I vestiti futuribili
I modesti risultati estetici del film ci invitano a fare una riflessione a latere su uno degli elementi più controversi della rappresentazione fantascientifica, vale a dire i costumi. Questi ultimi sono stati disegnati da Rob Ringwood, che veniva da un esordio alquanto positivo in Excalibur di John Boorman e che sarebbe poi stato costumista anche per L’impero del sole di Spielberg, il Batman di Tim Burton, fino a Troy di Wolfgang Peterson. Ringwood può essere definito un vero specialista del vestito fantascientifico (si pensi ancora al suo lavoro per Alien 3 di Fincher, ad A.I. di Spielberg, a The Time Machine di Simon Welles).
La fantascienza, infatti, malgrado i limiti epistemologici della sua concezione, fa aggio sulla congetturalità delle prospettive scientifiche; i gap conoscitivi rispetto al controllo e allo sfruttamento di nuove fonti energetiche, ad esempio, possono rendere comunque plausibili i viaggi interstellari. Inoltre, le teorie scientifiche prospettano delle ricadute concettuali e tecnologiche che sono in grado di far intravedere un ventaglio di esperienze che caratterizzeranno il nostro probabile futuro.
Ecco allora che è solo un territorio, apparentemente più marginale e meno decisivo, a risultare di più difficile prospettazione: è il dominio della contingenza pura, quella delle mode. Seguendo questo ragionamento ben si comprende come mentre le tute sono prospettabili sotto l’egida del progresso tecnologico, i vestiti del quotidiano restano in qualche maniera estranei a qualsiasi logica inferenziale, divenendo una sorta di “buco nero” rappresentazionale. In mezzo a queste due classi vestimentarie, si collocano le uniformi: esse creano meno problemi per il costumista di fantascienza solo perché paiono fondarsi su una preservazione della tradizione, visto che quest’ultima è a garanzia della semantica differenziale del ruolo istituzionale ricoperto che rischia di essere sempre in deficit di fondamento.
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