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La discrezionalità del giudice nella valutazione dei contratti


L’evoluzione degli ultimi decenni provoca una svolta netta rispetto al passato.
Si abbandona l’idea che l’ordine giuridico debba solo assicurare un controllo procedurale sulla formazione del consenso e muta il rapporto contratto/legge/giudice.
Il corollario del precedente assetto era chiaro: la volontà ha un effetto normativo limitato soltanto dalla legge; sono ragioni di ordine pubblico possono esigere correzioni materiali dell’accordo, mentre il giudice può accertare l’invalidità del contratto.
Caduta la fiducia nell’intervento diretto dello Stato e acquisita la consapevolezza di una maggiore attenzione ai diritti individuali rispetto all’utilità collettiva, mutano oggetto e soggetto del controllo.
Le valutazioni sul contenuto del contratto sono affidate non solo e non tanto ad elementi strutturali come la volontà e la causa, quanto anche ad un controllo di razionalità tramite buona fede attuato dal giudice.
La crisi della sovranità popolare e dello Stato di fronte ai processi di mondializzazione e di uniformazione di regole e il diverso ruolo e funzione della legge rispetto al mercato esigono mutamenti profondi nel modo e negli strumenti per garantire un tendenziale equilibrio nel contratto.
In tale contesto il richiamo della buona fede e della correttezza ha una funzione di integrazione del giudizio sui contegni dei privati secondo una razionalità che può essere assicurata proprio da una clausola generale in grado di tenere conto dell’assetto complessivo e di tutte le circostanze dell’affare.
L’ampliamento dei poteri del giudice è anch’esso un esito logico del mutato assetto normativo.
Prende atto dell’insufficienza della legge ed è una scelta necessitata considerando i due coni dell’alternativa: lasciare alla norma il compito di colmare ogni lacuna nell’assetto privato o consentire al giudice di “integrarlo nella maniera che ritiene più conforme e più rispettosa dell’interesse delle parti” e del dovere di correttezza.
I timori di un aumento della sua discrezionalità sono in gran parte infondati se si tiene conto che il giudizio secondo buona fede non crea preoccupanti novità rispetto “al libero convincimento che al giudice gli ordinamenti moderni riconoscono sul terreno della qualificazione vero/non vero relativamente ai fatti”.
Un problema può essere la propensione di chi giudica a formulare convincimenti personali e non criteri di valutazione basati su di una razionalità obiettiva che la clausola ha la funzione di richiamare, ma ciò può essere esercitato sia con orientamenti precisi del legislatore e della dottrina, sia da un recente indirizzo giurisprudenziale della Cassazione italiana.
La Suprema Corte ha precisato le modalità con cui deve avvenire il giudizio che attua una norma elastica, un concetto indeterminato o una clausola generale, e ha precisato che tale decisione rappresenta una decisione di diritto, soggetta ad impugnazione ai sensi dell’art. 360 n.3 c.p.c.

Tratto da DISCIPLINA GIURIDICA DEI CONTRATTI di Stefano Civitelli
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