
d’America il telefono di Bell funziona per il grande pubblico per la prima volta; nel 1893 a Chicago
abbiamo la prima linea interurbana Chicago – New York e il trionfo di Edison al padiglione
dell’elettricità; l’esposizione parigina del 1900 vede invece il trionfo del cinematografo con i fratelli
Lumiere.
La spinta del progresso tecnologico e dell’industrializzazione investì ogni settore, specialmente
quello della vita quotidiana, complessivamente poco confortevole per tutti gli strati sociali; il tenore
di vita cominciò ad elevarsi progressivamente, le grandi città cambiarono volto adeguandosi alle
nuove esigenze: la borghesia, oltre alla presa di coscienza della propria forza politica ed economica,
concepisce altresì una dimensione diversa nell’investire lo spazio urbano conveniente alle sue
imprese e ai suoi traguardi civili.
Il modo di pensare l’opera architettonica si orienta verso una dimensione nuova: se infatti il
problema dominante fino ad allora era stato quello di rappresentare convenientemente gli attori
della scena urbana, ora si dovrà specificare la funzione degli enti urbani entro rapporti sostenuti da
una accelerata circolazione. In una frase lapidaria Francesco Milizia (1725-1798), teorico eminente
dell’architettura, in un breve saggio economico del 1798 così riassumeva la tesi:”…Sono le città in
una provincia quel che le piazze di mercato sono in una città. La capitale poi è alle altre città
quello che le città sono alla provincia. Nella città si raffina l’industria, si fanno scoperte, e si
miglioran le scienze e le arti…”.
1
Dunque la doppia similitudine rinascimentale, che assimila
reciprocamente casa e città, viene a cadere definitivamente. Ciò esige una diversa visione dello
spazio. La città attrae un doppio movimento di persone: dalle campagne, che si spopolano per una
ristrutturazione produttiva dell’azienda agricola, migrano lavoratori insediandosi nei tuguri che
1
In “Enciclopedia dell’arte”- Vittorio Sgarbi, 2003, Arnoldo Mondatori Editore
3
formeranno col tempo vasti suburbi; da altre città di altri paesi, una popolazione cosmopolita di
viaggiatori muove ai centri urbani per i più diversi motivi.
Londra, capitale della Rivoluzione Industriale, è la città più popolosa agli inizi del XIX secolo (più
di 860.000 abitanti al censimento del 1801) e, nei novant’anni successivi la su popolazione si
quintuplicherà. Qui si sono manifestate le contraddizioni della città industriale più vistose: non a
caso sarà scelta da Engels e Marx come laboratorio sperimentale per le loro indagini sulla
situazione operaia. Goethe descrisse Londra in una visione preveggente di Faust:”…Quanto a me,
sceglierei una metropoli di questo tipo: nel centro il tumulto costretto delle case borghesi, viuzze
tortuose, cuspidi aguzze, un angusto mercato…; poi grandi piazze ed ampi viali, perché essa
assuma anche un nobile aspetto; e infine, dove le barriere non possono impedirli, sconfinati
sobborghi…”.
2
Quando si aprì l’esposizione universale del 1851, i contemporanei compresero subito che stavano
assistendo ad uno degli avvenimenti più importanti del XIX secolo. Il progresso tecnologico suscitò
inevitabilmente l’interesse dei governi, e da qui l’idea di constatare i progressi di tale sviluppo, di
attrarre l’attenzione del pubblico, di stimolare l’attività degli inventori e dei produttori con gare a
premi.
L’origine delle esposizioni universali può essere fatte risalire alle fiere ed ai mercati, contrariamente
però quest’ultime offrivano merci in vendita diretta e non presentavano mezzi di produzione, tanto
meno non avevano nessuna pretesa di presentazione a fini didattici ed espositivi. Le prime
esposizioni nazionali si hanno in Francia dopo la rivoluzione francese. Le nuove idee della
rivoluzione aprivano la strada alle nuove figure borghesi che scalavano posizioni nella società. Nel
1791 erano state abolite le regole delle corporazioni che in Francia, contrariamente a ciò che era
avvenuto in Inghilterra, avevano ostacolato lo sviluppo. Inoltre la Francia aveva bisogno di un
rilancio dell’attività produttiva e in questo clima la prima esposizione, dedicata ai prodotti
2
J.W. Goethe, “Faust”, 2° parte, 4° atto
4
dell’industria francese, si apre nel 1798. Aveva un significato propagandistico ben preciso, mostrare
all’Europa e soprattutto all’Inghilterra le conquiste intellettuali e materiali di un popolo liberato
dalla tirannia monarchica. Per incoraggiare gli espositori fu organizzato un sistema di premi.
L’esposizione benché mal organizzata ebbe successo e ben undici esposizioni nazionali si tennero a
Parigi tra il 1798 e il 1849
4
e gli espositori passarono da un centinaio a circa 4000. Parallelamente
alle esposizioni nazionali di sviluppò la “Société d’encuragement par l’industrie nazionale” che
giocò un ruolo importante per l’incoraggiamento del progresso tecnico manifatturiero francese.
Altre esposizioni nazionali furono organizzate a Berlino nel 1844, a Vienna, in Belgio e in Russia.
La mancata unità politica fece si che l’Italia dovette attendere fino al 1861 per vedere realizzata la
prima parziale esposizione nazionale, anche se sin dalla metà del Settecento si organizzavano
esposizioni locali di carattere agricolo e, poco più tardi, industriale, sul modello organizzativo
inglese.
5
In Gran Bretagna l’idea dell’esposizione stentava ad attecchire perché non vedeva la necessità di
esporre i propri manufatti. L’idea però a poco a poco entro nella mentalità di alcuni organizzatori.
Contrariamente alla Francia, in cui le organizzazioni erano di iniziativa pubblica, nel 1851 in Gran
Bretagna l’idea fu di origine privata. La prima esposizione universale fu quindi quella inglese, che
in piena epoca vittoriana attraversava un particolare periodo di prosperità economica e politica, un
po’ meno sociale. I mentori di questa esposizione furono il principe consorte Alberto e il poliedrico
artista ed editore Henry Cole. Qual’era l’atmosfera in cui nasceva tale esposizione? Sembra ben
riassunta dalle parole pronunciate nel 1850 dallo stesso principe Alberto:”…Nessuno che abbia fatto
attenzione alla particolare situazione della quale necessariamente tutta la storia porta: la
realizzazione dell’unità dell’umanità…I prodotti di tutte le parti del globo sono a nostra
4
Dopo la prima del 1798, altre dieci si succedettero nella capitale francese: tre sotto il regime napoleonico ( 1801, 1802,
1806 ), tre sotto la Restaurazione ( 1819, 1823, 1827 ), tre sotto la monarchia di luglio ( 1834, 1839, 1844 ), e l’ultima
infine, sotto la Seconda Repubblica ( 1849 ).
5
Nel XIX secolo vi furono periodiche esposizioni industriali a Milano, Napoli e soprattutto a Torino.
5
disposizione e noi dobbiamo soltanto scegliere ciò che è migliore e più adatto ai nostri propositi”.
6
Entrambi, l’uno come presidente e l’altro come membro, facevano parte della Royal Society of
Art
7
, che aveva organizzato tre esposizioni industriali in Inghilterra, nel 1847, nel 1848 e nel 1849.
Proprio durante una riunione cui partecipavano entrambi, il 29 giugno 1849, venne approvata l’idea
di organizzare un’esposizione universale , con un fine economico ed ideologico al contempo: il
confronto tra le risorse industriali di tutto il mondo, e la conferma della pace che allora regnava in
Europa. Le regole principali erano il carattere internazionale, la precarietà dell’edificio destinato ad
ospitarle, l’assegnazione di premi, la raccolta di sottoscrizioni, l’istituzione di una commissione
reale per la selezione dei partecipanti, la cadenza quinquennale.
8
La mostra venne impostata con il criterio dell’unità dell’ambiente artistico. Venne indotto un
concorso al quale parteciparono 225 concorrenti e che lasciò tutti estremamente insoddisfatti.
L’”Illustrated London News” pubblicò nel luglio 1850 un progetto di Joseph Paxton (1803-1865),
un ex-giardiniere del duca del Devonshire con esperienza notevole in fatto di serre, che fu accettato
dal Comitato Costruzioni dell’esposizione e battezzato Crystal Palace. E’ il 15 luglio 1850. La
costruzione dell’edificio venne affidata all’impresa “Fox and Henderson”. Questo era una grande
serra in vetro e ferro che subì una modifica per salvare gli olmi giganteschi che stavano proprio nel
luogo scelto per la manifestazione: tagliando la navata centrale nel mezzo con un transetto a volta,
più alto del resto, si salvaguardarono gli alberi.
Il Crystal Palace misurava 560m x 130m, e tali dimensioni erano state dettate da un evidente
simbolismo: 560 metri corrispondono a 1851 piedi, l’anno dell’inaugurazione. Il simbolismo resterà
un elemento ricorrente in tutte le esposizioni successive. Inoltre il palazzo aveva 6024 colonne di 5
6
F. Menna ”Rapporto da Londra 1851” in “Rassegna dell’istruzione artistica” II, 1967, n. 4, pag. 16.
7
La Royal Society of Art and Manifactures nacque a Londra nel 1754 con l’intento di incoraggiare le attività industriali
e commerciali. Nel 1756 organizza la prima esposizione industriale ed agricola che, dal 1761, diventa annuale, durando
quindici giorni circa e assegnando premi. ( Crf. D. Hudson, K. W Luckhurst “ The Royal Society of Arts 1754-1954”,
London, 1854, pag.187.
8
Si avviano contatti con 65 città inglesi, scozzesi ed irlandesi, con visite alle principali industrie e contatti con le
autorità locali. All’estero si raccolgono i pareri dei governi tedeschi e di quello francese. I risultati dell’ampia
consultazione appaiono sostanzialmente favorevoli all’organizzazione dell’Esposizione ed alla raccolta di sottoscrizioni
volontarie, senza l’imposizione di nuove tasse al governo.
6
metri, tutte uguali e di ghisa; 3000 travi a traliccio di 7 metri, ed era inviluppata da 93.000 metri
quadrati di vetro (300.000 pannelli di vetro, 205 travi di legno per la posa dei pannelli). I pezzi
furono prefabbricati fuori Londra.
9
La cura dei dettagli fu incredibile: venne studiata una macchina
a spazzole rotanti per verniciare gli elementi prima del montaggio, e realizzato un progetto che sarà
poi presente in tutte le esposizione successive: quello della smontabilità. All’interno il palazzo era
dipinto in azzurro, giallo e rosso; lo spazio a piano terra era suddiviso in percorsi paralleli alla
navata centrale o al transetto, mentre al piano superiore si trovavano delle gallerie disimpegnate da
dieci scale doppie. Al centro della navata e del transetto erano state collocate molte opere di grande
mole, come una fontana di cristallo alta quasi 8 metri che occupava il centro dell’edificio.
La Great Exhibition fu aperta dalle regina Vittoria il 1° maggio 1851, rimanendo aperta al pubblico
fino all’11 ottobre, domeniche escluse, dalle ore 10 (12 il sabato) alle 19 con ingresso a pagamento.
I visitatori inglesi appartenevano a tutte le classi sociali: la regina ed il principe furono tra i più
assidui, e non mancarono numerose scolaresche; molte fabbriche organizzarono visite per i loro
operai. Alla mostra furono esposte le opere più diverse, dalle macchine industriali, alle locomotive,
agli oggetti di uso comune e domestico, alle raffinate produzioni delle vetrerie francesi: si
alternavano oggetti palesemente prodotti in serie ad uso commerciale ed altri prodotti ancora
artigianali. Per preservare la sopravvivenza di questi ultimi, che erano ormai seriamente minacciati
dalla massiccia produzione industriale, molti artisti si impegnarono a rendere le loro opere “uniche”
e preziose, grazie soprattutto da un lato all’appoggio della borghesia, che voleva che l’oggetto
d’arte rimanesse uno status symbol di una ben precisa classe sociale, ed aborriva, dunque, la
diffusione di questi prodotti fra le classi sociali “inferiori”, e dall’altro alle applicazioni
tecnologiche dell’epoca, come la galvanoplastica, che consentiva di dorare o argentare anche i
metalli vili con lamine sottilissime. Vi parteciparono tredicimila espositori e il numero dei visitatori
9
Cfr. M. Grisotti, “Le Esposizioni Universali da Londra 1851 a Bruxelles 1958”, in “Centro di studi di pianificazione
urbana e rurale”, Napoli, Anno acc. 1958.59, pag.137. Per la prima volta furono realizzati elementi prefabbricati
prodotti in serie e portati in cantiere pronti per essere messi in opera.
7
superò i sei milioni (circa 42.000 al giorno)
10
: si dovettero pertanto affrontare per la prima volta
problemi che superavano di gran lunga quelli del contemporaneo museo, in particolare
l’accoglienza e la circolazione di un pubblico di massa, e prospettare nuovi suggerimenti nel campo
della museografia. Per esempio, le compartimentazioni fino ad allora vigenti nella distinzione tra
musei scientifico-tecnici e musei d’arte venivano per la prima volta superate in una celebrazione
dell’attività dell’uomo nelle sue possibilità creative che, tutte, hanno a base l’operosità tecnica.
Benché fosse stabilito che i prodotti sarebbero stati raggruppati per tipologia, alla fine venne
adottato il criterio geografico, dal momento che ogni nazione era responsabile del proprio
allestimento. Grandi cartelli a fondo rosso indicavano il nome dei paesi espositori e dei prodotti
esposti: il lato ovest fu assegnato alla Gran Bretagna ed ai paesi dell’Impero, quello est ai paesi
stranieri.
11
Paxton fu premiato con la nomina a “cavaliere” insieme a Fox ed a Cubitt, mentre il promotore Cole
fu insignito dell’Ordine di Bath. Paxton conseguì sul piano estetico tre risultati essenziali: mise in
valore lo sviluppo dimensionale, realizzò una volumetria trasparente, dando prevalenza al vuoto
rispetto al pieno, ottenendo all'interno una luminosità pari a quella esterna.
L’Esposizione chiuse l’11 ottobre, ma il 15 si celebrò la cerimonia ufficiale di chiusura; era stato
stabilito già nel corso della costruzione che l’edificio doveva essere eliminato da Hyde Park: Paxton
si batté perché venisse mantenuto in loco, adibito a giardino d’inverno, ma non ci riuscì. A fine
esposizione venne smontato e ricomposto nel 1852 a Sydenham, a sud di Londra in un terreno
10
“…Poche persone possono farsi un’idea del numero degli impiegati addetti per diversi titoli all’Esposizione
Universale. Non si andrà molto lungi dal vero, asserendo che il totale delle persone alle quali l’Esposizione da un lavoro
quotidiano, ascende a 30.000…” Cfr., “Impiegati al Palazzo dell’Esposizione” da, “La grande Esposizione di Londra
1851”, Pagliair, Torino, 1851, pag.312.
11
“…Il visitatore,entrando nell’edificio, passa per un cancello a due porte in bronzo riccamente adornato, e gli si
presenterà allo sguardo la bella fontana in cristallo attorniata da parecchi gruppi di statue dovute allo scalpello degli
artisti inglesi: a sinistra la sezione delle Indie, in cui ammirare gioielli, armi, selle, finimenti, tessuti, e soprattutto il
trono e il poggiapiedi in avorio donati alla regina dal marana di Travancore; il Brasile offre i suoi legni preziosi; la
Cina le sue porcellane e manifatture. Continui il visitatore la via sempre a dritta e percorrerà Svizzera, Francia,
Belgio, Austria, giungendo all’estremità orientale dell’edificio; e non ha che ad attraversare la navata per seguire il
lato opposto, percorrendo la Danimarca, l’Alemagna, il Zollverein: la serie delle sale magnifiche è in questa parte
dello spazio artistico. Di là il visitatore percorrerà successivamente l’Olanda, il Belgio, la Francia, l’Italia, la Spagna,
il Portogallo, la Grecia, l’Egitto, la Turchia, la Persia, l’Arabia e si troverà di nuovo di fronte la fontana di
cristallo…”. Cfr., “Guida ai visitatori dell’Esposizione” in “La grande Esposizione di Londra 1851”, Pagliair, Torino,
1851.
8
acquistato dall’impresa Fox and Henderson, ma un incendio lo distrusse, ma un incendio lo
distrusse nel 1936.
Il Crystal Palace fece scuola: nel 1852 John Benson realizzò il palazzo di cristallo di Dublino;
Gorge J. B. Carstensen e Karl Gildemeister quello di New York nel 1853; August Voit quello di
Monaco nel 1854; Rendina e Scoppa quello di Napoli nel 1864; nel 1868 Henry Labrouste
costruisce il salone della biblioteca nazionale a Parigi; Giuseppe Mengoni ricopre con un telaio di
ferro l'importante snodo urbanistico della Galleria Vittorio Emanuele a Milano (1864-67). Inoltre la
sua influenza è rinvenibile anche nella “visibilità trasparente” delle gallerie urbane e dei grandi
magazzini, luoghi di acquisto e consumo delle metropoli ottocentesche dei quali parlerò nel
prossimo paragrafo.
L’esposizione del 1855 si tenne di nuovo a Parigi: gli edifici destinati agli espositori furono quattro,
il Palazzo delle Belle Arti, la Rotonda, il Palazzo dell’Industria ed un edificio provvisorio sulla
Senna, palazzi già esistenti a significare immagini di stabilità e di permanenza, ribadendo il primato
della Francia come centro culturale europeo. La musica e le arti figurative ebbero un sezione
speciale (Delacroix vi espose trentasei opere e Ingres quarantatre; il pittore Gustave Courbet inviò
all'Esposizione una serie di dipinti che la giuria rifiutò di accettare; allora allestì una propria mostra
in quello che chiamò Padiglione del Realismo dove, a pagamento, vicino al Palazzo delle Belle Arti,
si potevano vedere le sue opere). Charles Baudelaire dedicò alle arti figurative un saggio in cui
elogia la virtù vivificante del contatto con forme di bellezza bizzarre e sconosciute.
12
Giuseppe
Verdi scrisse per l’Operà di Parigi “Les Vepres Sicilliennes”, opera commissionatagli dal governo
francese per l’inaugurazione dell’esposizione, che verrà rappresentata il 13 giugno.
A metà ‘800 sono gli anni in cui Parigi subisce profonde trasformazioni, assumendo definitivamente
il volto di quella che sarà la Ville Lumière, capitale indiscussa della cosiddetta Belle Epoque. Dal
1853 il barone Georges-Eugène Haussmann è prefetto della Senna (lo sarà fino al 1869), ed è lui lo
12
cfr. Ch.Baudelaire, Scritti sull’arte, trad. it. Einaudi, Torino 1981, pp.183-84
9
scenografo della città sfavillante e pigra di cui l'artefice lento e sapiente è Luigi Napoleone, l'astuto
dittatore del Second Empire. Il notevole sviluppo economico e sociale, dovuto alla politica
dell’Imperatore Napoleone III, trasformarono Parigi nel centro culturale più importante dei tempi
moderni: proliferarono le gallerie e le maisons d’art, con un conseguente aumento di richieste da
parte dei collezionisti.
Tecnica inglesi o allegria francese? Tra le prime due capitali si mise subito in luce un forte divario;
gli inglesi puntarono ad esposizioni dotte e scientifiche, fatte soprattutto per gli operatori del settore,
i francesi predilessero iniziative più spettacolari, rivolte in prevalenza al grande pubblico. Chiunque
volesse a sua volta promuovere una di queste manifestazioni si trovò ad interrogarsi su quale
modello scegliere.
Nel 1862 l’Esposizione universale si tenne nuovamente a Londra, ma fu lungi dagli splendori di
quella del 1851, a partire dagli spazi espositivi: la superficie espositiva coperta di 125.400 mq era di
molto inferiore a quella del Crystal Palace. Il palazzo principale era un edificio provvisorio in
mattoni e ghisa di 350 metri per 175, con due sale ottagonali con cupole in ferro e vetro,
sormontate da guglie di 61 metri; vicino al palazzo principale si trovavano due edifici, uno per
l’esposizione delle macchine industriali, l’altro collegato mediante un passaggio sotterraneo.
Costruiti in fretta, gli edifici non garantivano neanche una sufficiente copertura dalla pioggia. La
parziale riuscita dell’iniziativa fu dovuta anche agli scarsi collegamenti, alle brutte condizioni
atmosferiche, e alla morte del principe Alberto, mecenate della Great Exposition del 1851.
L’esposizione londinese del 1862 fa da preludio all’internazionale costituita due anni dopo con il
nome di associazione internazionale dei lavoratori proprio perché vi parteciparono molte
delegazioni operaie.
Il 15 maggio 1867 si apre l’Esposizione universale nuovamente a Parigi: i promotori
dell’esposizione parigina furono Le Play e Chevalier; il primo suggerì l’idea del complesso ovale e
10
inoltre si fece pioniere della raccolta di informazione sulle industrie; il secondo fu promotore della
pubblicazione dei rapporti ufficiali sull’esposizione tracciandone una filosofia.
Il giovane Alexander Gustave Eiffel (1832-1923) lavorò con l’ingegnere J. B. Krantz per
l’organizzazione degli spazi espositivi, studiati al fine di creare un nuovo rapporto tra oggetto e
visitatore. Il palazzo principale era un grande anfiteatro coperto, che doveva avere inizialmente la
forma di un globo, ma per difficoltà tecniche, fu trasformato in un'ellisse di m 490 x 336, (il cui
asse minore misurava 380 metri) che ospitava le gallerie dei settori espositivi attorno ad un
giardino: sei immensi anelli concentrici e intercomunicanti formavano i settori in cui i prodotti
erano esposti, divisi per categorie, gruppi, nazionalità.. Intorno all’anfiteatro un parco costituito da
un labirinto di vialetti e da piccoli edifici in stili architettonici diversi l’uno dall’altro: un tempietto
pompeiano, un casino rinascimentale, uno chalet svizzero, un teatro cinese, una moschea, un tempio
di un faraone.
La pluralità degli edifici trasforma la piazza-mercato e la piazza-palazzo in città, città nella
città.
13
Dopo il 1867, la diversificazione per natura e dimensione degli oggetti prodotti, e
l’indipendenza richiesta dalla competizione internazionale, richiesero strutture espositive molteplici.
Infatti l’Esposizione universale inaugurata a Vienna il 1° maggio 1873 offrì un modello innovativo
degli edifici espositivi, una sintesi tra la tendenza dell’”unico contenitore” con quella di più edifici
correlati. La costruzione unitaria era una pianta rettangolare di 905 metri per 176 costituita da un
punto centrale, un edificio circolare, la “rotonda”, di 102 metri di diametro, dalla quale partivano 32
braccia parallele intervallate da spazi di verde, : una “città-edificio”.
I lavori furono guidati dal più noto architetto dell’impero Asburgico, von Hasenhauer, e
dall’ingegnere Engerth, mentre la cupola della rotonda fu progettata dall’architetto inglese Scott
Russell. L’esposizione dei prodotti (su un’area di 60.000 mq) seguiva un criterio geografico: ad
ovest i paesi occidentali, ad est i paesi orientali. Nonostante l’importante studio architettonico ed
13
Abruzzese, “Dizionario della Pubblicità”, Zanichelli, 2000
11
urbanistico, l’esposizione riuscì in parte a causa dell’epidemia di colera scoppiata in quell’anno e
per il crack della Borsa di Vienna, il 9 maggio, dopo pochi giorni dall’inaugurazione.
Nel 1876 si inaugura a Filadelfia la prima Esposizione universale americana, non a caso nell’anno
del centenario dell’indipendenza, dichiarata il 14 giugno 1776. L’esposizione voleva anche essere la
celebrazione del progresso industriale e civile della nazione americana e del mito del self-made-
man.
Filadelfia era una città già ben organizzata urbanisticamente: 825.000 abitanti vivevano in 140.000
abitazioni (solo una media di 6/7 abitanti per casa); 8579 fabbriche davano lavoro ad operai ed
impiegati; 57.300 cavalli-vapore percorrevano le sue strade (1440 km), di cui la metà regolarmente
pavimentate e dotate di illuminazione a gas; la rete idrica forniva 218 litri di acqua per abitante; 370
km di ferrovie. Insomma un esempio efficiente che competeva con città come New York e
Washington, rispettivamente capitale marittima e commerciale e capitale politica..
Il progetto dell’area espositiva prevedeva la costruzione di una città espositiva affacciata sulla
pittoresca veduta del fiume Schylkill nel parco di Fairmount, un’area di grandissime dimensioni che
offriva un equo rapporto nella distribuzione delle superfici coperte con quelle libere (145.098 mq le
prime; 11.070.000 le seconde). Anche l’architettura dell’esposizione tendeva alle grandi
dimensioni: i due edifici maggiori, il Main Building e il Palazzo delle Macchine, erano attraversati e
separati da grandi viali; le tredici porte del Main Building alludevano alle tredici colonie firmatarie
della Dichiarazione d’Indipendenza. Il Palazzo delle Belle Arti, realizzato in granito e mattoni, con
arcate che ricordavano lo stile delle ville romane, sorgeva sul punto più alto del Fairmount Park;
una grande cupola svettava su di esso con all’interno una grossa campana simbolo della pace e sigla
dell’esposizione. Il Palazzo dell’Agricoltura, in legno e vetro, ricordava l’architettura del cottage e
della chiesa anglosassone; il Palazzo dell’Orticoltura, in ferro e vetro, riprendeva lo stile moresco;
l’Architectural-Hall venne definito il più originale degli edifici dell’esposizione. Al decoro
introdotto dalle grandi dimensioni, si affiancava la decorazione costituita dai simboli americani: le