La crisi politico-istituzionale in Italia - fine XIX sec.-
Negli ultimi anni del XIX secolo, l’Italia fu teatro di una crisi politico-istituzionale paragonabile a quella vissuta dalla Francia, più o meno nello stesso periodo, intorno al caso Dreyfus, o a quella attraversata dall’Inghilterra una decina d’anni dopo con lo scontro tra Lords e Camera dei Comuni. Anche in Italia lo scontro si concluse con un’affermazione delle forze progressiste, un’affermazione non completa nè definitiva ma sufficiente a far evolvere la vita del paese che conosceva allora una fase di intenso sviluppo industriale. Negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi (marzo 1896) e il ritorno al potere di Rudinì, si delineò tra le forze conservatrici, già divisi sulla politica estera e sulle questioni coloniali, la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minaccie portate all’ordine costituito dai “nemici delle istituzioni”. La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane, provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti in seguito alla guerra di Cuba, fece scoppiare in tutto il Paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo fu durissima. Anzichè ridurre il dazio sul grano, Rudinì si comportò come se dovesse fronteggiare un complotto rivoluzionario: Prima massicci interventi della polizia, quindi proclamazione dello stato d’assedio con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari. La repressione raggiunse il culmine a Milano nelle giornate dell’8 e 9 Maggio, quando le truppe del generale Bava Beccaris fecero uso dell’artiglieria contro la folla inerme, provocando circa 100 morti e 500 feriti. Capi socialisti, repubblicani e radicali furono arrestati e condannati a pene severissime (Turati ebbe 12 anni di carcere, sotto l’accusa falsa e pretestuosa di aver organizzato e diretto le agitazioni). Una volta riportato l’ordine nel paese, i gruppi moderati e conservatori, che detenevano la maggioranza alla Camera e godevano dell’appoggio del Re, cercarono di dare una base legislativa all’azione repressiva dei poteri pubblici. Caduto un primo progetto presentato da Rudinì, che dovette dimettersi nel Giugno 1898 per contrasti col Re e per dissensi interni alla compagine di governo, il tentativo fu ripreso dal suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux. Ma alla presentazione da parte di Pelloux di un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e le stesse libertà di stampa e di associazione, i gruppi di estrema sinistra risposero mettendo in atto la tecnica dell’ostruzionismo, consistente nel prolungare all’infinito le discussioni, paralizzando così l’azione della maggioranza. Incapace di venire a capo dell’ostruzionismo, Pelloux decise infine di sciogliere la camera, sperando in un risultato elettorale che suonasse appoggio alla sua politica, ma nelle elezioni che si tennero nel giugno 1900, lo schieramento governativo perse parecchi seggi. Il presidente del Consiglio, pur potendo ancora contare su un’esigua maggioranza, preferì a questo punto dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento di quella politica repressiva che l’aveva visto tra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 Luglio 1900, il Re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del 1898.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Marco Cappuccini
[Visita la sua tesi: "La comunicazione commerciale, ovvero come battere Berlusconi alle prossime elezioni"]
- Facoltà: Scienze della Comunicazione
- Esame: Storia contemporanea
- Docente: Adriana Roccucci
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