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Cooperazione ed egemonia in Ikenberry

La capacità di cooperare dipende anche dai modelli esistenti di regimi ⇒ la creazione di un nuovo regime internazionale potrebbe essere facilitata dalla mutua confidenza creata dagli esistenti regimi. 
In effetti, un concetto simile viene riproposto da G. J. Ikenberry. In After victory, infatti, egli afferma che il periodo successivo alla conclusione delle maggiori guerre presenta una serie di scelte allo Stato vincitore, dato che la distruzione causata dalla guerra e la rottura del vecchio ordine danno l’opportunità di stabilire nuove regole e strutture organizzative, con un’alta probabilità di sopravvivenza in futuro. 
In generale, lo Stato vincitore ha 3 opzioni tra cui scegliere: 
1. usare il suo potere per dominare gli Stati più deboli e quelli sconfitti ⇒ ne deriverà un ordine egemonico o imperiale; 
2. abbandonare gli altri Stati al loro destino ⇒ non si creerebbe alcun ordine, ma, una volta abbandonati a se stessi, molto probabilmente gli Stati più deboli cercheranno di adottare una strategia di balancing in risposta agli imprevedibili atteggiamenti degli Stati più potenti; 
3. usare il suo potere e la sua posizione di leader per ottenere consenso e partecipazione in un ordine postbellico mutuamente accettato ⇒ l’obiettivo sarà di stabilire un insieme di regole duraturo e legittimo, che, al tempo stesso, proteggano gli interessi di lungo periodo dello Stato dominante. 

TUTTAVIA, anche qualora lo Stato vincitore decida di seguire quest’ultima via, non è detto che si giunga davvero ad un accordo: infatti, gli Stati più deboli possono ancora ragionevolmente temere che lo Stato dominante decida di scegliere la prima o la seconda opzione ⇒ lo Stato dominante dovrà rassicurare gli altri e convincerli del suo coinvolgimento nella costruzione di un nuovo ordine condiviso. Senza tali rassicurazioni, infatti, gli Stati più deboli hanno molti incentivi ad opporre resistenza, ad organizzare un ordine mondiale alternativo o a mettere in atto una strategia di balancing. 
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Lo Stato dominante avrà forti incentivi a certificare il suo potere = a dimostrare di essere un attore responsabile e prevedibile e che l’esercizio del suo potere è comunque circoscritto. Per raggiungere questo obiettivo, lo Stato dominante può seguire diverse strategie: 
− apertura = adottare politiche trasparenti; 
− legarsi 
− diventare prevedibile e accessibile nei confronti degli Stati più deboli. 

La volontà e la capacità dello Stato vincitore di rassicurare gli altri dipende, secondo Ikenberry, 
− dal tipo di Stato coinvolto: le democrazie, per esempio, sono le più capaci, ma al tempo stesso anche le meno desiderose di mettere in pratica simili strategie, rispetto alle non-democrazie. In generale, si possono determinare 3 caratteristiche che rendono le democrazie più propense a ridurre le strategie di dominio o abbandono: 
- trasparenza = l’apertura e la visibilità delle politiche ⇒ riduce la sorpresa e genera un più alto livello di confidenza 
- accessibilità = un sistema aperto e decentralizzato, che lo rende accessibile agli altri Stati ⇒ aumenta il livello di informazione e di credibilità del proprio impegno 
- viscosità politica = controlli istituzionali che limitano improvvisi cambi di politica ⇒ riduce la sopresa; 
− dalle disparità di potere che si sono create dopo la guerra: più il potere è concentrato nelle mani di un solo Stato, più il problema dell’ordine coinvolge questioni di conformità e dominio, e maggiore sarà il problema del timore degli Stati subordinati. Quando, invece, il potere è meno concentrato (esiste cioè una coalizione di Stati vincitori), il nuovo ordine mondiale sarà inevitabilmente frutto di negoziati, nei quali sarà molto difficile per ciascun vincitore imporre agli altri la propria idea di ordine. 
Maggiore è il potere dello Stato dominante, maggiori saranno gli incentivi e le capacità di costruire il nuovo ordine attorno a istituzioni vincolanti, sempre nel rispetto dei suoi interessi di lungo periodo. 
Le differenze di potere dipendono da specifiche circostanze relative alla guerra: 
- il grado di rottura del vecchio ordine: maggiore è tale rottura, maggiori saranno le opportunità di stabilire nuove regole e nuovi principi; 
- la decisività della vittoria: in caso di vittoria decisiva, la sconfitta del nemico è associata con la sconfitta del vecchio ordine ⇒ le opportunità di istituire nuove regole e principi aumentano. 
Quando invece la guerra si conclude con un armistizio o un cessate-il-fuoco, diventa più difficile per il vincitore imporre un nuovo ordine; 
- il grado con cui lo Stato dominante ha contribuito alla vittoria finale: se lo Stato dominante ha avuto un ruolo decisivo nel segnare la vittoria finale, esso si ritrova in una posizione di notevole potere nel processo di creazione del nuovo ordine postbellico. 

Spesso, però, lo Stato dominante si trova in situazioni in cui potrebbe scegliere di non costruire un ordine postbellico; ci sono però degli incentivi che lo spingono a trasformare la sua attuale posizione di potere in un vantaggio duraturo nel lungo periodo. La sua posizione di dominio, infatti, non è stabile finché non riconosciuta all’interno di un ordine legittimo (= un ordine in cui i membri partecipano volontariamente e concordano con l’orientamento generale del sistema) ⇒ legittimando l’ordine postbellico, lo Stato dominante intraprende una strategia di power management. 

Perché lo Stato dominante dovrebbe desiderare di limitare il suo potere? 
Semplicemente perché ha interesse a conservare tale potere. 
Un assetto costituzionale conserva il potere dello Stato dominante in 2 modi: 
− riducendo i costi di mantenimento dell’ordine all’interno del sistema: nel lungo periodo è decisamente più conveniente dell’uso della forza costruire un ordine in cui gli Stati secondari rispettano volontariamente le sue regole e i suoi principi. Inoltre, è decisamente più efficace nel lungo periodo influenzare gli interessi degli altri Stati piuttosto che forgiarne le azioni con la forza. 
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La legittimità dell’ordine riduce il rischio di rivolta e di resistenza degli Stati più deboli. 
− Se lo Stato vincitore è consapevole che il suo vantaggio in termini di potere è solo momentaneo, un ordine istituzionalizzato potrebbe costruire un assetto a lui favorevole, anche oltre lo zenit del suo potere ⇒ la creazione di un ordine istituzionalizzato è una sorta di “investimento egemonico” per il futuro. 

Perché gli Stati più deboli dovrebbero accettare tali trattative piuttosto che tentare di costruire un ordine più favorevole a loro? 
Per vari motivi: 
− senza un assetto istituzionalizzato, le trattative verrebbero condotte semplicemente in base ai rapporti di potere ⇒ l’egemone avrebbe un inevitabile vantaggio ⇒ gli Stati più deboli subirebbero una perdita maggiore di quanto non subirebbero accettando un ordine duraturo; 
− se lo Stato dominante è in grado di mostrare una limitazione strategica, gli altri Stati cercheranno di comprare protezione contro la minaccia di dominio o abbandono ⇒ un ordine istituzionalizzato renderebbe lo Stato dominante più prevedibile ⇒ gli Stati più deboli dovranno spendere meno risorse per il “premio di rischio” ⇒ le asimmetrie di potere sarebbero più accettabili. 

Per comprendere meglio le logiche dell’ordine costituzionale, Ikenberry distingue tra: 
− accordi sostanziali, il cui esito determina la distribuzione di benefici materiali tra gli Stati; 
− accordi istituzionali, che specificano i principi, le regole e i parametri all’interno dei quali condurre particolari negoziati. 

Quando uno Stato dominante sceglie tra questi 2 modi di allocare il suo potere, deve calcolare le attrattive e le limitazioni di ciascuna opzione: l’uso del potere per ottenere guadagni sostanziali di breve periodo è attraente perché offre un beneficio immediato. D’altra parte, però, gli accordi istituzionali sono accordi power-saving ⇒ garantiscono benefici anche qualora la posizione dello Stato dominante sarà declinata. 
Sotto certe condizioni, le attrattive di questa seconda scelta superano i costi derivanti dalla limitazione dell’uso arbitrario della propria forza ⇒ NB: le istituzioni non sono neutrali rispetto agli interessi degli Stati. 
Poiché il limite degli accordi istituzionali è che essi non implicano alcuna specificazione circa la futura distribuzione dei guadagni, rendendo tale scelta meno attraente, le istituzioni postbelliche dovranno essere sufficientemente determinanti sul comportamento futuro degli Stati, in modo da rendere tale ordine attraente sia per lo Stato dominante sia per gli Stati più deboli. 
Ikenberry identifica 3 processi attraverso i quali gli Stati possono legare le loro politiche: 
1. gli accordi istituzionali possono comprendere procedure organizzative e legali che rinforzano le aspettative circa il comportamento futuro degli Stati ⇒ anche se gli Stati sono comunque in grado di rompere tali accordi, tali procedure creano dei costi politici in caso di rottura; 
2. gli accordi istituzionali spesso creano connessioni e coalizioni transgovernative che danno un certo grado di continuità alle politiche specifiche degli Stati ⇒ dal momento che il processo decisionale si sviluppa in forme di divisione del lavoro e specializzazione, i costi di rottura di tale ordine aumentano notevolmente. Inoltre, le istituzioni internazionali forniscono un canale che permette agli Stati di partecipare al processo politico e decisionale degli altri ⇒ il risultato è un alto grado di sicurezza e prevedibilità; 
3. un accordo istituzionale può diventare un veicolo organizzativo per un più ampio insieme di attività e istituzioni politiche. In particolare, tali accordi possono avere un impatto indiretto sul carattere delle istituzioni interne di uno Stato, promuovendo certi cambiamenti e certi orientamenti politici. 

Il potere americano negli anni ’90 è sicuramente un fatto senza precedenti: nessun altro Stato nell’epoca moderna, infatti, ha mai avuto una simile posizione dominante a livello globale. MA se la storia è maestra, tale primato americano dovrebbe portare a strategie di resistenza e controbilanciamento. 
Perché questo non si è verificato? 
L’ipotesi avanzata da Ikenberry è che rapporti asimmetrici di potere sono non solo perfettamente compatibili con un ordine politico stabile ma anche che, quando si verificano tra Stati democratici, le disparità di potere possono essere forti catalizzatori che spingono a favore della cooperazione istituzionalizzata. 
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La potenza americana sarebbe resa più accettabile per gli altri Stati dal fatto di essere istituzionalizzata: la NATO e altri trattati nel campo della sicurezza limitano in certa misura il potere militare americano; altre organizzazioni regionali o globali limitano anche il potere economico degli Stati Uniti. 
TUTTAVIA, i leader americani si sono spesso mostrati alquanto ambigui di fronte a tali limitazioni ⇒ la persistenza dell’ordine americano postbellico dipenderà in larga misura dal modo in cui il potere americano e le istituzioni coopereranno nel creare rapporti stabili e legittimi tra le democrazie industriali. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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