Aprirsi ad arte un cammino d’oltre vita
Aprirsi ad arte un cammino d’oltre vita
Treves riaccompagna nel suo appartamento “ospedaliero” Merrick (401); è molto contento che lo spettacolo sia piaciuto a quest’ultimo, e gli promette che torneranno assieme a teatro. Lo stile un poco formale di Treves contrasta con la forte, ripetuta sottolineatura da parte di John nel rivolgersi al dottore definendolo “mio amico”.
Un movimento di macchina parte dal profilo di Merrick sereno, ma forse già morente sul suo letto, si sposta verso sinistra inquadrando le foto a fianco del letto sul comodino, risale verso il modellino della cattedrale e termina di fronte alla finestra, dove si osservano le tende leg-germente agitate da una brezza. Esse segnalano che la finestra è aperta, siglando una circolazione tra interno e esterno che abbiamo visto negata o in procinto di essere negata per ciò che attiene al corpo di Merrick.
In doppia dissolvenza incrociata si passa all’inquadratura di una volta celeste, zeppa di stelle: il piano di visione progressivamente si rivela in movimento, come si fosse in viaggio tra quegli astri a una velocità favolosa. La fantasmagoria del teatro ha insegnato. È a quel punto che si ascolta la voce della madre di Merrick che denega il trapasso come morte: “Never, never. Nothing can die: The streams flow, the wind blows. The cloud fleets, the heart beats”.
Il finale del film è ad alta complessità semantica. Merrick ha trovato se stesso, ha ottenuto piena dignità d’esistenza e non può chiedere di più (la vita gli ha appena insegnato quanto è precaria la sua nuova condizione). Merrick ha finito il suo modellino, che è poi la sua cattedrale personale, il segno della sua dedizione e della suo poter completare ciò che non è perfezionato: come ha riprodotto il micromondo che vede dalla finestra così vuole incarnare la serenità mai concessa di quel ragazzino che dorme disteso. La sua chiesa, la sua casa, il suo letto. Ciò che sta all’esterno è stato portato dentro la sua casa e ciò che è ridotto a miniatura di un quadro è stato ricondotto alla stessa dimensione, incarnandolo direttamente. Tutto può infine dialogare. L’inescambialità del mostro diviene dialogica e circuita entro ciò che potrà risolversi in una fantasmagoria che finge (modella) un giusto esito, una giusta verità.
Ecco che un finale apparentemente fanciullesco, ingenuo nasconde l’aspirazione di restituire un’immaginazione estrema, quella che ribalta i sintomi corporei del morire in un ragionamento figurale e in un’affermazione d’esistenza che trascendono il corpo alla conquista di una di-mensione dove tra sé e le cose amate non c’è più differenza. li famoso Adagio di Samuel Barber che scorre lungo questa sequenza finale è ciò che costruisce un clima liturgico e sommessamente solenne.
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