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Premessa
Una delle più diffuse considerazioni – tra quelle sofisticate – su ciò che la figura del diavolo
occidentale possa rappresentare mette in contrapposizione la paraetimologia del suo nominativo
greco – diábolos – con un altro termine greco: symbolon. La radice verbale è la stessa: bállo, ossia
‘getto’, ‘inserisco’, ‘metto’. Pertanto, mentre alla lettera symbállo vuol dire effettivamente ‘riunisco’,
‘metto insieme’, secondo la forzatura della paraetimologia di diabállo, questo vorrebbe dire l’esatto
opposto, e con ciò ‘disunisco’, addirittura – sovrastimandone la portata – ‘separo’, ‘divido’. È un
tentativo di spiegazione divenuto quasi un classico, persino studiosi del calibro di Daniel Arasse e
altri ancora
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si fanno abbagliare dalla presunta specularità e omogeneità di tale raffronto. Sennonché
diabállo voglia dire letteralmente: ‘getto tra (le parti)’, e figuratamente: ‘getto o metto discordia tra
le parti’ (un minimo di due, ovverosia parti che sono già separate).
Il termine trova utilizzo in ambito giuridico – le parti giuridiche ben si apprestano a misurare
posizioni contendenti – e sta a significare un tipo di accusa infamante, volta allo screditare; in senso
stretto è relato dunque all’azione del calunniare. In greco un altro termine ancora è usato per definire
l’accusa ed è katēgoréo, un tipo di accusa neutrale, che può benissimo essere fondata, è ‘l’imputare
una colpa’, mentre in diabállo tale accusa si taccia almeno apparentemente in quanto infondata. È
forse curioso riportare che Socrate nella sua drammatica apologia si riferiva alle infamie col termine
diabolai (Plato, Apol. 37b).
Il diábolos cristiano, in senso letterale, è dunque colui che mette discordia e zizzania, in un
senso derivato dall’omonima parabola della zizzania (Mt 13, 24-30), un’erbaccia infestante che
ostacola la crescita del grano, ma che sorprendentemente non si può estirpare, dal momento che le
piante del buon grano rischierebbero di essere coinvolte anzitempo nell’eradicazione. Solo al
momento della mietitura si può separare l’erba buona da quella cattiva, improduttiva, così com’era
infestante nel terreno della coltura. L’aggettivo sostantivato ebraico Satán allo stesso modo ha
principalmente due accezioni: ‘avversario’, ‘accusatore’, e purtroppo sarà sconcertante portare alla
luce il fatto che nella fase anteriore dello jahvismo, testimoniata dalle scritture canoniche, l’aggettivo
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Scrive Arasse in nota: «Il termine “diavolo” proviene dal greco diabolos, “che separa”, da dia-ballein, “separare,
disunire”, all’opposto della parola simbolo, che viene da sum-ballein, “mettere insieme, riunire, armonizzare”. Cfr. su
questo argomento le osservazioni di Claude Reichler, La diabolie. La séduction, la renardie, l’écriture, Éditions de
minuit, Paris 1979, pp. 10 sgg. Nel nostro saggio non possiamo affrontare le modalità attraverso le quali si rivelano la
“disarmonia” e la forza separatrice legate alla figura tradizionale del diavolo composito» D. Arasse, Le portrait du Diable,
trad. it., Il ritratto del Diavolo, Nottetempo, Roma 2012, p. 59, nota 19.
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semplice satán poteva essere attribuito ad Adonai stesso (2 Sam 24:1) o al suo angelo personale (Nu
22:22).
Tale interpretazione pregiudiziata non tiene neppure conto di un fatto in aperto dissidio con
quanto vorrebbe indicare: lo stesso termine symbállo ha una sua accezione di aperta ostilità, può stare
infatti a significare ‘spingo l’uno verso l’altro’, ‘faccio azzuffare’, assieme al sostantivo pólemon si
produceva la locuzione del ‘venire alle ostilità’, ‘l’appiccare una guerra’; allo stesso modo symbolḗ
vuol dire ‘incontro’, ma può volere dire anche ‘scontro’.
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Dunque mai e poi mai i due termini possono
trovarsi sullo stesso piano in endiadi, a simboleggiare una simmetria, e – ben più rilevante – al
diábolos viene arrogato un “potere” più vasto di quello che effettivamente vuole significare, a partire
dal suo etimo.
Enrico Castelli, raffinato cultore della materia, nel suo Il demoniaco nell’Arte – i cui temi
toccheremo da vicino – menziona en passant una soluzione del presunto parallelismo: l’esser
maschera del Diavolo – Castelli ha in mente le “maschere” dei personaggi bosciani – dovrebbe
collocarlo esso stesso su di un piano simbolico. Sennonché il symbolon è un medium che il diavolo
infesta tortuosamente. Il diavolo non può essere simbolo perché il suo esser maschera è in realtà
rintanato in una sovrapposizione altamente dissimulata, esso è «maschera della maschera», il che
rende il primo mascheramento – la maschera in senso comune – un vero e proprio raggiro. Il diavolo
nel simbolo vi penetra come interpolazione per assimilazione, camaleontismo e nascondimento di sé
per contro-attaccare o per intrappolare definitivamente, decostituisce il simbolizzare, è l’operatore
del mancato nesso, che viene così esteso e dilazionato all’infinito. Impedisce in tal malfazione il
costituirsi stesso del nesso rappresentativo e concettivo del simbolo, porta – e invita – a un «capire»
il dettaglio nella sua parcellizzazione senza però poi farne «comprendere» l’intero quadro. In tal modo
amplificherebbe la separazione laddove si prospetta la congiunzione. È un comportamento articolato
e che soggiace invero a una preesistente separatezza. Questo è soltanto uno dei notevoli spunti
castelliani.
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Doverosa premessa e considerazione preliminare che ben sintetizza l’impazzare del tessuto proiettivo
allorquando di parla di diavolo e demonio anche negli alti strali della ricerca mito-storiografica o di
quella simbologica. Ciò che emergerà nello scritto, soprattutto durante la prima parte, è una tendenza
a fornire una propria diabologia da parte di chi ne affronta il tema, un bisogno di affrontare la
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Il symbolon anticamente designava la ricomposizione di un oggetto spezzato in due per rimemorare un legame
suggellato, fatto che poteva essere utile in quanto soltanto la parte spezzata può combaciare con l’altra, il simbolo stava
dunque a testimoniare e a documentare un’antica alleanza di vario genere. In seguito è diventato un contrassegno di
identificazione e di riconoscimento che veniva esibito come lasciapassare.
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domanda elementare “chi o cosa è il diavolo occidentale”, nell’ampio spettro delle sue
rappresentazioni, da quelle teologali a quelle artistiche, o anche relativamente ad aspetti isolati. Il
teologo e presbitero cattolico Herbert Haag parla di satanologia nella stessa accezione in cui si parla
di cristologia, intendendo con ciò correttamente e coerentemente un discorso intorno a quanto emerge
dalle scritture; una satanologia è indubbiamente presente in Paolo, così come nei vangeli, in realtà la
maggior parte degli esegeti cristiani ha una loro satanologia, probabilmente non esiste neppure una
agiografia senza una satanologia, ma su tali aspetti è bene non soffermarsi nelle considerazioni
preliminari.
Nella metà del secolo scorso, in Italia, il fine e poliedrico intellettuale Giovanni Papini ha
incuriosito l’élite culturale vicina al cattolicesimo con la sua proposta di diabologia, nel suo Il
Diavolo. Appunti per una futura diabologia. Egli si augura un domani, vista la mole necessaria di
studio e anche di applicazione speculativa, che possa darsi in futuro una summa diabologica, che
raccolga i suoi spunti e che compia l’archeologia secondo il sentiero indicato, nello sforzo di
comprendere in cosa consista la relazione tra Dio e il Diavolo, così come tra l’Uomo-Dio e di nuovo
esso
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. Si tratta di uno scritto dalla lettura scorrevole, abbastanza arguto, dalla finissima prosa, dai
capitoletti narrati e dotti al tempo stesso. Gustosi. Un testo d’amore cristiano, in cui Papini non si
trova solo, più che controbattere la visione speculativa come emerge per l’appunto dalla satanologia
cristiana, che anzi fa riemergere o che comunque ripone sotto l’attenzione del lettore, si oppone contro
la visione corrente del Diavolo, mettiamoci dentro anche quella artistica di vecchio stampo, il
demonizzare appieno la sua figura.
Il nodo, il suo, ma non solo suo, è che la teodicea cristiana non soltanto arruola in via centrale
il Diavolo, ma si sostanzia della figura del Diavolo (vedremo che la letteratura apocalittica, sorta nel
giudaismo, media tra giudaismo stesso e cristianesimo in questo). Il braccio misericordioso teso dal
senso di agápē cristiana di Papini è più che altro dovuto alla sua figura angelica, alla disgrazia
intercorsa a causa della perdita della gloria, a tutto il mito di fondazione incredibilmente secolarizzato
che fa di lui addirittura il primo angelo creato, lo specchio della creazione e il segno dell’assoluta
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Scrive Papini: «La Demonologia attrae con quella congerie di documenti e di aneddoti gli amatori della psicologia
umana e soprattutto i dilettanti dell’orrido pittoresco, ma poco o nulla ci dice intorno al problema delle origini e della
sorte di Satana.
La Diabologia, invece, lascia volutamente in disparte tutte le curiosità romanzesche o romanzate intorno alle arti
magiche e alle ossessioni sataniche, per rivolgere la sua attenzione al terribile protagonista che Dio fece precipitare dal
cielo sulla terra. La Diabologia vuole scandagliare in che consiste l’anima e la colpa di Satana, quali furono le cause della
sua caduta, quali le sue relazioni col Creatore e con l’Uomo-Dio, quali sono state le sue incarnazioni e le sue operazioni,
quel che si può comprendere della sua potenza attuale e della sua sorte futura. La Diabologia si distingue dalla
Demonologia perché, in quel pauroso dramma ch’è la vita dell’uomo, si propone di conoscere a fondo uno degli Autori
del dramma e non già le gesta delle sue subalterne comparse.» G. Papini, Il Diavolo. Appunti per una futura diabologia,
Vallecchi Editore, Firenze 1953-1969, pp. 24-25.
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libertà che Dio infonde ai suoi figli. In questo Papini ci tiene nello scindere diabologia e demonologia,
semplicemente per via dello statuto superiore che si attribuisce all’angelo caduto per eccellenza e per
via della letteratura che lo coinvolge – pertanto, alla sua ruolistica. Il Diavolo papiniano è a cavallo
tra l’esser nemico – e, da cristiano, è per l’autore tale – e l’esser destinato alla sconfitta, l’ultimo degli
ultimi, il più penalizzato tra i figli di Dio. Salvare lui vuol dire salvarci dal suo odio, amare la
riconciliazione stessa. Il suo disegno di prospettare una diabologia accanto a una teologia è una
proposta certamente singolare, una proposta combattuta entro una trincea sopra cui, in superficie,
sulla soglia dei fuochi incrociati, da una parte vi è una lacuna, dall’altra esasperazione, dall’altra
ancora visioni teologali straordinariamente acute e abbandonate – così come è abbandonato
l’indirizzo gnostico cristiano – si pensa alla dottrina origeniana dell’apocatastasi – l’assoluzione
plenaria alla fine dei tempi di ogni creatura di Dio, angeli demonizzati compresi – bollata come eresia
nel Concilio di Costantinopoli del 553. Conflitto del tutto cristiano romano tra ciò che è dogma e ciò
che non è dogma.
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***
Dove si potrebbe dare una diabologia con autonomismi importanti, se non nell’analisi estetologica e
fenomenologica di ciò che si dà a vedere, di ciò che è di lui documentato? (Posto che una tale indagine
senza ricorso alla genealogia dei dispositivi teologali sarebbe pressoché impossibile). Lo sguardo
estetologico integra e si isola pure da questo aspetto e vincolo, il rischio sarebbe infatti quello di
cadere nel teologumeno: sorprendentemente più di uno studioso chiamato a dialogare intorno a questo
tema difatti cade nella disparità di giudizio, in un far soccombere l’analisi estetologica alle verità di
fede, oppure al farsi condizionare da metafisismi, come vedremo.
Di qui la nostra scommessa.
La scommessa è che solo estetologicamente – e fenomenologicamente – noi siamo in grado di
leggerne i costituenti, di risalire al tessuto proiettivo, di ridurre persino la sua portata, di chiarificarne
la visione. La domanda che si può fare è pertanto cosa è detto nelle rappresentazioni del Diavolo? (e
poi quali interrogare?). Il campo prediletto è quello delle rappresentazioni terribili e terrifiche, quelle
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«Mi sono proposto, soprattutto, guidato da un senso di carità e di misericordia, di studiare, liberandomi da pregiudizi e
prevenzioni, i seguenti problemi: le vere cause della ribellione di Lucifero (che non sono quelle comunemente credute); i
veri rapporti tra Dio e il Diavolo (molto più cordiali di quel che s'immagina); la possibilità del tentativo da parte degli
uomini di far tornare Satana al suo primo stato liberando noi tutti dalla tentazione del male. Per quanto riguarda i due
primi problemi ho sempre cercato di appoggiare le mie osservazioni con testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, di
Padri della Chiesa, di filosofi e scrittori cristiani. Per quel che riguarda l'ultimo problema mi sono contentato di accennare
a congetture e speranze che, pur non essendo confermate da prove dommatiche, mi sembrano in perfetta armonia con la
concezione di un Dio definito come assoluto Amore [corsivo mio n.d.r.].» Ivi, p. 8.
E ancora: «La caduta degli angeli ribelli e l’influsso di Satana nella vita umana non possono propriamente esser detti
dogmi ma son pure verità di fede, connesse col dogma del peccato originale. E siccome il Diavolo ha, secondo gli stessi
teologi, assai più parte nelle cose del mondo e dello spirito umano, che di solito non si creda, non dovrebbe sembrare
incongruo e impertinente il tentativo di creare, accanto alla Teologia, una Diabologia.» Ivi, p. 23.
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ben rappresentate dalle raffigurazioni colossali dei giudizi universali medievali e tardomedievali e
dalle rappresentazioni derivate (come le visioni dell’inferno dei santi cristiani). Sennonché, per
contestualizzare queste sia genealogicamente che rappresentativamente, si dovrà attingere anche a
rappresentazioni letterarie – confacenti al sacro – riunendo diversi campi, dall’iconografia e
iconologia alla scrittura sacra, dalla fenomenologia del sacro fino addirittura all’etologia culturale.
La linea guida che lega il trasvolo interdisciplinare è la lettura della rappresentazione, così come
l’estrazione di concetti funzionali che emergono dalle interpretazioni e lezioni proposte da eminenti
studiosi.