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L'infinito in psicoanalisi

L’infinito in psicoanalisi


L’infinito ha una forma pensabile solo se riferito al mondo inconscio, sede di desideri illimitati e terrori angoscianti. L’infinito leopardiano è il desiderio di unirsi ad uno spazio-tempo illimitato, rappresentato da coppie opposte, presente-passato, vicinanza-lontananza, funzionale-reale, presenza-assenza. Esso sarà accettabile e meno angosciante, o facilitante, per la sua capacità evocativa della mente assoluta e infinita dell’infanzia, e della sua continuità temporale.
Infinito equivale a non determinazione, a libertà sempre prorogabili, ad uno spazio adeguato per l’urgenza e per la dialettica della negazione, ma anche della consapevolezza o della possibilità di rinviarla. I sentimenti contenuti nell’infinito potrebbero essere visti come una forma di ricerca del contatto e dell’esperienza: altro è sentirsi portatori infiniti di invidia, altro di una attuale disperazione; diverso è il sentire della vendetta come condizione permanente di crudeltà o come ricerca sostitutiva di un sentire mancante o impossibile, così il possesso come realizzazione dell’avidità è diverso dal desiderio di possedere oggetti, come tentativo di scandire l’infinito e di attribuirgli contenuti.
Il sentimento di infinito con il quale alcune malattie sono vissute e si presentano richiede di essere visto, sentito, accettato, elaborato, in modo che svolga la sua funzione di sostegno e di contenitore temporaneo.
Un’infinita restituzione può essere la risposta dell’analista, nel senso del suo ricostruire un infinito diverso da quello esistente del paziente e che potrà essere interiorizzato come insieme di atti di accoglimento e di riparazione e potrà generare una finitezza nuova e accettabile. Nel gruppo, l’attività dell’analista rivolta alla differenziazione e al riconoscimento dei contenuti inconsci e dei loro aspetti comuni e individuali, finirà con il restituire una parzializzazione dell’infinito, pur rispettando i caratteri dell’esperienza collettiva.
Durante le sedute, l’analista si trova a rinvenire pensieri inconsci dei pazienti, o alienati da sé, o interi sistemi profondi di congetture e procedure represse, abbandonate, rifiutate per ragioni diverse e non sempre comprensibili.
Non sempre è chiaro perché quel paziente ha scelto proprio quel determinato elemento e non altri, che testimonia la presenza del campo trasferale, per esprimere qualcosa di sé, se avrebbe avuto la possibilità di esprimere quella stessa comunicazione profonda in un modo diverso e perché non lo abbia fatto; a quale porzione della sua soggettività sta rinunciando e perché. La presenza di questi elementi nella scena analitica può indicare una esigenza di infinito, legato all’eternità inconscia e alla non saturazione della risposta attesa. Il paziente che introduce un richiamo di natura trasferale, ci fa sapere che in quel punto, egli fa riferimento a qualcosa di non previsto come parte di sé e si sta interrogando sulla sua comparsa; che del resto è stato in grado di ammettere e di segnalarci, ci fa sapere che siamo in un campo anonimo e anomico, nel quale il tempo è sostituito dall’eternità, lo spazio dalla virtualità.
All’origine della indeterminatezza si può trovare mancanza, come esperienze mancanti o perdute, oppure rimozione profonda, e quindi cesura della comunicazione in analisi; o paura del vuoto e bisogno di fusionalità dell’analista, timore della falsità e della falsificazione di sé.

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