Cooperazione, armonia e discordia in Keohane
Prima di formulare la sua teoria, Keohane fa alcune distinzioni, in particolare definisce i seguenti 3 concetti.
La cooperazione deve essere distinta dall’armonia = una situazione in cui le politiche dei vari attori (seguite secondo i propri interessi, senza alcun riferimento agli altri) automaticamente facilita il perseguimento degli obiettivi degli altri.
⇓ In questo mondo ideale, nessuno con le proprie azioni danneggia gli altri. Insomma, non ci sono “esternalità negative” ⇒ dove c’è l’armonia, la cooperazione non è necessaria.
La cooperazione richiede invece che le azioni di singoli individui o organizzazioni – che non si trovano in una preesistente condizione di armonia – siano ridotte alla conformità reciproca attraverso un processo di negoziazione, spesso definito “coordinazione delle politiche”.
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La cooperazione avviene quando gli attori aggiustano i loro comportamenti alle preferenze degli altri, attraverso un processo di coordinazione politica.
Tenendo presente questa distinzione, Keohane passa a definire in modo più specifico i concetti di
− cooperazione
− armonia
− discordia.
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Se non c’è alcun tentativo da parte degli attori di aggiustare le rispettive politiche, il risultato è la discordia = una situazione in cui ciascun governo guarda alle politiche degli altri come ad un impedimento al raggiungimento dei loro obiettivi.
Quando invece i tentativi di aggiustamento hanno luogo con successo, si arriva alla cooperazione ⇒ ciascun governo persegue ciò che considera i propri interessi, ma cerca anche di condurre quelle trattative con gli altri che pensa possano portare a dei benefici per tutte le parti trattanti, seppur non in maniera uguale.
Spesso, continua Keohane, armonia e cooperazione non sono facilmente distinguibili. Eppure dovrebbero esserlo, dal momento che
− l’armonia è apolitica = non è necessaria alcuna comunicazione tra le parti, né alcuna influenza;
− la cooperazione è altamente politica = in qualche modo, gli stili di comportamento devo essere modificati, portando ad esiti sia positivi sia negativi.
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La cooperazione non implica automaticamente l’assenza di conflitto. Anzi, spesso è mescolata con il conflitto – reale o potenziale – e riflette il successo delle parti di superarlo, almeno parzialmente.
Il concetto di regime internazionale dunque non ci permette di descrivere solo la cooperazione, ma anche la discordia.
Quando J. Ruggie introdusse il concetto di regime internazionale nel 1975, egli definì un regime = un insieme di mutue aspettative, regole e regolamenti, piani, energie organizzative ed impegni finanziari, che è stato accettato da un gruppo di Stati.
Più di recente si è giunti alla seguente definizione generale di regimi internazionali:
insiemi di principi, norme, regole e procedure decisionali attorno ai quali le aspettative degli attori convergono in determinate aree tematiche delle relazioni internazionali.
− principi = credenze di fatti, cause e onestà: in generale, definiscono lo scopo che i membri si aspettano di raggiungere;
− norme = standard di comportamento, definiti in termini di diritti e doveri: contengono un’ingiunzione per i membri su quali comportamenti siano legittimi e quali illegittimi, specificando doveri e responsabilità;
− regole = specifiche prescrizioni di azione: sebbene siano difficili da distinguere dalle norme, le regole sono comunque più specifiche: esse indicano nel dettaglio diritti e doveri dei membri.
− procedure decisionali = pratiche prevalenti per giungere a ed attuare una scelta collettiva: esse indicano i modi attraverso i quali i membri possono attuare i loro principi e modificare le loro regole.
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Se pensiamo all’impatto che principi, norme, regole, procedure decisionali possono avere, diventa evidente che perché essi abbiano un qualche effetto, devono esercitare la propria influenza sul controllo nazionale e, soprattutto, sugli accordi interstatali che influenzano l’esercizio del controllo nazionale.
NB: i regimi internazionali devono essere distinti da questi specifici accordi, soprattutto perché, come vedremo, una delle principali funzioni dei regimi è di facilitare il raggiungimento di tali accordi tra gli Stati.
Sovranità e self-help implicano che i principi e le regole dei regimi internazionali saranno più deboli rispetto al contesto domestico. Questo, però, non implica che la cooperazione sia impossibile.
Inoltre, i regimi internazionali non dovrebbero essere visti come un “nuovo ordine internazionale oltre lo Stato nazione”. Essi dovrebbero essere invece visti come accordi guidati dai propri interessi, come componenti di un sistema in cui la sovranità resta un principio costitutivo.
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Proprio come affermano i realisti, essi saranno forgiati soprattutto dai loro membri più potenti, che perseguono ciascuno i propri interessi. MA i regimi possono anche influenzare gli interessi degli Stati, dal momento che, in sé, il concetto di interesse è elastico e soggettivo.
Una possibile spiegazione avanzata per spiegare il fallimento dei tentativi di cooperazione nel campo della politica implica che gli interessi degli Stati coinvolti sono tra loro incompatibili ⇒ secondo questa spiegazione, la discordia è un fatto naturale, se non inevitabile, il risultato delle caratteristiche degli attori e delle rispettive posizioni relative.
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Secondo questa visione, bassi livelli di cooperazione potrebbero essere un esito Pareto-ottimale = dati gli interessi degli attori, non esiste alcuna soluzione più cooperativa che migliori l’esito.
TUTTAVIA, Keohane confuta questa tesi, sulla base delle nuove teorie sulla razionalità (teoria dei giochi e teorie sull’azione collettiva); in base a queste teorie, anche se gli attori sono razionali individualmente considerati, il gruppo a cui appartengono può tuttavia non agire necessariamente come un attore razionale ⇒ gli attori possono non riuscire a cooperare anche quando i loro interessi sono praticamente identici.
Come punto di partenza della sua analisi, Keohane assume, come fanno i realisti, che gli attori siano egoisti razionali.
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Partendo dagli assunti dei realisti, Keohane si propone di dimostrare che essi non portano necessariamente agli esiti negativi delineati dai realisti, ma al contrario sono perfettamente compatibili con la formazione di accordi istituzionalizzati, contenenti regole e principi, che promuovono la cooperazione. E questo perché tra la struttura anarchica e gli esiti agiscono i regimi studiati da Keohane, analizzabili come variabili “intervenienti”.
Le difficoltà della cooperazione sono bene illustrate dai giochi che T. Schelling ha definito “mixed-motive games” = giochi caratterizzati dalla combinazione di mutua dipendenza e conflitto, da partnership e competizione. In questi giochi, entrambi i giocatori possono beneficiare dalla mutua cooperazione, ma ciascuno potrebbe guadagnare molto di più defezionando.
Classico esempio di questa tipologia di giochi è il dilemma del prigioniero, particolarmente importante perché dimostra come, sotto certe condizioni, attori razionali non sono in grado di raggiungere la soluzione Pareto-ottimale, nonostante una certa convergenza tra i loro interessi.
ORDINE DEI PAYOFF: DC>CC>DD>CD
Ciascun prigioniero riconosce che, sulla base del proprio interesse, dovrebbe confessare (DEFEZIONARE), qualunque cosa faccia l’altro ⇒ DEFEZIONARE è la strategia dominante per ciascun giocatore.
La logica dell’azione collettiva, come è stata spiegata da M. Olson jr. è essenzialmente simile a quella del dilemma del prigioniero. In questa situazione, la cooperazione è necessaria per ottenere un bene di cui godrebbe ciascun partecipante, sia che contribuiscano sia che non lo facciano.
Anche in questo gioco, la strategia dominante di ciascun giocatore che guarda solo al proprio interesse è DEFEZIONARE = non contribuire alla produzione del bene.
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Il bene collettivo verrà o non prodotto o sottoprodotto, indipendentemente dal fatto che il suo valore per il gruppo sarebbe superiore al suo costo.
In generale, il dilemma del prigioniero single-play viene usato nelle teorie della politica internazionale per mostrare perché la discordia prevale e la cooperazione è rara.
Keohane, però, non si dice d’accordo con questa scelta e cerca di costruire la sua teoria funzionale dei regimi internazionali partendo da
− Teoria della scelta razionale: le decisioni degli attori se cooperare o no possono essere viste come volontarie = ciascun attore indipendente ha la capacità di accettare o rifiutare di cooperare (accettare un regime o un accordo).
TUTTAVIA, bisogna essere consapevoli che ogni accordo frutto di negoziazioni e trattative sarà influenzato dai diversi costi che ciascun attore deve affrontare per ciascuna alternativa ⇒ i rapporti di potere e di dipendenza sono importanti determinanti delle caratteristiche dei regimi internazionali.
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Scelta volontaria non implica equità.
Secondo un’analisi della scelta razionale volontaria, ciascun attore calcola che essere membro di un regime internazionale è almeno uguale ai benefici del non esserlo, altrimenti non vi avrebbe partecipato.
Tuttavia, l’importanza delle disuguaglianze di potere devono ricordarci che il risultato di trattative volontarie non necessariamente è assolutamente positivo per tutti. Ad esempio, gli outsiders potrebbero venire penalizzati dalla creazione di un regime.
− Teoria dei beni collettivi: nel caso del dilemma del prigioniero, DEFEZIONARE è la strategia dominante per ciascun giocatore solo nel caso il gioco sia single-play o, al massimo, che venga ripetuto un numero finito di volte. Tuttavia, nel caso di un dilemma del prigioniero iterato un numero infinito di volte, c’è generalo accordo che i giocatori razionali tenderanno a COOPERARE. Questo perché, nel lungo periodo, DEFEZIONARE è una strategia penalizzante.
R. Axelrod ha mostrato che, una volta valutati correttamente i benefici futuri, la strategia migliore è il cosiddetto tit for tat = un giocatore inizia con COOPERARE, poi prosegue facendo quello che l’altro giocatore ha fatto in precedenza ⇒ vendicandosi in caso di defezione, collaborando in caso di cooperazione.
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Axelrod mostra che, anche tra attori puramente egoisti, la cooperazione può emergere se almeno inizialmente esiste un buon numero di potenziali cooperatori: quando le decisioni vengono prese in più momenti, può premiare una scelta di cooperazione, perché altrimenti i partner possono defezionare, peggiorando la situazione.
− Teorie del “fallimento del mercato”: si riferiscono a situazioni in cui gli esiti di interazioni mediate dal mercato sono subottimali, date le funzioni di utilità degli attori e le risorse a loro disposizione ⇒ accordi di cui beneficerebbero tutte le parti non vengono raggiunti.
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Le difficoltà vengono attribuite non agli attori in sé (che vengono ipotizzati come razionali massimizzatori della propria utilità), ma alla struttura del sistema e delle istituzioni: infatti, specifiche caratteristiche del sistema possono imporre costi di transizione che creano barriere all’effettiva cooperazione ⇒ per correggere questi difetti istituzionali, sono necessarie delle innovazioni istituzionali.
Come i mercati imperfetti, la politica internazionale è caratterizzata da mancanze istituzionali che inibiscono la cooperazione, che sarebbe invece reciprocamente vantaggiosa per tutti.
In termini economici, i conflitti di interesse che possono crearsi tra gli attori possono essere causati, almeno in parte, dall’esistenza di esternalità. In un famoso articolo, R. Coese afferma che la presenza di esternalità da sola non necessariamente impedisce la cooperazione tra attori indipendenti. Sotto certe condizioni, infatti, trattative tra questi attori possono portare a soluzioni Pareto-ottimali.
Per illustrare il teorema di Coese immaginiamo che la fuliggine emessa da una fabbrica di vernici si depositi, per via del vento, sui vestiti appesi all’esterno da una vicina lavanderia.
Supponiamo che il danno della lavanderia sia superiore ai 20.000$ che servirebbero per installare un sistema di asciugatura interno ⇒ in mancanza di altre alternative, alla lavanderia converrebbe procedere con questa installazione.
Supponiamo però anche che alla fattoria di vernici costerebbe 10.000$ installare un sistema di eliminazione delle immissioni inquinanti nell’aria.
Ovviamente, il benessere sociale migliorerebbe più eliminando le immissioni che con l’installazione del sistema di asciugatura interno, ma, in assenza di obblighi governativi, il proprietario della fabbrica, egoisticamente pensando, non avrebbe alcun incentivo a spendere 10.000$ per conseguire il benessere sociale.
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In generale, si è affermato che per produrre il bene pubblico dell’aria pulita è necessaria la presenza di un’autorità governativa centrale.
Coese, invece, ha affermato che l’aria pulita si avrebbe anche qualora la lavanderia pagasse al proprietario della fabbrica una somma maggiore di 10.000$, ma inferiore a 20.000$, per installare un sistema anti-immissioni ⇒ entrambe le parti accetterebbero un simile accordo, in quanto esso beneficerebbe entrambe.
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In ogni caso, l’esternalità – l’inquinamento – sarebbe comunque eliminata; la differenza non sarebbe dunque in termini di efficienza economica, ma di distribuzione dei benefici.
Il teorema di Coese afferma che un accordo efficace può essere raggiunto anche quando le leggi sulla legalità favoriscono i produttori di esternalità piuttosto che le loro vittime.
Il teorema di Coese è stato spesso usato per mostrare l’efficacia delle trattative senza un’autorità centrale, soprattutto nel caso delle relazioni internazionali ⇒ il teorema di Coese potrebbe essere interpretato come segue: i problemi dell’azione collettiva possono essere facilmente risolti nella politica internazionale attraverso trattative e aggiustamenti reciproci ⇒ attraverso la cooperazione.
NB: Coese specifica che, perché le sue conclusioni siano valide, devono esserci 3 condizioni:
1. un framework di legalità, presumibilmente supportato dall’autorità governativa;
2. perfetta informazione;
3. zero costi di transazione.
Evidentemente, queste condizioni non esistono nel mondo della politica:
1. non esiste un governo mondiale;
2. l’informazione è estremamente costosa e spesso asimmetrica;
3. i costi di transazione sono molto elevati.
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Keohane avanza l’ipotesi che un’inversione del teorema di Coese sarebbe più appropriato = in assenza delle condizioni di Coese, la coordinazione è resa difficile dai dilemmi dell’azione collettiva e in assenza di istituzioni che possano attenuare tali difficoltà.
Da qui, Keohane deriva la necessaria creazione dei regimi internazionali. Gli architetti dei regimi anticipano il fatto che i regimi possano facilitare la cooperazione. Essi, infatti, permettono di:
− stabilire un ambito di legalità: i regimi internazionali non possono essere paragonati ai governi, dal momento che essi non possono stabilire norme e responsabilità solide come quelle all’interno delle società ordinate. Invece, i regimi internazionali possono essere definiti, d’accordo con W. Fellner, come “quasi-accordi” ⇒ non impugnabili legalmente ma, come i contratti, aiutano ad organizzare le relazioni in modi mutuamente benefici. Come i contratti e le convenzioni, i quasi-accordi forniscono informazione e generano costi di transazione ⇒ i costi di rinnego aumentano, mentre quelli di cooperazione diminuiscono.
Come i contratti e i quasi-accordi, i regimi internazionali sono spesso, come già detto, deboli e fragili: le loro regole possono essere cambiate o rotte, in base alle esigenze del momento ⇒ sono spesso oggetto di negoziazioni e rinegoziazioni. I regimi, però, restano istituzioni decentralizzate = qualunque sanzione per le violazioni dei principi o delle regole del regime deve essere attuata dai singoli membri;
− provvedere ad un’informazione simmetrica: come dimostrato dal dilemma del prigioniero o dalle discussioni sull’azione collettiva, molte situazioni sono caratterizzate sia da interessi comuni, sia da un certo conflitto tra di essi.
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Gli attori devono preoccuparsi di non essere ingannati. La letteratura sul fallimento del mercato individua, in particolare, 3 fonti di difficoltà:
- informazione asimmetrica = in certe situazioni, alcuni attori possono sapere più di altri ⇒ aspettandosi una trattativa scorretta, gli outsiders saranno molto riluttanti a negoziare con gli insiders. Questo è, essenzialmente, quello che Axelrod ha definito il problema dell’incertezza qualitativa = la consapevolezza che altri abbiano una maggiore conoscenza e siano dunque in grado di imbrogliare o manipolare le trattative è una barriera alla cooperazione.
Il problema dell’informazione asimmetrica non si risolve semplicemente attraverso una maggiore comunicazione: le informazioni richieste all’interno di un regime internazionale non sono solo circa le risorse degli altri e delle loro posizioni nelle trattative attuali, ma anche circa le loro posizioni future ⇒ la reputazione di un governo diventa un elemento molto importante nella persuasione di altri a cercare un accordo. I regimi internazionali permettono ai governi di testare la reputazione degli altri, stabilendo standard di comportamento. I regimi possono inoltre comprendere organizzazioni internazionali che possano mediare, ma anche garantire informazioni imparziali più o meno nella stessa misura a tutti i membri.
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Riducendo l’asimmetria nelle informazioni, i regimi internazionali riducono l’incertezza internazionale.
- moral hazard = a volte, degli accordi possono creare incentivi che portano a comportamenti meno cooperativi;
- irresponsabilità = alcuni attori possono essere irresponsabili, prendendo cioè impegni che non sono in grado di portare a termine. I governi o le imprese possono fare un accordo, con l’intenzione di rispettarlo, ma supponendo che il contesto resti loro favorevole. MA qualora tale contesto dovesse modificarsi a causa di improvvise avversità, essi potrebbero non essere più in grado di rispettare tale impegno. Ad esempio, nelle relazioni internazionali, i governi maggiori che cercano nuovi aderenti ad accordi internazionali possono trovarsi di fronte a simili difficoltà: i paesi più entusiasti della cooperazione sono molto probabilmente quelli che si aspettano di guadagnare proporzionalmente più del loro contributo.
È un problema di auto-selezione = per certi tipi di attività, gli Stati più deboli (= quelli che hanno poco da perdere, ma molto da guadagnare) possono avere più incentivi a partecipare rispetto a quelli più forti, ma meno incentivi a spendere per finanziare tali attività ⇒ senza gli Stati forti, l’impresa nel suo complesso è destinata a fallire.
− accordare i costi di transazione, cosicché specifici accordi possano essere più facilmente raggiunti: in particolare, i regimi internazionali riducono i costi delle trattative legittime, mentre aumentano quelli per le trattative illegittime ⇒ per i governi, è più conveniente negoziare all’interno del regime, piuttosto che all’esterno di esso.
Non a caso, spesso i regimi internazionali (specialmente quelli economici) incorporano organizzazioni internazionali che fungono da forum di incontro e discussione per futuri accordi.
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I regimi permettono ai governi di sfruttare le economie di scala che si formano: una volta stabilito il regime, i costi marginali delle trattative in ambiti aggiuntivi sono inferiori di quanto sarebbero senza regime.
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I regimi internazionali aiutano gli Stati ad affrontare tutti questi problemi: una volta stabilite le regole e i principi del regime, la gamma di comportamenti attesi si riduce ⇒ l’incertezza diminuisce, l’informazione diventa più disponibile, l’asimmetria nella sua distribuzione si riduce.
Inoltre, il monitoraggio dei comportamenti degli attori mitiga il problema del moral hazard.
L’importanza dei costi di transazione e dell’incertezza implicano che i regimi sono più facili da mantenere che da creare. Infatti, una volta stabilito un regime internazionale, esso beneficia dell’informazione relativamente alta e simmetrica che esso stesso genera ⇒ alti costi per la costruzione dei regimi garantiscono in certa misura la sopravvivenza dei regimi esistenti. Ne consegue anche che, laddove è possibile, gli Stati preferiranno razionalmente modificare i regimi esistenti, ritenuti insoddisfacenti, piuttosto che abbandonarli per crearne di nuovi ⇒ i regimi, in generale, si evolvono, ma non muoiono.
Questa affermazione ci permette di capire perché l’erosione dell’egemonia americana durante gli anni ’70 non è stata seguita dall’immediato collasso della cooperazione, come previsto dalla teoria realista della stabilità egemonica: dato che il livello di istituzionalizzazione dei regimi postbellici era estremamente elevato rispetto agli standard storici, possiamo aspettarci che il lasso di tempo tra il declino dell’egemonia americana e la distruzione dei regimi internazionali sia abbastanza grande e l’“inerzia” dei regimi esistenti abbastanza buona.
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I regimi internazionali sono, secondo Keohane, molto utili ai governi, dal momento che permettono loro di raggiungere obiettivi che sarebbero altrimenti irraggiungibili.
NB: da questo non dobbiamo dedurre che i regimi necessariamente aumentano il benessere globale. Anzi, essi possono essere usati per perseguire interessi particolari e ristretti, così come, viceversa, obiettivi molto ampi e condivisi.
Alcuni realisti, tra cui H. J. Morgenthau notano l’esistenza di organizzazioni internazionali funzionali (ad esempio, il sistema delle Nazioni Unite), ma osservano che, in caso di conflitto tra l’interesse nazionale e l’operato di tali agenzie internazionali, l’interesse nazionale vince sull’obiettivo internazionale. Secondo Keohane una simile conclusione dipende da una visione miope dei propri interessi = la percezione di un governo dei costi e dei benefici relativi di un’alternativa nell’ambito di una particolare problematica, considerando tale problematica isolatamente dalle altre.
Cosa spinge gli Stati a partecipare a regimi che sembrano penalizzanti?
Se al mondo ci fosse solo un regime, o più regimi isolati, un governo che agisse in modo egoisticamente razionale sceglierebbe di non entrare in o di abbandonare un regime penalizzante = quando i costi opportunità di partecipazione al regime sono più alti di quelli che altre alternative implicherebbero.
TUTTAVIA, nella realtà, problematiche e relazioni si mescolano e si sovrappongono ⇒ i governi appertengono contemporaneamente a più regimi ⇒ per un governo razionale, infrangere le regole di un regime può essere notevolmente penalizzante, dato che i benefici netti nel farlo potrebbero essere (e in generale, lo so) inferiori dei costi. In particolare, i governi si preoccupano molto della già citata reputazione, perché temono che una loro violazione delle regole porti gli altri a violarle a loro volta ⇒ quest’azione, pur producendo un beneficio individuale, produce un “male collettivo”.
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Per motivi di reputazione, così come per il timore di una vendetta e per la creazione di un “precedente”, un governo egoista è portato a rispettare i principi e le regole dei regimi internazionali anche quando i loro interessi miopi li porterebbero a violarli.
Tutte queste idee sono limitate però ad un contesto di tipo tecnico-economico. Si è però cercato di estendere un simile discorso anche ad aree più “tradizionali”, in particolare nell’ambito della sicurezza. Così facendo, la sfida a tutto il paradigma realista sarebbe davvero impressionante, perché si verrebbe a creare una teoria alternativa che, pur partendo dagli stessi assunti realisti, riesce però a spiegare molti più fenomeni, più precisamente sia la cooperazione sia l’assenza di cooperazione.
I risultati, però, non sono stati molto convincenti. Si è infatti ipotizzato che
− una certa fase del Concerto d’Europa, soprattutto il periodo immediatamente dopo il Congresso di Vienna (1815-1822 ca.);
− le fasi immediatamente successive alle 2 Guerre Mondiali (1918-19; 1945-46);
− il controllo degli armamenti,
possano essere visti come dei “regimi di sicurezza”. MA, in generale, è raro che si verifichino dei regimi di sicurezza.
Perché?
Il cheating problem, che può portare al peggiore payoff possibile è un pericolo valido per tutte le aree tematiche delle relazioni internazionali. TUTTAVIA, se l’inganno in caso di tematiche commerciali o economiche ha rischi comunque contenuti (ritorsioni, ritiro, disaccordo), nell’ambito della sicurezza, invece, i rischi derivanti dall’inganno sono molto più alti, dal momento che è in gioco la sopravvivenza stessa dello Stato.
⇓ Questo porterebbe a sostenere la necessità di applicare teorie diverse in base ai diversi ambiti analizzati. In particolare,
− il realismo sarebbe la teoria più adatta a spiegare i fenomeni relativi all’ambito della sicurezza,
mentre
− il liberalismo sarebbe più adatto per i fenomeni di cooperazione e istituzionalizzazione economica.
Nella pratica, però, questa sorta di “divisione del lavoro” è stata duramente respinta da entrambi gli schieramenti.
Nonostante il neoistituzionalismo parta da assunti realisti, Grieco afferma che le conclusioni a cui giungono i neoliberali sono comunque errate.
Secondo i neoliberali, il principale impedimento alla cooperazione tra Stati razionalmente egoisti è il cosiddetto cheating problem; scopo delle istituzioni internazionali è quello di abbattere questa barriera.
L’errore dei neoliberali consiste, secondo Grieco, nel non considerare la questione dei guadagni relativi: poiché gli Stati sono dei “posizionalisti difensivi”, essi nelle situazioni di cooperazione si preoccuperanno non solo di non essere imbrogliati, ma anche che gli altri non guadagnino di più dalla cooperazione.
⇓
Per i realisti esistono 2 barriere alla cooperazione internazionale: il cheating problem e la questione dei guadagni relativi. I neoliberali sbagliano, secondo Grieco, perché essi considerano solo il primo e assumono che gli Stati guardino solo ai guadagni assoluti.
Diversamente dalle precedenti formulazioni dell’istituzionalismo liberale, il neoliberalismo accetta l’assunto realista secondo cui gli Stati sono i principali attori negli affari mondiali e sono agenti unitari razionali. Accetta anche l’enfasi che il realismo pone sull’anarchia per spiegare le motivazioni e le azioni degli Stati.
MA, a differenza del realismo, i neoliberali affermano, come le precedenti formulazioni, che le istituzioni possono aiutare gli Stati a cooperare ⇒ diversamente dai realisti, i neoliberali giungono a conclusioni più ottimiste sulla prospettiva di cooperazione internazionale.
La critica di Grieco ai neoliberali parte dal fatto che, sebbene entrambi partano dagli stessi assunti, tuttavia le prospettive circa gli Stati e l’anarchia differiscono notevolmente, con il risultato che il realismo è in grado di spiegare in modo più completo i problemi della cooperazione.
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