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Il mito e la figura delle Sirene

Il mito di Ulisse e la figura delle Sirene


Una bimba canta la canzone antica della donnaccia: “Quel che ancor non sai- tu lo imparerai- solo qui fra le mie braccia”
Quello che Fabrizio de André, nella sua canzone La città vecchia (1965), mette in bocca alla bambina-donnaccia è né più né meno che il canto ammaliatore della Sirena, che promette a chi si ferma “fra le sue braccia” la conoscenza di ciò che ancora non sa. Non a caso è canzone antica. Essa riprende, infatti, la tradizione omerica.
L’Odissea (canto XII) riferisce che le Sirene, adagiate su un prato, attiravano e perdevano i naviganti, e che Ulisse, per udire il loro canto e non perire, turate con cera le orecchie dei compagni, si fece legare all’albero della nave. Per tentarlo, le Sirene gli offrirono la conoscenza di tutte le cose del mondo.
Esse, dunque, rappresentano:
•    il sapere
•    la poesia, che è memoria tenace di sé e del mondo, conoscenza individuale ed universale. È per questo che essa seduce. Però dietro allo sguardo con cui penetriamo dentro noi stessi, dietro al sapere che la poesia ci offre, si cela la morte, la verità finale di ossa.
Ciò che Ulisse salva dal loto, dalle droghe di Circe, dal canto delle Sirene, non è solo il passato o il futuro. La memoria conta veramente- per gli individui, le collettività, le civiltà- solo se tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare (Calvino)
All’interno dell’Odissea ci si imbatte in più Odissee: il racconto che l’irriconoscibile Ulisse fa al pastore Eumeo, poi al rivale Antinoo e alla stessa Penelope è un’altra Odissea, tutta diversa. Ma questa nuova Odissea rimanda a un’altra Odissea ancora: ecco dunque che Ulisse racconta di un Ulisse in viaggio per paesi in cui l’Odissea che viene data per “vera” non l’aveva fatto passare (Calvino)
Tutti gli uomini per natura tendono al sapere (Aristotele, concetto ripreso poi da Dante nell’esordio del Convivio)
Favola del canto delle Sirene  rappresenta l’amore per la conoscenza e il sapere e la bramosia di apprendere degli uomini (Cicerone)
La storia delle Sirene ci viene narrata anche da Ovidio nelle sue Metamorfosi e ripresa da Lattanzio Placido Le Sirene erano figlie della musa Melpomene e del fiume Acheloo. Quando Proserpina fu rapita da Plutone, si misero alla sua ricerca ma non riuscirono a trovarla. Fu allora che invocarono gli dei affinchè venissero trasformate in uccelli per poter continuare la loro ricerca anche sul mare.
Apollonio Rodio nelle Argonautiche narra che Orfeo, dalla nave degli Argonauti, cantò con più dolcezza delle Sirene, e che queste si precipitarono in mare e trasformarono in rocce: perché la loro legge era di morire, se qualcuno non avesse subito il loro fascino
Molteplici sono state le trasformazioni subite nei secoli dalle Sirene. Per Platone, ad esempio, le Sirene erano divinità che presiedevano al moto dei cieli, secondo la struttura dell’universo delineata dal filosofo in chiusura del decimo libro della Repubblica, là dove il racconto di Er, di ritorno dal regno dei morti, conclude la lunga dissertazione sull’immortalità dell’anima. Per Platone, dunque, quello emesso dalle otto Sirene non sarebbe propriamente un canto, bensì un’unica nota volta a creare addirittura l’armonia delle sfere celesti. E non è un caso che esse “consuonino” in sintonia con le Parche, le quali conoscono passato, presente e futuro. Proprio questa “consonanza” potrebbe aver fatto sì che tale attributo di conoscenza sia passato poi anche alle Sirene.
Quel che è certo è che “nel corso del tempo, le Sirene cambiano forma” come recita sinteticamente alla voce Sirene, il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges riassumendo le molteplici descrizioni che diversi autori, in tempi lontani tra loro, ci hanno lasciato.
Da esseri per metà uccelli e per metà donne ma con piedi di gallina della tradizione greca, lungo i secoli progressivamente si trasformano diventando donne giovani e belle con la coda di pesce. Accanto alla trasformazione fisica anche il loro fascino muta: dalla seduzione intellettuale della conoscenza a quella tutta fisica dell’attrazione erotica. Quest’ultimo passaggio è forse più evidente negli scrittori cristiani dei primi secoli come Sant’Ambrogio che vedono nella figura di Ulisse l’emblema del vero cristiano che sa resistere alle tentazioni del mondo rimanendo attaccato al legno della croce di Cristo (l’albero della nave alla quale Ulisse si fa legare).
Del resto, emblema dei peccati di incontinenza, e in particolare della lussuria, risulta essere anche la “femmina balba” del Purgatorio dantesco (canto XIX), la quale, non a caso, canta: “io son dolce serena, che marinari in mezzo mar dismago”.
La metamorfosi più radicale, tuttavia, avviene nell’età contemporanea che, nella profonda crisi di valori che si manifesta soprattutto nel passaggio tra l’Otto e il Novecento, coinvolge anche il mito delle Sirene nella loro caratteristica fondamentale e specifica: il canto. Nella nuova età esse hanno perduto definitivamente la voce e dunque non cantano più.

Tratto da ULISSE E IL VIAGGIO di Livia Satriano
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