Demacchinazione e protesi vestimentarie: l’universo figurativo di Dune
Dune è senz’altro il più grande scacco artistico di David Lynch, sulle cui motivazioni pesano in larga misura le limitazioni imposte dalla produzione (in particolare, da Raffaella de Laurentis - che aveva voluto il giovane regista dopo gli accordi falliti con Ridley Scott -, e da suo padre Dino - che aveva investito ben due milioni di dollari solo per l’acquisizione dei diritti del libro).
Il radicamento del futuro tecnologico e commerciale nell’ecologia autoctona e singolare dei diversi pianeti sparsi nel cosmo, oltre alla suggestione di nomi che sembrano usciti da antiche tradizioni fiabesche arabeggianti, sono aspetti che hanno senz’altro suggerito la costruzione delle scenografie del film sulla scorta di un “futuro archeologico”, di un medioevo fantastico proiettato nell’avvenire. Ora, se certo nuoce al film la caratterizzazione “fumettistica” dei personaggi, ancor più grave è il fatto che tali scenografie risultano infine fantasy.
Il fantasy poggia su una declinazione figurativa il più possibile capricciosa e immaginifica, su vicende avventurose, su tinte accattivanti, su una inclinazione a lasciare i legami residui con il fantastico per accedere al meraviglioso o al fiabesco. Certo, il fantasy è favorito e corroborato da alcuni aspetti fondamentali dell’opera letteraria originaria di Frank Herbert; la sua serialità, la marginalizzazione degli aspetti tecnologici, i racconti miti ci che attraversano e si insediano nella narrazione principale. Tuttavia, il mondo possibile concepito da Herbert e le inclinazioni stilisti che di Lynch avrebbero trovato un punto d’incontro in una rappresentazione più astratta, torbida, sfuggente; l’eroismo del protagonista (Paul Atreides) e il registro enfatico della sua missione avrebbero avuto modo di stemperarsi nell’angoscia del comando; le battaglie tra popoli e le lotte tra i protagonisti avrebbero potuto improvvisamente piegarsi e ritradursi in un teatro di forze interne al corpo, pronte a dissipare dei veleni o a giovarsi di “acque miracolose” (nel libro, il protagonista spesso riesce a guidare una “battaglia intestina” tra fronti contrapposti nel suo stesso corpo).
Va anche detto che le attese che il film aveva suscitato derivavano da una esagerata considerazione del romanzo, spesso additato come capolavoro della fantascienza; indubbiamente, Dune e poi gli altri cinque volumi della stessa saga che ne sono seguiti, costituiscono un vasto progetto che suscita di per sé ammirazione, sia per la dovizia con cui i mondi possibili sono tratteggiati (il lettore ha l’idea di forgiarsi via via una vasta enciclopedia su questo universo fittizio), sia per i lessici annessi e le cartine geografiche che corredano il volume. Il prestigio di Dune è fortemente basato su questa confezione culturalmente ineccepibile, quasi da antropologo del futuro. Per contro, la scrittura di Herbert è piuttosto convenzionale, talvolta ineguale e persino verbosa, fatta di dialoghi fittissimi e di una drammaturgia dell’azione che ricalca gli standard della fantascienza. Resta certo un ottimo esempio di letteratura di genere, ma lontanissimo dalla ricerca estetica di Lynch.
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