Allattamento nella tradizione islamica
Una riflessione a parte poi merita l’allattamento che nella tradizione islamica riveste un ruolo fondamentale in quanto esso è considerato baraka cioè benedizione divina.l’ allattamento ha quindi un forte valore nutritivo ma anche simbolico visto che è prescritto dal corano per almeno due anni. Ma non solo; esso ha significato simbolico anche perché è legato allo sperma. C’è infatti la convinzione che essi siano profondante legati e che il latte sia una trasformazione dello sperma anche se non è considerabile prodotto diretto dello stesso. Pertanto se la donna è di nuovo incinta non può allattare e quel latte viene chiamato il latte della gelosia (del feto).infine il latte ha l’enorme potere di legare le famiglie: attraverso il latte la madre può decidere con fare o non fare alleanze perché se lei allatterà un figlio non suo esso sarà per sempre fratello o sorella di latte a tutti gli effetti degli altri figli della donna. Il latte può quindi rafforzare o distruggere legami sociali creando oppure no nuovi vincoli di parentela. Le forme di protezione magico-religiosa usate dalle donne marocchine e magrebine in generale riguardano la medicina tradizionale basata sul principio di alternanza caldo-freddo ma anche su fattori magici o religiosi come la lettura delle sure del corano che oltre a proteggere il piccolo dal malocchio lo addormentano e rilassano fungendo da ninna nanna. Ma anche le placche d’oro con scritti i versetti o la mano di fatima. All’interno dell’universo femminile immigrato dallo stesso paese, il Marocco, si notano comunque delle differenze: alcune donne sono più attente all’alimentazione altre alla religione, se quelle giovani non possiedono molte conoscenze circa i saperi allevanti e preferiscono affidarsi alle cure della medicina occidentale vista come più scientifica le donne più mature preferiscono affidarsi ai saperi tradizionali che conoscono molto bene. Ancora altre differenze possono riscontrarsi tra le donne con un livello di studi superiori che spesso tendono a staccarsi da certe credenze che ai loro occhi le rendono premoderne mentre vorrebbero essere più “cittadine” ma allo stesso tempo questo può non essere vero. In molti altri casi sono proprio le donne che hanno studiato di più a voler recuperare il senso delle proprie tradizioni così indossano l’ hijab che nel loro paese non avrebbero mai messo solo per sottolineare la loro appartenenza diversa o ricercano per lo stesso motivo le pratiche di protezione magica, oppure viene riscoperto il senso estetico dell’hennè. La dimensione simbolica delle pratiche fa parte integrante dei valori perché è nelle forme di ritualità quotidiana che si trasmettono e hanno valore le cure materne la ritualità che la cultura occidentale relega in una dimensione pre-moderna come fosse in di più è ancora fondamentale per molte donne immigrate che da loro possibilità di restituire senso al proprio ciclo di vita, alla propria identità. Ma la cosa non è così limpida: l’accettazione dei ritmi lavorativi, dell’abbigliamento e del tempo libero ricalca stili di vita urbana e occidentale nella famiglia il ruolo femminile si addensa della necessità di rifarsi alla tradizione e alla religione per rimanere ancorata al nocciolo duro della propria identità. Tutto ciò però va al di là del “ essere moderni sul lavoro e tradizionali in casa” è un qualcosa di più complesso perché l’immigrazione comporta un continuo bilanciamento tra la funzione ontologica e la funzione pragmatica dei propri orientamenti per distinguere ciò che si può accettare come compromesso possibile per l’integrazione e ciò che permane come ontologico, fondativo della propria visione del mondo. Si attua così la c.d. “strategia di alternanza di codici” necessaria ai processi di integrazione e per cercare di superare i conflitti che ne scaturiscono. Gli immigrati vivono costantemente questa condizione di liminalità in cui non si è più quello che si era prima di partire ne qualcosa di nuovo: ciò è particolarmente evidente fra le donne magrebine che con l’emigrazione sperimentano per la prima volta il distacco dalla realtà familiare e dal controllo maschile che in essa si esperisce. Le donne vivono conflittualmente questa condizione perché da un lato vorrebbero approfittare della maggiore libertà ma dall’altro non sanno come fare a chi affidarsi per esempio nella gestione familiare che invece nel proprio paese era chiara. La mancanza di rete familiare di supporto fa sperimentare a queste donne un profondo senso di solitudine mitigato solo dall’aiuto delle connazionali ma purtroppo a volte più invasive che collaborative: la comunità agisce spesso come controllo sociale più che come reale sostegno.
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Dettagli appunto:
- Autore: Barbara Reanda
- Università: Università degli Studi di Perugia
- Facoltà: Scienze dell'Educazione
- Corso: Pedagogia
- Esame: Antropologia dell'educazione - III modulo: la cultura come ritualità legata alla nascita, saperi allevanti, pratiche di cura dell'infanzia.
- Docente: Faltieri
- Titolo del libro: Mille modi di crescere. Bambini immigrati e modi di cura.
- Autore del libro: AA.VV.
- Editore: Franco Angeli
- Anno pubblicazione: 2002
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