3
genere. Penso di aver preso molto naturalmente il linguaggio e le
metafore della fantascienza di quel periodo.
2
Quanto emerge da questo passo è proprio l’ambivalenza di una cultura che
per riuscire a far fronte alla paura di un imminente attacco nucleare e alla
possibilità della distruzione atomica, risponde attingendo da un altro settore
dell’immaginario. Un nucleo differente che possa riportare una speranza di una
nuova belle époque, un modo insomma per creare quello che Blaise Pascal
avrebbe definito il divertissement, utile ad occultare la disperazione del vivere.
Ecco nascere allora un mondo di promesse tecnologiche, di commercio
globalizzato e di pubblicità. Un mondo dove per mezzo di luci e slogan, il potere
della teatrocrazia, che ancora oggi è fortemente presente nella nostra società,
possa fare da contrappeso al timore esistenziale dell’uomo.
Così l’orizzonte mitico risulta ambiguo, sia nella mente degli uomini che
nella penna degli scrittori di fantascienza, i quali ne registrano in immagini le
speranze e i timori. E ancora più interessante è l’accostamento fra le verità
dell’atomo e quelle dell’LSD, che forniranno materiale per molti racconti e
romanzi proprio a Philip Dick. Esse rappresentano appunto il conflitto di quella
duplice esistenza: interna ed esterna, oggettiva e soggettiva, pubblica e privata che
egli non riuscì mai a conciliare, ma sulla quale non smise di indagare
smascherando in entrambe l’apparenza e l’illusorietà. La scienza per quanto
concerneva il velo delle false certezze e false promesse di cui rivestiva il suo
agire, l’LSD per l’impossibilità di sostare all’infinito in un mondo allucinato la
cui unica soluzione sarebbe stata la distruzione del soggetto.
Eccetto casi sporadici, nemmeno la religione sembrava dare più alcun
conforto all’inizio di un’era che avrebbe fatto propria anche la frattura fra
l’immanente e il trascendente, sorta in virtù di quanto più volte lo stesso Paul
Feyerabend aveva indicato come linea di demarcazione: la metodologia del
pensiero scientifico. Anche in tale caso, la fantascienza si fa carico di registrare la
crisi sotto forma di visioni, di incubi dell’inconscio collettivo e di mondi possibili.
Quell’immagine non più umana, ma teoreticamente distorta e proposta in chiave
2
Cfr. Una conferenza in Austria e un’intervista a William Gibson, articolo parte di un ipertesto
interamente dedicato alla cultura e alla letteratura Cyberpunk presente in Decoder. E-rivista
internazionale underground, http://www.decoder.it/. L’articolo in questione è reperibile
all’indirizzo http://www.decoder.it/archivio/shake/decoder/gbsn.htm.
4
scientifica che Feyerabend analizza nella sua opera “Addio alla Ragione”
3
, la
ritroviamo esattamente trasposta nel volto marziano e ieratico che Dick scrutò un
giorno del 1963 fra le nuvole del cielo, come racconta nella sua biografia
Emmanuel Carrère:
Un pomeriggio del novembre 1963 Philip Dick camminava fra i
pascoli che le continue piogge avevano trasformato in pantani. Un
uccello stridette sopra di lui. Alzò gli occhi. C’era un viso nel cielo, al
posto del cielo. Un viso gigante, metallico, orribile che lo guardava,
chino su di lui. Era come se tutto il male del mondo si fosse
concentrato lì. Capì che per tutta la vita aveva avuto paura di vedere
quello che stava vedendo.
4
Tale visone, reale o immaginaria che sia
5
, è tuttavia una testimonianza che ci
riporta al secondo passo che l’umanità ha compiuto nello spodestare Dio dal suo
trono celeste e svestirlo della sua aura di benevolenza e carità. Il primo, come
analizzò a più riprese Feyerabend nei suoi scritti, venne compiuto dalla
speculazione filosofica di Senofane di Colofone, a cui lo stesso Dick confessa di
dovere molto circa la propria visione della divinità. Egli riconosce che la verità
venne rivelata per la prima volta al filosofo ionico nella forma di un essere
superiore all’uomo, dissimile da lui tanto nel corpo quanto nella forma del
pensiero. Un essere supremo alla cui mente spetta governare tutte le cose da una
posizione di immobile ucronia.
Con questa visione di Senofane e con la sua accettazione all’interno della
tradizione, avviene il passaggio dalla divinità Omerica antropomorfa e ancora
comprensibile alla natura umana, che in essa riusciva a rispecchiarsi e a trovare un
anàlogon delle proprie azioni, a quell’immagine indecifrabile che si era svestita
del rapporto con l’uomo andando ad appartenere esclusivamente all’ambito
speculativo e dell’idealità.
3
Per un esaustiva trattazione dell’argomento si consulti anche: Paul Feyerabend, “Senofane”, in
La Conquista dell’Abbondanza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 51-72.
4
Cfr. E. Carrère, Philip Dick. Una biografia, Theoria, Roma 1995, pp. 113-114.
5
L’inciso potrebbe risultare piuttosto ambiguo, se non si considera la forte ironia che Dick mette
sia nei suoi scritti romanzeschi ed anche in quelli di stampo filosofico. Più volte ha asserito di aver
avuto allucinazioni di carattere mistico, o di essere stato coinvolto in esperienze al limite del
credibile. Ebbene, per ogni affermazione che sembra contenere un fondo di verità, ve ne sono altre
che ironicamente la smentiscono. “Ho esaminato la questione attentamente e affermo che è
impossibile avere un’allucinazione: va contro la ragione e il senso comune. Coloro che
sostengono di averne avute, probabilmente mentono. (Io qualcuna ne ho avuta)”. P.K.Dick , “Sarà
mai perfezionata la bomba atomica? E, se sì, che ne sarà di Robert Heilein?”, in Vita breve di uno
scrittore di fantascienza, Feltrinelli, Milano 1997 pag. 69.
5
Oggi la fantascienza dikiana e la corrente del cyberpunk, che ha preso avvio
da alcune tematiche da lui enucleate, registra una notevole laicizzazione del
mondo occidentale e una mancanza di trascendenza nella vita dell’individuo.
Tuttavia, mentre la seconda ignora il problema a livello della sua genesi e si limita
a descriverne il risultato in termini di socialità, Dick tende invece a farne l’oggetto
dei suoi racconti e particolarmente della sua costante riflessione filosofica che li
accompagna. Questa tensione drammatica prende il volto di un principio
ordinatore del cosmo che agisce seguendo le forze attrattive – repulsive di
Odio/Amore secondo la dottrina di Empedocle, nel romanzo escatologico “Ubik”
(1966); oppure nel disperato tentativo di inviare preghiere tramite un cavo neurale
a una possibile divinità cosmica in “Labirinto di Morte” (1968); od ancora nelle
esperienze illusorie e simulacrali della comunicazione televisiva, tramite la
parodia di un Cristo catodico nel famoso romanzo “Gli androidi sognano pecore
elettriche?” (1966). E questi sono solo alcuni degli esempi - forse i più evidenti
collegati al tema - che si possono trovare accostandosi all’opera di Philip K. Dick.
Ma dettata proprio dalla sua personale angoscia e ricerca mistica è la questione
sulla possibilità conoscitiva del reale, sulla possibilità di arrivare a comprendere la
vera realtà che agisce la di sotto delle apparenze del quotidiano o delle illusioni di
potere e del potere della parola. Questo desiderio di trascendenza si concretizza
dunque in primo luogo nell’andare oltre quelli che sono i meccanismi evidenti
della società, tanto nella vita (se diamo ascolto ad alcune pagine dell’Esegesi
6
),
quanto nella sua opera letteraria. Ma l’agognata sovrastruttura cui tende ogni suo
sforzo di ricerca in campo artistico e filosofico è destinata a naufragare come gli
sforzi dei suoi personaggi, a scontrarsi cioè con la sola capacità della mente
umana di districarsi tra le illusioni e i simulacri della vita. Una ragione che è
destinata a continuare a domandare e indagare sempre e solo giungendo a quella
che egli stesso definirebbe “la penultima verità”.
Il principale strumento di cui fa uso per accostarsi alle diverse problematiche
ontologiche, gnoseologiche e mistiche è indubbiamente un ritorno al mito e alla
filosofia classica. Sembra infatti che in tutta la sua produzione egli presenti ogni
6
Il testo a cui Dick lavorò ogni notte negli ultimi anni della sua vita e che sino ad ora non è mai
stato integralmente pubblicato. Di essa fa parte un enorme corpus eterogeneo di oltre tremila
pagine in cui, senza la traccia di un preciso filo conduttore, si vanno mescolando le sue personali
angosce a brillanti intuizioni filosofiche circa una possibile cosmogonia dell’universo. Una parte
notevole è inoltre dedicata a scritti che testimoniano le sue manie persecutorie e la crisi mistica in
cui era incorso.
6
singola esperienza umana legata al sublime contemporaneo
7
e la falsifichi
puntualmente. L’infallibilità della scienza; la fede nelle possibilità del progresso
tecnologico; il tempo; l’immortalità; la possibilità di nuovi mondi come ricerca di
un paradiso perduto (che era stato il filo portante di molta fantascienza degli anni
‘50), la perfettibilità tecnica e persino morale dell’uomo in virtù di una tecnologia
che lo libera dalle costrizioni cui ha dovuto sottostare per secoli. Questi ne sono
solamente alcuni esempi.
Tale falsificazione della realtà condivisa è quella che potremmo definire la
“pars destruens” della sua opera. Vi è poi una “pars costruens”, che sembrerebbe
nel suo sviluppo ancora più terrificante della precedente. Essa consiste infatti nella
creazione di nuovi miti o nel dar nuova voce a quelli che già erano sorti in seguito
all’era industriale. Suo tramite è il ricorso ai pensatori greci, talvolta usato
inconsciamente come egli stesso ammetterà più volte nelle interviste e nelle
conferenze. Fra di essi il maggiore influsso è rivestito dalla filosofia platonica e
plotiniana, benché nell’influenzare i suoi scritti abbiano avuto forti ascendenze
anche pensatori dell’epoca moderna quali Spinoza, Leibniz, Kant e Marx..
Ma la nuova mitologia di cui si fa interprete è fatta di rovine e macerie, di
polveri perenni che aleggiano attorno alla Terra oscurandone il cielo e rendendone
irrespirabile l’aria, come nel caso di “Modello Due” (1952), dove un disastro
atomico ha causato la necessaria emigrazione dal pianeta di tutte e due le fazioni
che lo avevano causato: l’America e la Russia. E non solo qui il terrore della
guerra fredda, che allora imperversava nel mondo reale, influisce sul suo universo
di fantasia. Quasi grottescamente umoristico in alcuni tratti è il caso de “Il
Sognatore d’Armi” (1963), che mostra proprio la corsa agli armamenti, i quali si
presentano nelle fogge più avveniristiche e futuribili, progettati da telepati ed
esseri precognitivi. Diametralmente all’opposto abbiamo invece il racconto
“Foster, Sei Morto” (1953), dove la minaccia atomica si rivela per quello che è o
potrebbe essere: solo l’ultimo dei miti, una grande beffa sfruttata dal potere
economico e dalle leggi del mercato.
Ma a Philip K. Dick si deve soprattutto lo studio, se così lo possiamo definire,
della figura dell’androide. Anch’esso personaggio mitico, la cui storia si sviluppa
attraverso la figura greca del minotauro, alla creatura del dottor Frankenstein di
Mary Shelley (1818) e al più recente robot asimoviano. Ciò che però riesce a fare
7
Si veda a questo proposito: Carlo Formenti, “La penultima Verità”, in Dentro la Matrice.
Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix, Albo Versorio, Milano 2004, pp. 241-247.
7
Dick è dare all’androide la connotazione di linea di demarcazione tra uomo e
macchina, tra sanità mentale e dissociazione psichica. La sua indagine verte
primariamente sulla seconda questione che lo ha animato nella scrittura sin dagli
esordi con il racconto “L’impostore” (1953): “cosa vuol dire essere umano?”.
Da quanto detto, sembrerebbe che Dick sia solamente un autore disincantato
riguardo la realtà americana dell’epoca e disilluso rispetto ai miti che hanno da
sempre guidato l’umanità e che oggi si possono percepire con rinnovato vigore in
una società in via di sviluppo. Ma non è così. La sua disperazione in senso
pascaliano nei confronti della vita e la sua travagliata ricerca personale, sono
sempre pervase da un fondo di speranza. Tutto lo sforzo letterario e filosofico
compiuto da Dick sembra avere lo scopo di rendere platonicamente consapevoli
gli uomini - e primariamente se stesso - di alcune possibilità a cui l’umanità può
andare incontro, ma che non necessariamente costituiranno il suo futuro. Come
recita il titolo dello scritto di Fabrizio Chiappetti
8
le sue sono “visioni dal futuro”,
ma come insegnano i profeti della Grecia classica, ci sono espiazioni e sacrifici
che possono evitarle o che possono portare i nostri errori a emendamento. Tutto
sta nel riuscire a trovare quali siano le nostre libagioni, che non devono più essere
rivolte alla divinità, ma al cuore dell’essere umano. Anche in questo caso emerge
la grande fede dell’autore: la costante speranza di un futuro migliore di quelli che
va descrivendo. La possibilità di cambiare le cose e rendere inconsistenti le sue
preoccupazioni è demandata ai bambini, gli adulti del futuro.
Ebbene, io posso dire questo: Dio la benedica. Lunga vita a lei e morte
alla Coca-Cola Company, alla compagnia dei telefoni e compagnia bella –
con i loro scanner ad infrarossi, mirini telescopici e tutto il resto. Metallo,
pietra, cavi e fili non potranno mai vivere. Ma lei e i suoi amici, loro, il
nostro futuro, sono il nostro piccolo canto
9
.
E poi ancora:
Osservo i bambini guardare la TV e, d’acchito, temo per quello che
possono imparare, dopodiché mi rendo conto che non possono essere corrotti
o distrutti. Essi osservano, ascoltano, capiscono, e poi, nel luogo e nel
momento giusto, rifiutano. C’è qualcosa di straordinariamente potente nella
8
Fabrizio Chiappetti, Visioni dal Futuro. Il caso di Philip K. Dick, Fara Editore, Santarcangelo di
Romagna 2000.
9
“L’androide e l’umano”, in Se vi pare che questo mondo sia brutto, Feltrinelli, Milano 1997, p.
37.
8
capacità dei bambini di resistere agli imbrogli. I bambini hanno l’occhio
vispo ed il polso fermo. […] Un bambino di questi tempi è in grado di
smascherare una menzogna molto più rapidamente dell’adulto più saggio di
vent’anni fa.
10
La filosofia e la mitologia da cui Philip Dick attinge, e quella che egli stesso
contribuisce a creare tramite l’uso della favola e del romanzo, ha come impulso il
tentativo di capire come ricucire quello strappo tra ciò che è, ciò che dovrebbe
essere e ciò che crediamo sia la nostra realtà. Ritrovare il contatto con il mito è
anche ritrovare un legame con il nostro spazio interiore, a cui egli dedicò molti dei
suoi romanzi più intensi.
Ma come nella teologia negativa di matrice medievale, così neppure lui riesce
a dare risposta diretta alla materia su cui verte la sua incessante domanda: “cos’è
l’uomo?”, “cos’è reale?” e come i medievali può solo descrivere ciò che non è,
trasfigurando situazioni presenti ed instillando il dubbio circa i nostri
comportamenti futuri, per cercare di descrivere quella che dovrebbe essere la sua
essenza particolare: l’empaty, quel sentimento di comunanza che caratterizza
l’uomo prima ancora di poterlo definire aristotelicamente come zoòn politicòn, e
che sta alla base di ciò che siamo e della differenza uomo – macchina, il nostro
corrispettivo simulacrale, l’androide.
Questo lavoro vuole indagare in primo luogo se e in che modo Philip Dick
possa essere considerato un filosofo oltre che uno scrittore. Ciò avverrà tramite
l’analisi del termine “filosofia” e delle modalità con cui alcuni pensatori
contemporanei definiscono i filosofi. Analizzeremo inoltre se non sia il caso, al
contrario, di ascrivere la riflessione che svolge alla semplice definizione di
“letterato impegnato” o engagé.
In seguito ci concentreremo su quelle che possono essere le sue fonti
nell’ambito della Grecia e della Classicità, quelle cioè che plausibilmente hanno
maggiormente influenzato il suo pensiero da un lato e il suo modo di concepire lo
strumento narrativo come veicolo di idee dall’altro. Per fare questo sarà
necessario comprendere lo stretto rapporto che Philip Dick intrattiene con la
parola: quella scritta, come parte del costrutto narrativo e quella poetica, che si
incontra nei suoi romanzi come fonte di mitopoiesi e mattone di realtà.
10
“Come costruire un universo che non cada a pezzi in due giorni”, in Se vi pare che questo
mondo sia brutto, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 119-120.
9
Lo scopo in definitiva è quello di mostrare la stretta parentela del mondo
mitico con il mondo fantascientifico cercando di porre in evidenza i passaggi, i
nuclei e i nodi del pensiero antico che, nel trascorre del tempo, si sono modificati
nelle forme, facendosi tuttavia carico delle medesime istanze attraverso i secoli. E
allora, come direbbe lo stesso Dick, potremmo pensare che il tempo sia andato
avanti solo nella forma, ma sia rimasto bloccato contenutisticamente in un punto
imprecisato del nostro passato per quanto riguarda i bisogni e la sfera umana, di
cui possiamo vederne solo alcuni frammenti fra le pieghe del presente.
Il tempo fugge. Verso dove? Forse duemila anni fa ci è stato
rivelato. O forse non era così tanto tempo fa: forse è solo un’illusione
che sia passato tanto. Forse è stato una settimana fa, o addirittura oggi
stesso, poco fa. Forse il tempo non sta solo fuggendo: sta finendo.
11
11
Ibid.