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Le forme del Tremendo. Per una diabologia in senso estetologico

La tesi raccoglie lo spunto e l'augurio del poliedrico intellettuale Giovanni Papini (1953) che possa darsi un tipo di archeologia di stampo confessionale del testo biblico e della letteratura esegetica, definita dall'autore 'diabologia', la quale dovrebbe rispondere alle domande:
(1) chi o cosa è il diavolo giudaico-cristiano?
(2) Qual è il suo rapporto con il sacro (con Dio e con la sua incarnazione)?
Il nostro discorso è interessato alla questione, ma ne sposta il baricentro: dove si potrebbe dare una diabologia con autonomismi importanti se non nell'analisi estetologica e fenomenologica di ciò che si dà a vedere, ovverosia del diavolo figurale?
La domanda che si può fare è pertanto: cosa è detto nelle rappresentazioni del Diavolo? Interrogando a tal fine il campo delle rappresentazioni terribili e terrifiche – definite così in base a una chiarificazione tecnica – come le raffigurazioni colossali dei giudizi universali medievali e tardomedievali; e tenendo bene a mente la necessità di risalire alla genealogia dei dispositivi teologali e di confrontare il diavolo della teologia con quello per così dire artistico.
La scommessa è che solo estetologicamente – e fenomenologicamente – noi siamo in grado di leggerne i costituenti morfologici, di risalire al tessuto proiettivo, di purificarne la visione.
La struttura del lavoro è suddivisa in due parti, per un totale di diciannove capitoli. Nella prima sono affrontati importanti studi sulla rappresentazione del Diavolo e del demoniaco. In tale sede si danno dei punti di partenza tematici, dei campi di sviluppo discorsivo paradigmatici, grazie al contributo di autori come Enrico Castelli, Karl Rosenkranz, Daniel Arasse, Pierre Francastel, André Chastel, Hans Sedlmayr. In genere gli autori si riferiscono a particolari momenti della raffigurazione artistica, per tentare intrecci con aspetti dottrinali e teologali o anche più audacemente azzardando una propria diabologia, un bisogno di affrontare la domanda elementare "chi o cosa è il diavolo occidentale".
Nella seconda parte – che costituisce il cuore del lavoro – viene trattato il concetto di Tremendo come protologia esteto-fenomenologica di ogni diabologia. Vengono individuate due fonti principali esteto-fenomenologiche di espressione del diavolo figurale: la prima esprime l'esperienza del sacro potenzialmente distruttiva nei confronti dell'identità fenomenica; la seconda, l'ibridazione uomo-animale. Ognuna di queste ricade in un orizzonte pieno e allargato del concetto di Tremendo che assume qui il termine di tremendologia e che racchiude la dimensione del sacro potenziato e dell'animalità di ciò che è vivente.
Viene dunque messo a confronto il concetto di Tremendum nella fenomenologia del sacro di Rudolf Otto e di Castelli, avendo come fine una personale elaborazione delle categorie estetiche e fenomenologiche del Tremendo, con l'ausilio altresì dell'esposizione di tre casi studio: lo Ši'ur Qomah, ovvero il libro delle misure di Dio che Gershom Scholem definisce come "un grande enigma della mistica ebraica di cui non ci è neppure chiaro il suo scopo"; la mistica dell'orrore indiana presente nel Devīmāhātmya, testo in cui si assiste alla progressione delle forme terrifiche partorite dalla dea hindu; il grande affresco parietale della visione infernale di Santa Francesca Romana presente in una nicchia dell'oratorio del monastero delle oblate a Roma – basato sulle sue confessioni trascritte.
L'argomentazione prosegue nel tentativo di sondare il secondo aspetto del Tremendo che risponde al concetto di Vivente, di come questo ricada già nelle rappresentazioni sacrali e di come l'uomo vi partecipi, qui con il supporto di discipline a cavallo tra biologia e scienze umanistiche come l'etologia culturale di Irenäus Eibl-Eibesfeldt e l'etologia filosofica di Roberto Marchesini.
Nella conclusione si apre un lungo confronto con il Carl Gustav Jung fenomenologo riportando altri due casi studio relativi ai due metodi di lavoro fenomenologico prima ancora che psicologico della (1) funzione trascendente e (2) dell'immaginazione attiva, riguardo al diavolo figurale: Abraxas e il suo valore analogico del primo metodo; il cavaliere rosso, come il diavolo-gioia nell'orizzonte esperienziale personale dello stesso Jung, in quanto frutto della seconda metodologia.

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v Premessa Una delle più diffuse considerazioni – tra quelle sofisticate – su ciò che la figura del diavolo occidentale possa rappresentare mette in contrapposizione la paraetimologia del suo nominativo greco – diábolos – con un altro termine greco: symbolon. La radice verbale è la stessa: bállo, ossia ‘getto’, ‘inserisco’, ‘metto’. Pertanto, mentre alla lettera symbállo vuol dire effettivamente ‘riunisco’, ‘metto insieme’, secondo la forzatura della paraetimologia di diabállo, questo vorrebbe dire l’esatto opposto, e con ciò ‘disunisco’, addirittura – sovrastimandone la portata – ‘separo’, ‘divido’. È un tentativo di spiegazione divenuto quasi un classico, persino studiosi del calibro di Daniel Arasse e altri ancora 1 si fanno abbagliare dalla presunta specularità e omogeneità di tale raffronto. Sennonché diabállo voglia dire letteralmente: ‘getto tra (le parti)’, e figuratamente: ‘getto o metto discordia tra le parti’ (un minimo di due, ovverosia parti che sono già separate). Il termine trova utilizzo in ambito giuridico – le parti giuridiche ben si apprestano a misurare posizioni contendenti – e sta a significare un tipo di accusa infamante, volta allo screditare; in senso stretto è relato dunque all’azione del calunniare. In greco un altro termine ancora è usato per definire l’accusa ed è katēgoréo, un tipo di accusa neutrale, che può benissimo essere fondata, è ‘l’imputare una colpa’, mentre in diabállo tale accusa si taccia almeno apparentemente in quanto infondata. È forse curioso riportare che Socrate nella sua drammatica apologia si riferiva alle infamie col termine diabolai (Plato, Apol. 37b). Il diábolos cristiano, in senso letterale, è dunque colui che mette discordia e zizzania, in un senso derivato dall’omonima parabola della zizzania (Mt 13, 24-30), un’erbaccia infestante che ostacola la crescita del grano, ma che sorprendentemente non si può estirpare, dal momento che le piante del buon grano rischierebbero di essere coinvolte anzitempo nell’eradicazione. Solo al momento della mietitura si può separare l’erba buona da quella cattiva, improduttiva, così com’era infestante nel terreno della coltura. L’aggettivo sostantivato ebraico Satán allo stesso modo ha principalmente due accezioni: ‘avversario’, ‘accusatore’, e purtroppo sarà sconcertante portare alla luce il fatto che nella fase anteriore dello jahvismo, testimoniata dalle scritture canoniche, l’aggettivo 1 Scrive Arasse in nota: «Il termine “diavolo” proviene dal greco diabolos, “che separa”, da dia-ballein, “separare, disunire”, all’opposto della parola simbolo, che viene da sum-ballein, “mettere insieme, riunire, armonizzare”. Cfr. su questo argomento le osservazioni di Claude Reichler, La diabolie. La séduction, la renardie, l’écriture, Éditions de minuit, Paris 1979, pp. 10 sgg. Nel nostro saggio non possiamo affrontare le modalità attraverso le quali si rivelano la “disarmonia” e la forza separatrice legate alla figura tradizionale del diavolo composito» D. Arasse, Le portrait du Diable, trad. it., Il ritratto del Diavolo, Nottetempo, Roma 2012, p. 59, nota 19.

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filosofia delle religioni
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