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La seconda fase della critica cinematografica



Dopo l’intervento riepilogativo di Bruno il dibattito della critica entra in una seconda fase. La polemica si è affievolita ed è ora di bilanci e di conclusioni; gli interventi diminuiscono e si stemperano nel tempo. I vari collaboratori della rivista riprendono la parola per approfondire o ribadire il già detto con l’intento di fornire un quadro d’insieme.
C’è chi come Alberto Pezzotta, si mostra abbastanza insoddisfatto e polemizza esplicitamente con Bruno. Per Pezzotta lo scarto che separa critica quotidianistica e riviste specializzate non è poi così netto.
Se da una parte si è attratti da un ideale di critica libera e diretta, dall’altra bisogna riconoscere che il giudizio di valore è troppo spesso legato a pregiudizi, idiosincrasie, arbitrarietà.
Dire come fa Bruno che il cinema si spiega con il cinema significa commettere: un errore epistemologico e c’è inoltre il rischio di un’a-problematica ratifica dell’esistente
Pezzotta dichiara di continuare a preferire l’inattualità di chi crede di poter ancora sfuggire alla logica omologante del flusso, magari proprio attraverso il tentativo di essere consapevoli di cosa ratifichiamo quando scriviamo.
C’è chi come Flavio De Bernardis, al X convegno di Urbino, ne approfitta per celebrare la morte definitiva del concetto di testo, che passa attraverso un ritorno all’opera come oggetto concreto e materiale; non si tratta più di scegliere, ma di catalogare.
Allo studioso non resta che constatare che il testo si conforma a seconda dell’istituzione che si incarica di tramandarlo.
È quindi necessario abbandonare la dimensione testuale per dedicarsi ad uno studio istituzionale, abbandonando certe categorie di matrice linguistica.
Complessivamente questa nuova fase del confronto porta in campo l’ennesima reiterazione della constatazione di una crisi del gesto critico in tutte le sue implicazioni istituzionali e metodologiche. Crisi che sulle pagine di Segnocinema si manifesta attraverso due strategie dominanti: la personalizzazione del ruolo del critico e quella che si potrebbe definire la sindrome mimetica della performance interpretativa.
Ciò che salverà la critica non potrà che essere la capacità esercitata dai singoli di sfuggire ai meccanismi routinieri e impersonali dell’istituzione stessa. Si aspetta sempre più l’illuminazione isolata dell’interprete di talento, dove il talento si misura solo in termini di rigore formale o metodologico ma anche e soprattutto in termini di capacità maieutica, capacità di far parlare l’immagine.
L’altra faccia della sfiducia metodologica è la constatazione del grado di indicibilità connaturato alle immagini e di una conseguente sofferenza verso l’inadeguatezza del significante-scrittura inteso come inevitabilmente poco ambiguo, lineare, piatto.
Già Bellour parlava dell’analisi testuale come luogo di uno spossessamento perpetuo.
L’analisi, freudianamente, non può che essere analisi interminabile, resa tale da un’irriducibile ricchezza delle materie dell’espressione coinvolte nel fatto cinematografico
L’unico modo di parlare di un film è fare un altro film: la vera teoria è la pratica.
A chi preferisce però ancora stare davanti allo schermo, non resta che rassegnarsi al fatto che il film è soprattutto un impaccio che costringe al principio di non evidenza.
Il critico-camaleonte è un critico frustrato a priori: non c’è doppio nel figurale.

Tratto da CRITICA CINEMATOGRAFICA di Nicola Giuseppe Scelsi
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